Diritti dei migranti e antirazzismo

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La Chitarra e l’Apocalisse. Rock e Country dopo l’11 Settembre

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Sconvolto dagli eventi dell’11 Settembre, il mondo della musica country e rock si è diviso tra il sostegno alle politiche di guerra dell’Amministrazione Bush, e il richiamo alla tradizione antimilitarista e pacifista radicata da decenni negli Stati Uniti. Sul fronte “pacifista”, però, accanto alla memoria del Vietnam – una ferita ancora viva nell’immaginario americano – è emerso un filone dai temi innovativi. Una breve rassegna sulle reazioni ad un evento-spartiacque per la storia recente.

Qui sotto potete ascoltare The Rising, la splendida canzone di Springsteen dedicata all’11 Settembre. La tragedia delle Twin Towers, come noto, costituisce un evento-spartiacque destinato ad incidere profondamente nell’immaginario collettivo, americano e non solo. Come ha reagito il mondo della musica country e rock a questo evento così drammatico e decisivo?

Stupore, indignazione, solidarietà: le reazioni «a caldo»

La prima reazione, ovvia, è di stupore, indignazione e vicinanza alle vittime. Il 21 Settembre, pochi giorni dopo gli attentati, decine di artisti partecipano alla maratona televisiva A Tribute to Heroes, per raccogliere fondi a favore delle famiglie delle vittime e dei Vigili del Fuoco di New York. Su un palco illuminato dalle candele, si cantano canzoni di dolore e speranza, e si leggono messaggi di attori e presentatori. Scelto dalla rivista Rolling Stone come uno dei 50 momenti che hanno cambiato la storia del rock, il concerto in realtà non offre grandi prestazioni musicali (almeno a parere di chi scrive). Alcuni presentano canzoni inedite, la cui qualità non è delle migliori: I Believe in Love delle Dixie Chicks, per esempio, è forse una delle cose peggiori del trio texano. Altri cantano vecchi pezzi intrisi di retorica patriottarda. Come America The Beautiful, scritta alla fine dell’Ottocento da Katharine Lee Bates, eseguita da un irriconoscibile e quasi stonato Willie Nelson:

I repubblicani, la guerra al terrorismo e il country patriottico

All’indomani di una simile tragedia è forse inevitabile il richiamo ai valori nazionalisti, da sempre vivi nell’immaginario americano. Il Partito Repubblicano, però, mesta nel torbido, e usa le Twin Towers come pretesto per una campagna anti-islamica: sfruttando la paura e lo sdegno collettivi, riesce così a far approvare a tempo di record – nell’Ottobre 2001 – il Patriot Act, legge federale che introduce restrizioni ai diritti civili e alle garanzie di difesa per gli imputati. Il country “ufficiale” – raccolto attorno al potente circuito discografico di Nashville – è da sempre vicino ai repubblicani, e volentieri si mobilita ora nella nuova crociata. Vengono così rispolverate antiche canzoni patriottarde, come la citata America The Beautiful. O come God Bless America, una canzonetta diffusa negli anni ’30 e ’40 (contro la quale Woody Guthrie scrisse This Land is Your Land): subito dopo gli attentati, ne esce una versione di Celine Dion e una di LeAnn Rimes. Alla fine di Ottobre, balza al primo posto delle classifiche country Only in America di Brooks & Dunn. Si tratta di un pezzo che di politico ha ben poco, e che si limita a celebrare gli elementi fondamentali del sogno americano: libertà, gioia di vivere, possibilità per chiunque di avere successo. La canzone, però, viene fatta propria dai repubblicani, segno che anche la musica è ormai arruolata [per ascoltare il pezzo clicca qui; per il testo qui].

Ma la vera svolta avviene nel Luglio 2002, con la canzone di Toby Keith, Courtesy of Red, White and Blue: che non si limita a lamentare la patria ferita, ma incita proprio alla guerra. Ecco alcuni passaggi, in cui Keith si rivolge ai nemici, islamici e terroristi: «Lo zio Sam ha messo il vostro nome al primo posto della lista» [Uncle Sam put your name at the top of his list], tuona Keith. L’Aquila volerà – prosegue – «e sarà l’inferno quando sentirete Madre Libertà che suona la campana/ Sarà come se l’intero mondo piovesse addosso a voi, per gentile concessione del rosso, bianco e blu» [And the eagle will fly/ Man it’s gonna be hell/ When you hear Mother Freedom/ Start ringin’ her bell/ And it feels like the whole wide world is raining down on you/ Brought to you Courtesy of the Red White and Blue]. Una dichiarazione di guerra musicale, propedeutica a quella reale contro l’Iraq, che infatti scatterà pochi mesi dopo.

La memoria del Vietnam e il ritorno del pacifismo

Il country, però, non è solo Nashville: al suo interno fioriscono da sempre gli Outlaws (i «fuorilegge»), i dissenzienti, i sovversivi. Ed è ancora viva la generazione di musicisti che ha vissuto la guerra nel Vietnam. Proprio il Vietnam rappresenta la prima risorsa per dare voce, corpo e memoria al dissenso: quella guerra, infatti, è ancora una ferita aperta nell’immaginario statunitense, e paragonarla all’Iraq significa rendere comprensibili – per l’americano medio – le ragioni dell’opposizione ad un nuovo conflitto. La liaison tra i pacifisti degli anni ’60 e le «nuove leve» è rappresentata da Joan Baez, rimasta attiva sino ad oggi: nel periodo dell’Iraq la Baez apre i concerti all’estero con la frase Chiedo scusa per quel che il mio governo sta facendo al mondo. Ed esegue spesso un brano di Steve Earle, Christmas in Washington, dove sono rievocati i protagonisti dell’impegno civile americano: «Torna Woody Guthrie/ Torna da noi adesso/ Togli i tuoi occhi dal paradiso/ E alzati in qualche modo» [So come back Woody Guthrie/ Come back to us now/ Tear your eyes from paradise/ And rise again somehow]. E un appello simile è rivolto, pochi versi dopo, a Malcolm X e a Luther King, all’anarchica antimilitarista Emma Goldman, al cantante-sindacalista Joe Hill e a Gandhi [per ascoltare la canzone vai qui; per il testo qui].

