Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli
Sconvolto dagli eventi dell’11 Settembre, il mondo della musica country e rock si è diviso tra il sostegno alle politiche di guerra dell’Amministrazione Bush, e il richiamo alla tradizione antimilitarista e pacifista radicata da decenni negli Stati Uniti. Sul fronte “pacifista”, però, accanto alla memoria del Vietnam – una ferita ancora viva nell’immaginario americano – è emerso un filone dai temi innovativi. Una breve rassegna sulle reazioni ad un evento-spartiacque per la storia recente.
Qui sotto potete ascoltare The Rising, la splendida canzone di Springsteen dedicata all’11 Settembre. La tragedia delle Twin Towers, come noto, costituisce un evento-spartiacque destinato ad incidere profondamente nell’immaginario collettivo, americano e non solo. Come ha reagito il mondo della musica country e rock a questo evento così drammatico e decisivo?
Stupore, indignazione, solidarietà: le reazioni «a caldo»
La prima reazione, ovvia, è di stupore, indignazione e vicinanza alle vittime. Il 21 Settembre, pochi giorni dopo gli attentati, decine di artisti partecipano alla maratona televisiva A Tribute to Heroes, per raccogliere fondi a