Il parallelo col Vietnam è ripreso dalle Dixie Chicks, che più di altre raccolgono l’eredità artistica di Joan Baez: la loro Travellin Soldier, scritta da Charlie Robison e molto vicina allo stile della Baez, è ambientata nel periodo del Vietnam, ma è chiaro il riferimento all’attualità [non mi soffermo oltre sul brano, avendone parlato in questo blog]. In altre canzoni – come More Love, o la citata I believe in Love -, il trio contrappone alla logica della guerra quella dell’amore, con un richiamo ai temi del pacifismo anni ’60. E’ nota anche la vis polemica delle Dixie Chicks: contro Toby Keith e la sua canzone «guerrafondaia» (oggetto di una controversia tra l’autore e la leader del gruppo texano, di cui parlerò prossimamente), e contro Bush. Un analogo impegno è mostrato da Emmylou Harris, che con i veterani del Vietnam organizza un tour contro le mine [vedi Wikipedia]. E da Mary Chapin Carpenter, i cui ultimi dischi ripropongono i temi classici del pacifismo statunitense: l’orrore della guerra, la condanna della violenza da qualunque parte provenga. Così, mentre la struggente Grand Central Station rievoca la storia di un lavoratore a Ground Zero che ogni sera si reca alla Stazione di New York, in modo che le anime delle vittime possano seguirlo e tornare a casa, il rock vivace di On with the song è dedicato alle Dixie Chicks e alla loro battaglia contro la guerra [per ascoltare Grand Central Station vai qui; On with the song qui; leggi anche articolo di NPR].

Insomma, la prima risorsa del country «dissidente» è la riattivazione del repertorio tematico legato all’esperienza del Vietnam: la condanna della violenza, l’appello alla pace e all’amore, il richiamo ai «padri» del pacifismo e della nonviolenza (Gandhi, Luther King ecc.), oltre che alle icone della tradizione operaia e antimilitarista degli Stati Uniti, a cominciare da Woody Guthrie. Ma il potere evocativo del Vietnam non è l’unica strada seguita dai musicisti «impegnati»: nei mesi successivi all’11 Settembre emerge un filone tematico più coraggioso e innovativo, sul quale vale la pena spendere qualche parola.

Dare la parola al nemico: Steve Earle e Bruce Springsteen

Pur condividendo l’impegno pacifista, Bruce Springsteen e Steve Earle fanno un passo ulteriore in avanti. Nel clima avvelenato della crociata anti-islamica, i due rocker cercano, nelle loro canzoni, di dare la parola al nemico, o addirittura di immedesimarsi con lui: col nemico «generico» – lo straniero, il musulmano, l’immigrato arabo – ma anche col terrorista, l’attentatore, il militante di Al-Qaida. Non per condividerne le ragioni, certo, ma per ascoltarle, capirle, per restituire al mostro la fisionomia di un uomo. E per gettare ponti dove si sono eretti muri. E’ un’operazione difficile e controcorrente, che infatti procurerà qualche problema: non a Springsteen, il cui prestigio lo mette al riparo dalle polemiche, ma a Earle, che sarà tacciato di tradimento.

Nella splendida Worlds Apart («mondi separati»), pubblicata in The Rising, Springsteen sembra immaginare un amore al di là dei muri e delle frontiere. Un amore intenso, vissuto, sensuale, «carnale», e proprio per questo vivo, vitale e «vero»: più «vero» di quella Verità in nome della quale si combattono le opposte fazioni della «guerra al terrorismo». «A volte la verità non basta/ oppure è troppo in tempi come questi/ buttiamo via la verità, la troveremo in questo bacio/ nella tua pelle sulla mia pelle, nel pulsare dei nostri cuori/ che i vivi ci lascino entrare prima che i morti ci facciano a pezzi» [Sometimes the truth ain’t enough/ Or it’s too much in times like this/ Let’s throw the truth away, we’ll find it in this kiss/ In your skin upon my skin, in the beating of our hearts/ May the living let us in, before the dead tear us apart]. C’è qui il tema dell’amore contrapposto alla guerra, ma c’è di più: perchè la canzone è suonata insieme al musicista pakistano Asif Ali Khan. E il più americano dei rocker sceglie, all’indomani dell’11 Settembre, di pubblicare una canzone con un arrangiamento tipicamente pakistano, con una melodia simile ai canti degli Indiani d’America che si trasforma – con l’ingresso a metà brano della E Street Band – in una classica ballata rock. Vale la pena ascoltare tutto il pezzo [per il testo, con la relativa traduzione italiana, vai qui]:

La scelta, del tutto inconsueta per uno come Springsteen, di uscire dai confini della musica «americana», rappresenta un tentativo – scrive Antonella D’Amore – di «assumere per quanto possibile un punto di vista esterno, se non addirittura ostile a questa cultura» [A. D’Amore, Mia città di rovine. L’America di Bruce Springsteen, ManifestoLibri, Roma 2002, pag. 33]. Tentativo che ricorre in tutto l’album The Rising, uscito all’indomani dell’11 Settembre.

Ben più estrema, da questo punto di vista, è la strada seguita da Steve Earle: che prova ad immedesimarsi non con un arabo o un pakistano, non con un musulmano e nemmeno con un terrorista, ma con un vero e proprio «traditore». Con quel John Walker Lindh, cioè, che da cittadino statunitense si converte all’Islam e va a combattere con i talebani in Afghanistan.

Catturato dall’esercito americano nel Dicembre 2001, in pieno clima di crociata anti-islamica, Walker viene fatto oggetto di torture e trattamenti inumani dall’esercito del suo stesso paese (qui sopra la foto che ha fatto il giro del mondo). Poi, tornato negli Stati Uniti, viene additato dalla stampa e dai mass-media come un traditore, mentre alcuni politici – tra i quali il Sindaco di New York Rudolph Giuliani – ne chiedono la condanna a morte per alto tradimento. Alla fine, il giovane sarà condannato a 20 anni di prigione, nonostante non vi siano prove di una sua partecipazione ad azioni terroristiche [leggi dossier di PeaceReporter; appello della campagna freejohnwalker in inglese].

In John Walker Blues, Steve Earle fa parlare in prima persona proprio John Walker, che racconta la sua scelta religiosa e la sua esperienza di combattente: «Sono solo un ragazzo americano cresciuto con MTV/ e ho visto tutti quei ragazzi nelle pubblicità delle bibite/ ma nessuno di loro mi assomigliava/ Così ho cercato la luce fuori dall’oscurita/ E la prima cosa che ho sentito che aveva senso era la parola di Maometto, la pace sia con lui» [I’m just an American boy raised on MTV/ And I’ve seen all those kids in the soda pop ads/ But none of ‘em looked like me/ So I started lookin’ around for a light out of the dim/ And the first thing I heard that made sense was the word Of Mohammed, peace be upon him] [per il testo della canzone, con la traduzione italiana, vai qui; leggi anche saggio di Diana Bianchi].

Le parole che Earle mette in bocca al giovane sono un atto di accusa contro la società americana: forse, sembra dirci il rocker texano, la scelta di John Walker è il frutto non del «tradimento», ma dell’insoddisfazione per i valori proposti dalla cultura del suo paese. E infatti, il giovane è «solo un americano», uno come gli altri, «a regular guy» (una persona normale), per citare un altro noto pezzo di Steve Earle: un ragazzo, insomma, cresciuto con la televisione (MTV, per chi non lo sapesse, è un’emittente che trasmette musica) e con i prodotti di consumo, esattamente come tutti gli altri suoi coetanei. Dunque, il terrorista non è un «mostro» venuto da fuori, perchè le sue scelte – che Steve Earle non giustifica ma prova a capire – derivano anche dalla crisi del mondo occidentale, del nostro mondo. In questo modo, la canzone restituisce un’umanità a colui che – con un dispositivo tipico delle retoriche di esclusione dei nostri tempi – era stato disumanizzato, fino ad essere dipinto come un essere «mostruoso» e, appunto inumano.

Country Music, Veltrusconi, violenza sulle donne

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Chissà se i «filoamericani» Walter Veltroni e Silvio Berlusconi conoscono questa canzone dell’americanissima Martina McBride, intitolata «Independence Day»: riguarda le violenze contro le donne ma, a differenza di quanto fanno i seguaci nostrani (e maldestri) delle stelle e striscie, non chiama in causa l’«unica matrice rumena» degli stupratori. Non usa nemmeno una formula equivalente, più adatta al contesto migratorio statunitense (che so? una cosa del tipo «unica matrice latinoamericana delle violenze», o similia…). Più sobriamente, chiama le cose col loro nome: perchè il «bruto» del video originale (a proposito, consiglio a tutti di guardarlo, si trova in questa pagina di youtube) non è straniero, non è clandestino, non è rumeno e nemmeno zingaro, ma è un americanissimo marito. Così come, qui da noi, sono gli italianissimi mariti, parenti, fidanzati e amanti i principali responsabili delle violenze sulle donne (come dimostrano tutti i dati disponibili). Checchè ne dicano Veltroni e Berlusconi…

La canzone, pubblicata nell’album The Way That I Am, del 1993, diventa presto un vero e proprio classico del country moderno, e vince numerosi premi (aggiudicandosi tra l’altro il titolo di «video musicale dell’anno 2004» al Country Music Association Awards). E proprio guardando il video originale – anche senza affannarsi a tradurre il testo della canzone dall’inglese – si può ricostruire la vicenda raccontata dalla McBride: è la storia delle continue violenze che un marito infligge alla moglie, raccontata dal punto di vista della figlia di otto anni. Durante uno dei tanti litigi tra i genitori, la bambina esce di casa e va per strada, a seguire i festeggiamenti per la Festa Nazionale dell’Indipendenza (l’Independence Day che dà il titolo alla canzone). Qui, i gesti dei clown – che mimano una rissa a calci e pugni – richiamano alla mente della bambina quanto sta accadendo a casa in quello stesso istante. Ed è formidabile l’accostamento tra la festa nazionale americana e le violenze domestiche che accadono ogni giorno nella «patria della libertà»: una vera e propria lezione a chi – nei paesi sudditi come il nostro – blatera di «unica matrice straniera» delle medesime violenze.

La canzone, in effetti, squarcia un velo di omertà diffuso a suo tempo nel mondo della musica country, e nella cultura americana più in generale: tanto da diventare – come scrive il blog Country Universe, non senza un po’ di enfasi forse eccessiva – una sorta di «inno» (anthem) della cultura popolare. La conclusione della storia è tragica. La moglie, esasperata dai continui soprusi, compie un gesto disperato: incendia la propria abitazione, provocando la morte sua e del marito. La bambina, che nella scena dei clown ha presagito quanto stava per accadere, si precipita a casa ma trova, tra le macerie ancora fumanti, solo i pompieri che cercano di spegnere l’incendio. Gli ultimi fotogrammi del video ritraggono la bambina in lacrime dentro una macchina della polizia.

Dopo la McBride – che nel frattempo diventa portavoce di numerose associazioni impegnate nella lotta alla violenza domestica – altre country e folk singer si cimentano sulle stesse tematiche: negli ultimi quindici anni, anzi, la violenza sulle donne diventa uno dei filoni principali – assieme a quello della pace e della guerra – della musica country «politicamente impegnata» (un genere molto più diffuso di quanto lo stereotipo del country-cowboy lascerebbe intendere).

Due anni dopo la pubblicazione di Independence Day, Faith Hill scrive A Man’s Home Is His Castle («la casa di un uomo è il suo castello»), una ballata struggente e amara, che riprende in qualche modo il tono rassegnato del pezzo della McBride. Vale la pena ascoltarla (il testo si trova qui):

Ugualmente «impegnato», ma di tono ben più irrivente e provocatorio, è il pezzo delle Dixie Chicks Goodbye Earl, pubblicato nel 1999, che tra l’altro apre il loro bellissimo live del 2003 (Top of the World Live). Anche in questo caso, per capirne la storia basta vedere il video originale (il testo si trova qui):

Wanda e Mary Ann si conoscono a scuola, diventano amiche, studiano insieme e si frequentano ogni giorno. Alla fine del liceo, Mary Ann decide di allontanarsi dalla città in cui vivono. Wanda, rimasta sola, si guarda intorno e «tutto quel che trova» – nel piccolo e provinciale luogo di ambientazione della vicenda – è Earl: un uomo corpulento, rozzo, dai modi bruschi, che sin dal giorno del matrimonio comincia a picchiare la nuova moglie fino a mandarla in Ospedale, in terapia intensiva. Fin qui, la drammaticità della storia richiama Independence Day. Ma la vicenda cambia subito tono: perchè nella piccola cittadina di provincia piomba l’amica, Mary Ann, che propone all’antica compagna di scuola l’omicidio del marito. Che infatti viene prima avvelenato, poi gettato ormai cadavere in un fosso.

L’omicidio non provoca alcun rimorso nelle due ragazze: che, anzi, nella scena finale del video si ritrovano a ballare nel centro del paese, e costringono alle danze persino il cadavere di Earl. Al clima di festa cittadina, allegro e scanzonato, fa da contraltare non solo il «morto che balla», ma anche la maglietta col teschio indossata da Martie Maguire (la violinista del gruppo).

Un finale un po’ crudo, forse: ma raccontato, con le immagini, in modo irriverente, scanzonato, provocatorio, volutamente scherzoso. Alla fin fine, si tratta pur sempre di una canzone. Sarà sempre meglio che invocare l’esercito contro improbabili «bruti» rumeni, o zingari…

Verso la Terra Promessa: Do Re Mi, il canto delle migrazioni

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Negli anni ’30 del XX secolo, ripetute tempeste di sabbia devastano le campagne del Sud degli Stati Uniti, distruggendo le economie agricole di quelle regioni e gettando sul lastrico intere comunità: gli Stati più colpiti sono Texas, Arkansas, Oklahoma. Alla fine di ogni tempesta, gli abitanti si accorgono che il mondo attorno a loro non è più quello di prima: una coltre spessa di polvere resta depositata sui campi, nelle case e persino nelle città, che diventano così inospitali e inabitabili. Una vera e propria catastrofe ecologica, che come tutti gli eventi di questo tipo è destinata a produrre migliaia di rifugiati. Nel video che vedete sopra, ad accompagnare la splendida canzone di Woody Guthrie Do Re Mi – qui eseguita da John Mellencamp -, ci si sono le immagini che documentano le devastanti conseguenze delle tempeste, soprannominate dust storm (tempesta di polvere, appunto) o dust bowl (catino, scodella di polvere).

Dalla parte opposta degli Stati Uniti, a Ovest, c’è la ricca e fertile California: in cui, secondo una canzone di Jimmie Rodgers scritta nel 1928 – California Blues – «si dorme fuori tutta la notte e l’acqua ha il sapore del vino di ciliege». Nei territori devastati dalle tempeste arrivano notizie promettenti, si diffondono volantini che invitano ad andare laggiù, nella Terra Promessa: dove c’è lavoro per tutti, la vita non costa niente, il clima è mite e non c’è polvere nell’aria…

«Al confine della California, sorvegliato militarmente come una frontiera», scrive Alessandro Portelli, «si presentano tra l’Estate del 1935 e l’Estate del 1936 centinaia di migliaia di profughi. 125.000 arrivano in auto ai soli ingressi autostradali; altre decine di migliaia sui treni, a piedi, in strade secondarie» [A. Portelli, Woody Guthrie e la cultura popolare americana, Sapere 2000 edizioni, Roma 1990, pag. 70]. Le autorità dello Stato – forse gli antenati dell’assessore Cioni di Firenze – stabiliscono però il blocco antivagabondi: chi non ha soldi viene rispedito indietro o addirittura arrestato. L’ingresso nella Terra Promessa è, insomma, tutta una questione di «grana»: e proprio la «grana» (detta, nello slang americano dell’epoca, Do Re Mi) è l’oggetto polemico della canzone di Woody Guthrie che potete ascoltare nel video qui sopra:

«Un sacco di gente all’Est, si dice
se ne va da casa tutti i giorni
e si mette su un sentiero assolato e polveroso
verso il confine della California

Attraversano le sabbie del deserto
per uscire dalla terra della polvere
credono di andare in una terra di zucchero
ma ecco cosa trovano:

La polizia all’ingresso gli dice
sei il numero quindicimila per oggi
E se non avete la grana, ragazzi
se non avete la grana
è meglio che torniate nel vostro bel Texas
in Oklahoma, Kansas, Georgia, Tennessee

La California è un giardino dell’Eden
un paradiso per abitarci o visitarla
ma, credeteci o no
non la troverete così eccitante
se ci venite senza la grana»

[Lots of folks back East they say/ leaving home every day/ Beating the hot old dusty way/ to the California line/ Cross the desert sands they roll/ getting out of the old dust bowl/ Think they’re going to a sugar bowl/ but here’s what they find/ Now police at the port of entry say/ “you’re number fourteen thousand for today”/ Oh, if you ain’t got the do re mi, folks/ you ain’t got the do re mi/ Why you better get back to beautiful Texas/ Oklahoma, Kansas, Georgia, Tennessee/ California is a garden of Eden/ a paradise to live in or see/ But believe it or not/ you won’t find it so hot/ If you ain’t got the do re mi. Per il testo integrale della canzone vedere qui]

Woody Guthrie dà voce a quei migranti – definiti sbrigativamente Okies, nel senso di «abitanti dell’Oklahoma», quando in realtà provengono, come abbiamo visto, da vari Stati del Sud – che scoprono «la violenta ostilità e il disprezzo della California ricca e sicura» [Portelli, cit. pag. 69]. Un’ostilità e un disprezzo che si credevano riservati ai neri, e che ora colpiscono anche – con analogo razzismo – i bianchi poveri. Intanto gli amministratori e gli abitanti delle città californiane – antenati non solo dell’assessore Cioni, ma dei nostrani Sindaci leghisti – organizzano ronde contro i rifugiati, li cacciano dai centri urbani, costringendoli ad accamparsi ai margini, in luoghi desolati e inospitali.

Per concludere un’altra bella versione di Do Re Mi, di Ry Cooder:

 

 

Johnny, l’eroe rock: da Chuck Berry a Bruce Springsteen

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

https://youtu.be/T38v3-SSGcM

Chi non conosce Johnny B. Goode di Chuck Berry? Scritta nel 1955, pubblicata nel 1958, questa canzone rappresenta un atto fondativo, quasi un certificato di nascita del rock’n’roll: eseguita e rifatta da innumerevoli musicisti, ha percorso l’intera storia del rock moderno. E se tutti ormai conoscono – anche solo per averlo sentito una volta – il ritmo travolgente di questo pezzo, meno conosciuta è la storia che esso racconta.

Johnny, il protagonista, è un giovane americano qualunque: il nome è uno dei più diffusi negli Stati Uniti, un po’ come dire “il signor Rossi” in Italia. Bene, questo signor Rossi è un ragazzotto di campagna, uno che non sa nè leggere nè scrivere, e che in compenso – come molti americani della sua generazione – suona benissimo la chitarra [a country boy named Johnny B. Goode/ Who never ever learned t read or write so well/ But he could play the guitar just like a ringing a bell]. Anzi, la chitarra la porta sempre con sè, in una borsa di pelle [He used to carry his guitar in a gunny sack]: di tanto in tanto si ferma a riposare sotto un albero, vicino alle rotaie del treno, e comincia a suonare, conquistando lo stupore e l’ammirazione dei passanti. La madre di Johnny – la signora Rossi, per così dire… – profetizza per lui un futuro radioso: «un giorno sarai un uomo, sarai a capo di una grande banda musicale: molta gente verrà da lontano a sentirti suonare […], forse un giorno il tuo nome sarà su un insegna che dice Stasera Johnny B. Goode» [His mother told him, “Someday you will be a man, And you will be the leader of a big old band. Many people coming from miles around To hear you play your music […] Maybe someday your name will be in lights Saying Johnny B. Goode tonight”]. Per il testo della canzone e la traduzione in italiano vedi qui

Chi è dunque Johnny B. Goode, chi è questo “signor Rossi” americano? Per molti aspetti, è l’incarnazione dello stesso Chuck Berry: anche lui un umile “signor Rossi”, tra l’altro nero (in un’America razzista e discriminatoria), capace di scalare le vette del successo musicale. Per altri aspetti, è il giovane adolescente degli anni ’50: ribelle, consapevole, ansioso di emergere. «Oggi può sembrare difficile da comprendere», ha scritto Gino Castaldo, «eppure un tempo [prima dell’esplosione del rock and roll, ndr] non esisteva l’idea del giovane come precisa categoria sociale. O almeno non come figura indipendente, dotata di un suo codice e di un suo mondo di riferimenti esclusivi. Prima era solo un uomo immaturo, un piccolo adulto in un periodo di addestramento alla vita, in procinto di entrare nella società. L’idea del giovane come figura autonoma ha una precisa origine. E’ l’effetto di un poderoso mutamento economico e sociale che avviene in America a partire dalla fine degli anni ’40 ed esplode tra il 1954 e il 1955, abbassando considerevolmente l’età del potenziale consumatore [musicale]» [G. Castaldo, La Terra Promessa. Quarant’anni di cultura rock (1954-1994), Feltrinelli, Milano 1995, pag. 50]. Il rock and roll è, appunto, il primo genere musicale che si rivolge al giovane adolescente come soggetto autonomo: e il signor Rossi/Johnny è il suo principale destinatario.

Johnny è anche – e forse soprattutto – l’incarnazione del mito americano, dell’american way of life: l’idea per cui il riscatto, il successo e la fortuna possono arridere a chiunque, anche a un tizio qualsiasi figlio di nessuno.

Come osserva Castaldo, Johnny diventa, nella storia del rock, un vero e proprio personaggio, ben al di là della creazione di Chuck Berry: è stato infatti «ripreso innumerevoli volte, diventando uno dei maggiori classici del rock […] al punto da risorgere in continuazione in tantissimi esempi successivi, che si rifanno più o meno direttamente all’originale: dal Johnny della dylaniana Subterranean homesick blues, alle diverse mutazioni in chiave reggae, prima tra tutte quella di Johnny too bad, a sua volta un classico che vanta innumerevoli versioni» [Castaldo, cit., pag. 66].

Una delle ultime versioni/mutazioni del “signor Rossi” è il Johnny 99 di Springsteen: anche lui un tizio qualsiasi, figlio di nessuno, proveniente dalle classi meno abbienti e dal mondo del lavoro. In Springsteen, però, il sogno americano – quello del ragazzo povero che può diventare ricco e famoso – si trasforma in un incubo: perchè Johnny può, certo, diventare ricco e famoso, ma può anche non diventarlo. Specie se le condizioni sociali in cui è costretto a vivere glielo impediscono: «hanno chiuso la fabbrica di automobili in Mahwah gli ultimi di questo mese/ Ralph si mise in cerca di un lavoro ma non ne trovò neanche uno/ arrivò a casa troppo ubriaco per aver mischiato Tanqueray e vino/ ha tirato un colpo di pistola ad un portiere di notte e ora lo chiamano Johnny 99» [Well they closed down the auto plant in Mahwah late that month/ Ralph went out lookin’ for a job but he couldn’t find none/ He came home too drunk from mixin’ Tanqueray and wine/ He got a gun shot a night clerk now they call ‘m Johnny 99].

Così, il protagonista della vicenda si ritrova di fronte al giudice, che la canzone definisce mean (cattivo, malvagio), mentre l’uso dell’aggettivo poor (povero) è riservato all’omicida (un’inversione di termini che farebbe incazzare, in Italia, tanto Veltroni quanto Berlusconi: dove la mettiamo l’emergenza sicurezza?). E l’arringa di Johnny è un atto di accusa contro la società americana:

«Signor Giudice avevo debiti che nessun uomo onesto può pagare
La banca teneva stretta la mia ipoteca
e loro si stavano portando via la mia casa
Ora non sto dicendo che questo faccia di me un innocente
Ma è stato tutto questo a mettere quella pistola in mano mia
Quindi, Vostro Onore, credo che sarebbe meglio uccidermi […]
Allora, non volete sedervi nuovamente su quella sedia
e pensarci sopra un’altra volta, Giudice,
E lasciare che mi rasino a zero i capelli e che mi mettano sulla sedia?»

[Now judge I got debts no honest man could pay/ The bank was holdin’ my mortgage and they was takin’ my house away/ Now I ain’t sayin’ that makes me an innocent man/ But it was more ‘n all this that put that gun in my hand/ Well your honor I do believe I’d be better off dead/ […] Then won’t you sit back in that chair and think it over judge one more time/ And let ‘em shave off my hair and put me on that execution line]

Il soprannome 99 si deve agli anni di prigione – novantanove, appunto – cui Ralph/Johnny viene condannato per il suo delitto. L’ottimistico american dream di Chuck Berry si trasforma dunque, in Springsteen, in un drammatico atto di accusa contro le esclusioni, discriminazioni e disperazioni indotte dalla società americana. E, come scrive ancora Castaldo, «questi Johnny […] sono comunque eroi delle classi meno abbienti: il primigenio Johnny è in un certo senso il primo working class hero di cui si avrà piena coscienza solo alcuni anni dopo» [Castaldo, cit., pag. 67].

Per concludere, ecco Springsteen e Berry insieme, in un’esecuzione dal vivo di Johnny Be Goode:

 

Jimmy Rodgers, il fondatore della country music

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Quello che vedete qui sopra è Jimmy Rodgers, considerato il fondatore della moderna country music, attivo negli anni ’20 del Novecento: il pezzo è Blue Yodel n. 1, T for Texas. James Charles Rodgers – questo il suo vero nome – nasce nel Mississippi l’8 settembre 1897 da una famiglia di umili origini. Dopo la morte della madre (avvenuta nel 1904), va a vivere dalla zia, un’ex insegnante con una buona preparazione musicale. Ed è proprio grazie a lei che acquisisce familiarità con la musica, ed impara ad apprezzare i generi più popolari in questo periodo: il vaudeville (spettacolo di varietà leggero di derivazione francese), la canzone per operetta e il pop. La musica, in questi primi anni, è però ancora un passatempo: professionalmente, Jimmy viene indirizzato dal padre al lavoro alle ferrovie, dove opera per alcuni anni come brakeman (frenatore). A metà degli anni ’20, Jimmy viene notato dal prestigioso talent-scout Ralph Peer, che lo spinge ad effettuare le prime registrazioni per la casa discografica Victor.

Sono, gli anni Venti, un periodo di grandi trasformazioni nel mondo della musica. Nelle case di gran parte degli americani arriva la corrente elettrica – diffusa anche nelle campagne – e con essa la radio. Alcune emittenti radiofoniche “scoprono” la musica rurale, a cui dedicano intere trasmissioni: a dare avvio al fenomeno è la WSB di Atlanta (Georgia), che trasmette in molti Stati del Sud e dell’Ovest, seguita dalla texana WBAP, che nel 1923 “inventa” il primo appuntamento radiofonico di musica “country”, il radio barn dance (“ballo del granaio via radio”), con esecuzioni dal vivo dei gruppi di origine rurale. Contemporaneamente, due grandi etichette discografiche (la Okeh, guidata da Ralph Peer, e la Victor) incidono i primi dischi hillbilly (la musica dell’area appalachiana, eseguita per lo più da gruppi che suonano strumenti a corda, detti per questo string bands). Grammofono e radio contribuiscono a far conoscere al grande pubblico la musica delle string bands (fino ad allora confinata nei Southern Appalachians). Ma proprio la diffusione di questa musica al di là dei suoi confini “naturali” finisce per modificarne le caratteristiche: per rispondere alle aspettative di un pubblico nuovo, le case discografiche e le emittenti radiofoniche incentivano le esecuzioni “spurie”, che ibridano le melodie tradizionali con sonorità provenienti dal pop, dal vaudeville, ma anche dalla musica nera (il blues) e dai canti di lavoro. Quello che oggi chiamiamo country è per lo più il prodotto di questa ibridazione: e Jimmy Rodgers ne è uno dei fondatori.

Le sonorità che potete ascoltare nel video qui sopra sono infatti molto lontane da quelle tradizionali dell’area appalachiana. Determinante è anzitutto il contributo delle sonorità blues, provenienti dalla musica nera: la distinzione tra musica “bianca” e musica “nera” è, nell’ambiente americano, abbastanza artificiosa, visto che le diverse sonorità si sono fuse e mescolate in modo spesso imprevedibile (lo stesso banjo, oggi considerato lo strumento “bianco” per eccellenza, è in realtà di origine africana…). In secondo luogo, Jimmy Rodgers introduce nelle sonorità country il blue yodeling: si tratta di uno stile di canto, il cui nome ne indica la derivazione dallo yodeling svizzero e austriaco. Le sue origini, però, non sono così chiare, ed è molto probabile che lo yodeling derivi dai canti di lavoro dei lavoratori neri, canzoni simili a grida, lamenti solitari o richiami funzionali, che spesso rompono in un falsetto.

La musica “spuria” di Jimmy Rodgers verrà chiamata modern country music, per distinguerla dalla traditional country music più legata alle sue origini appalachiane. Il successo arriva presto, e anzi Rodgers è ricordato come la prima vera star del country, con un atteggiamento più commerciale, orientato verso il successo personale e la costruzione di una sorta di mito mediatico.

La carriera di Rodgers, tuttavua, non dura a lungo: il cantante viene stroncato dalla tubercolosi nel 1933, pochi anni dopo aver raggiunto l’apice del successo.

Per approfondire:

Jimmie Rodgers, di Mariano de Simone in The Long Journey;

Jimmie Rodgers, la prima vera star della musica country pop, di Maurizio Faulisi in The Long Journey;

– Mariano De Simone, La musica country, Castelvecchi, Roma 1997, pagg. 93 e ss.

Long Black Veil

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Molti conosceranno questo pezzo, qui eseguito dai Chieftains: si tratta di Long Black Veil, citato da molti siti e riviste come “brano tradizionale anglo-irlandese, ripreso da numerosi musicisti country e folk nordamericani”. E’ la storia di un uomo ingiustamente accusato di omicidio: dieci anni prima, in a cold dark night (“in una notte fredda e scura”), c’era stato un brutto fatto di sangue, e il colpevole, avvistato dalla folla mentre fuggiva, assomigliava molto allo sfortunato protagonista della vicenda (looked a lot like me). Il giudice chiede quale sia l’alibi dell’imputato, e cerca anche di tranquillizzarlo: se quella notte eri da un’altra parte, gli dice in sostanza, non ti condannerò a morte. Lui, però, “non dice una parola” (I spoke not a word), pur sapendo che in quel modo si gioca la vita (though it meant my life). Il motivo lo spiega subito dopo: quella fatidica notte l’uomo si trovava con la moglie del suo migliore amico (I had been in the arms of my best friend’s wife). Segue l’inevitabile condanna a morte e la conseguente esecuzione, alla quale la donna assiste senza versare una lacrima (she stood in the crowd and shed not a tear). Il segreto resta dunque custodito dal protagonista della vicenda, che da morto parla in prima persona, e dalla donna, che periodicamente fa visita alla tomba vestita di un lungo velo nero, a long black veil: da cui il titolo della canzone. Il modo di narrare gli eventi, la melodia, l’ambientazione della storia sembrano tipiche di un pezzo tradizionale: tra l’altro, le murder ballads (le canzoni che parlano di omicidi e fatti di sangue) sono tipiche dei Southern Appalachians. In questo caso, però, il brano non ha nulla di tradizionale …

Come spiega il blog di Ed Richmond, Long Black Veil è relativamente recente: è stata scritta infatti nel 1959 da Marijohn Wilkin e Danny Dill. La prima registrazione del pezzo è di Lefty Frizzel, sempre del 1959. Eccola:

Pare che il brano si ispiri ad una vicenda realmente accaduta nel New Jersey, alla quale gli autori hanno aggiunto la storia del “lungo velo nero”, mutuandola da una leggenda metropolitana diffusa sui giornali dell’epoca: secondo questa leggenda, una donna dal velo nero avrebbe visitato regolarmente la tomba di Rudolph Valentino, leggendario attore italo-americano, uno dei primi sex symbol maschili portati alla ribalta dal cinema, morto nel 1926 (vedi sito della Band).

Dill e Wilkin, gli autori di Long Black Veil, compongono il pezzo come se fosse una vecchia ballad “appalachiana” (i monti Appalachi sono considerati il luogo di nascita della musica country), e lo consegnano alla country-star Lefty Frizell, che ne fa una registrazione nel Marzo 1959. Il successo è immediato, e Long Black Veil diventa una delle canzoni delle più cantate ed eseguite. Vi si sono esercitati un numero impressionante di musicisti. Le prime versioni sono dei Kingston Trio (1962) e di Joan Baez (1963), nel 1965 arriva quella di Johnny Cash, che poi la suona anche al Folsom Prison tre anni dopo. Seguono, tra gli altri, Bill Monroe (1970), Marianne Faithfull (1984), Nick Cave (1986), e ancora i Chieftains con Mick Jagger (1995), Dave Matthews ed Emmylou Harris (1999), Ani di Franco (2004), gli Stranglers (2004) e persino Bob Dylan e Bruce Springsteen.

Ecco qualche versione, tra le più belle e significative.

Quella di Johnny Cash:

Quella di Springsteen:

… E quella di Dave Matthews e di Emmylou Harris:

Degli autori “originari” della canzone si perderanno le tracce: il pezzo, eseguito da un numero impressionante di star della musica country e rock, diventerà una sorta di standard di quei generi musicali. In questo senso – e solo in questo senso – si tratta davvero di un pezzo tradizionale, perchè fa parte del repertorio “naturale” della musica folk nordamericana: la derivazione di quest’ultima dalle melodie irlandesi, e il rifacimento del pezzo da parte dei Chieftains, finiranno poi per creare l’equivoco della “ballata anglo-irlandese”.

Come molte cose “tradizionali”, insomma, anche Long Black Veil non si perde nella notte dei tempi, ma ha una precisa data di nascita: che, come spesso accade, è molto più recente di quanto la parola “tradizionale” lasci supporre…

Se le mogli son come i buoi…

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Geritol è il nome di un integratore minerale e vitaminico molto diffuso negli Stati Uniti, prodotto da un’importante multinazionale farmaceutica. La sua fama si deve, tra l’altro, ad alcuni spot televisivi di cattivo gusto. Uno di questi, trasmesso negli anni ’70, mostra un uomo che vanta le illimitate energie della moglie, tutta dedita ai doveri coniugali: pulire casa, cucinare, lavare i piatti… Alla fine, l’uomo conclude soddisfatto: “mia moglie, penso che la terrò” (my wife, I think I’ll keep her). Lo spot è rimasto famoso, quasi proverbiale: un po’ come da noi “nuovo? no, lavato con Perlana”, che non è più trasmesso da tempo, ma che tutti conoscono e continuano a citare. All’inizio degli anni ’90 Mary Chapin Carpenter, cantautrice tra le migliori della scena statunitense, scrive una canzone che rovescia il senso della frase: “lui pensa che se la terrà” (he thinks he’ll keep her). Lo pensa, ma non è vero. Perchè la mogliettina, che magari decide con la sua testa, potrebbe un giorno cambiare idea…

Il pezzo, pubblicato nel 1993, comincia in effetti con l’elencazione dei “doveri coniugali” scrupolosamente assolti dalla mogliettina:

She makes his coffee, she makes his bed
She does the laundry, she keeps him fed
When she was twenty-one she wore her mother’s lace
She said “forever” with a smile upon her face
She does the car-pool, she PTAs
Doctors and dentists, she drives all day

(Gli prepara il caffè, gli fa il letto/poi la lavatrice e il pranzo/a ventun anni prese il corredo di mamma/e disse “per sempre”, con un sorriso sulle labbra/lava la macchina, va alle riunioni/tra medici e dentisti, tutto il giorno al volante).

Quel “sorriso sulle labbra” che accompagna la promessa “per sempre” è già un spia di cosa potrà succedere: intanto, però,

Every Christmas card showed a perfect family
(…) Everything is so benign, safest place you’ll ever find

(Ogni cartolina a Natale mostra una famiglia perfetta/tutto va bene, il miglior posto che ci sia)

La descrizione dell’idillio familiare si conclude con la fatidica frase della Geritol he thinks he’ll keep her (“lui pensa che se la terrà”, riferito ovviamente alla moglie), e con un monito quasi religioso: God forbid you change your mind, “Dio ti proibisca di cambiare idea”. Il quadro di questa famiglia perfetta, benedetta addirittura dall’Onnipotente, si interrompe però in modo inaspettato:

She packs his suitcase, she sits and waits
With no expression upon her face
When she was thirty-six she met him at their door
She said I’m sorry, I don’t love you anymore

(Gli prepara la valigia, poi siede e aspetta/senza espressione nel viso/a trentasei anni lo incontra sulla porta/e dice “scusa, non ti amo più”).

Nei versi finali, Mary Chapin Carpenter rovescia il senso delle affermazioni precedenti: così, se le foto di Natale mostrano una famiglia perfetta, ciò accade “almeno finchè non cambi idea” (variazione di Dio ti proibisca di cambiare idea). E lui “pensa che se la terrà”: lo pensa, appunto…

Everything is so benign, safest place you’ll ever find
At least until you change your mind. He thinks he’ll keep her

(Tutto va bene, il miglior posto che ci sia/almeno finchè non cambi idea. Lui pensa che se la terrà).

Ecco qui sotto il pezzo in un’esecuzione collettiva, dove cantano le migliori “papesse” della country music di oggi, tra cui Emmylou Harris e Patty Loveless.

This land is your land: l’inno popolare degli Stati Uniti

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Questa è God Bless America (Dio benedica l’America), canzone scritta nel 1918 da Irving Berlin, ed eseguita da Kate Smith: un pezzo, retorico e nazionalista, che andava molto di moda tra la fine degli anni ’30 e l’inizio dei ’40 (Celine Dion ne ha rifatto una versione all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle). Woody Guthrie, cantastorie popolare attivo in quello stesso periodo, raccontò una volta che, stufo di sentire questo pezzo diffuso in continuazione alla radio, pensò di scrivere una specie di contro-canzone. Nacque così God blessed America for me (“Dio ha benedetto l’America per me”), oggi conosciuta come This Land is your Land (“questa terra è la tua terra”): divenuta con questo titolo il vero e proprio “inno popolare” degli Stati Uniti, cantata e conosciuta da tutti, anche da coloro che non hanno mai sentito parlare di Woody Guthrie…

Le prime strofe sono le più famose: “Questa terra è la tua terra, questa terra è la mia terra/dalla California all’isola di New York/dalle foreste di Sequoie alle acque del Golfo del Messico/questa terra è fatta per te e per me” (This land is your land, this land is my land/From California, to the New York Island/From the redwood forest, to the gulf stream waters/This land was made for you and me). Riprendono, in qualche modo, l’andamento di God Bless America: “Dalle montagne alle praterie, agli oceani bianchi e spumosi, Dio benedica l’America, mia dolce casa” (From the mountains, to the prairies, To the oceans, white with foam, God bless America, My home sweet home).

I versi “questa terra è fatta per me e per te” contengono già una polemica implicita contro il tono patriottardo della canzone “originale”, ponendo la centrale domanda America per chi e di chi? La cosa, però, risulta più chiara se si legge la prima stesura del brano, che contiene due strofe destinate a scomparire poi nel testo definitivo: “All’ufficio di collocamento, avrei visto la mia gente/Mentre stavano là affamati, io mi domandavo/se questo paese fosse fatto per te e per me/Mentre camminavo vidi un cartello laggiù/E il cartello, diceva, “Non oltrepassare”/Ma dall’altro lato [del cartello], non c’era scritto nulla/Quel lato è stato fatto per te e per me” (By the relief office, I’d seen my people/As they stood there hungry, I stood there asking/Is this land made for you and me/As I went walking, I saw a sign there/And on the sign there, It said, “No trepassing”/But on the other side, It didn’t say nothing/That side was made for you and me).

“L’America, dunque” – scrive Alessandro Portelli, a proposito di questi versi – “era stata fatta per quelli come me e come te, per la gente comune, per i disoccupati in fila per una minestra; ma qualcosa ci impedisce di goderla, e si chiama proprietà privata” (A. Portelli, Woody Guthrie e la cultura popolare americana, Sapere 2000 ed., Roma 1990, pag. 181).

Questi versi, come si è detto, scompaiono dalla versione definitiva. Qualcuno ha ipotizzato una sorta di “autocensura” dello stesso Guthrie: la situazione drammatica degli Stati Uniti nella fase della Guerra Mondiale avrebbe cioè sconsigliato un tono eccessivamente antipatriottico. Diversa l’interpretazione di Portelli, grande conoscitore della cultura popolare americana: “La caduta di queste strofe politicamente significative si spiega se si tiene conto di come cambia e si sviluppa una canzone popolare nella tradizione orale (…). In primo luogo, tendono a cadere gli elementi contingenti e occasionali, quindi sparisce la polemica originaria con la canzone patriottarda di Irving Berlin (…). Un altro meccanismo della tradizione orale è quello che elimina i passaggi logici e didascalici più scontati, per stabilire invece tra le varie parti di una canzone dei collegamenti intituitivi, meno lineari. Quindi a cadere sono destinate proprio le strofe sui disoccupati e sulla proprietà privata, che possono sembrare essenziali a chi non faccia parte della realtà sociale da cui viene Guthrie, ma che non fanno che ripetere cose scontate per i disoccupati o gli stagionali” (cit. pagg. 181-182).

La caduta dei versi più esplicitamente politici, tuttavia, finì per avere i suoi effetti, e la canzone di Guthrie divenne un vero e proprio inno popolare degli Stati Uniti, cantato a volte con toni patriottardi ben lontani dalla volontà originaria dell’autore. Il senso di questo brano non è andato tuttavia smarrito, e tuttora This Land is your land rappresenta, per cantastorie e musicisti, una sorta di “contro-inno”. Ne è una testimonianza l’esecuzione del pezzo fatta da Bruce Springsteen, che in un concerto ricorda anche la storia della canzone e il suo valore politico:

E, per finire, ecco la versione originale di Woody Guthrie:

 

Dixie Chicks, rock contro la guerra

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Non si direbbe, a vederle in questa foto. Tre ragazze biondo-platino, il sorriso stampato in carta patinata da vere regine dello star-system. E nello star-system, intendiamoci, ci sono davvero: sono famose (almeno negli Stati Uniti) e in questo non c’è nulla di male. Ma i loro pezzi sono quanto di meglio abbia prodotto la country-music negli ultimi anni. Ecco qui sotto un piccolo assaggio (su youtube la resa audio non è eccellente, ma dati i problemi di copyright bisogna accontentarsi…):

 

E se volete sentirne altre provate qui

A dare vita al gruppo, nell’ormai lontano 1989, sono due delle tre attuali componenti, le sorelle Martha Elenor Erwin e Emily Burns Erwin, rispettivamente violinista e banjoista, oggi conosciute coi nomi da sposate (Martha Maguire detta “Martie” ed Emily Robison). L’allora quartetto comprendeva anche la bassista Laura Lynch e la cantante chitarrista Robin Lynn Macy. Lo stile della band nei primi anni di attività è decisamente tradizionalista, ispirato all’immagine dei singing cowboy, e i primi tre album sono pubblicati da etichette indipendenti locali (Thank Heavens For Dale Evans del 1990, Little Ol’ Cowgirl del 1992, Shouldn’t A Told You That del 1993). Nel 1995 Laura Lynch e Robin Lynn Macy lasciano la band e vengono rimpiazzate dalla vulcanica e incontrollabile cantante Natalie Maines, figlia del noto chitarrista Lloyd Maines.

E’ una svolta nella vita del gruppo: il sound si fa meno tradizionale, più vicino al rock e più “popolare”. E nel 1998 arriva il primo contratto “importante” con la Monument Records, che pubblica Wide Open Spaces. La title track ed il singolo There’s Your Trouble raggiungono la vetta delle classifiche, mentre l’intero album diventa il disco di un gruppo country più venduto della storia. Del 1999 è Fly: i primi due singoli del disco, Ready To Run e Goodbye Earl tornano ai vertici delle classifiche, e le Dixie Chicks raggiungono ormai un pubblico sempre più vasto (bel al di là del country). Il terzo album, Home, segna un parziale ritorno a sonorità acustiche, e a melodie vicine alle tradizioni popolari.

In Home c’è anche uno dei loro pezzi più belli, Travellin’ Soldier, che è anche l’inizio di una lunga controversia. E’ passato poco meno di un anno dal drammatico attentato alle Twin Towers, stampa e televisioni hanno lanciato la crociata anti-islamica, gli Stati Uniti sono a un passo da una nuova avventura bellica: la canzone, che sembra uscita da un concerto di Joan Baez degli anni Settanta, rievoca il clima del Vietnam. Un soldato sta per partire in guerra, e conosce in modo casuale una ragazza col nodo ai capelli (“with a bow in her hair”) di cui si innamora: la loro storia, raccontata in pochi e brevi versi, è fatta di lettere scritte dal fronte, di attesa del ritorno, di ansia e di paura. E si conclude in modo tragico. Lo si capisce nella parte finale della canzone: a una partita di football, lo stadio si ferma per un attimo a commemorare i nostri morti in Vietnam (“the list of local Vietnam deaths”). Si declamano a uno a uno i nomi dei caduti: tutti sembrano distratti (“no one really cared”), tranne una ragazza col nodo ai capelli (“but a pretty little girl with a bow in her hair”). Ecco la canzone dal solito youtube:

 

L’anno successivo alla pubblicazione di Travellin’ Soldier scoppia la guerra contro l’Iraq, e la canzone diventa uno dei manifesti del movimento pacifista americano. Le Dixie Chicks sostengono apertamente le mobilitazioni del popolo della pace: durante un concerto a Londra, la cantante Natalie Maines scandisce la frase “we are ashamed that the president of the United States is from Texas” (Ci vergognamo che il Presidente degli Stati Uniti sia del Texas come noi). E scoppia il putiferio: il Partito Repubblicano protesta ufficialmente, gruppi di appassionati di country music si riuniscono inscenando roghi di dischi delle Dixie Chicks, le major revocano i contratti della band e, ciliegina sulla torta, Natalie Maines è oggetto di minacce di morte. Il tour del 2003 – nel corso del quale viene realizzato il live Top of The World Tour, forse il loro disco più bello – è scandito da proteste, polemiche, minacce esplicite e implicite. Il gruppo però non si ferma, promuove la causa della pace e reagisce in modo duro alle contestazioni. L’album successivo – Taking the long way – è del 2006, ed è in larga parte dedicato proprio alle vicende della controversia con Bush.

© 2024 Sergio Bontempelli

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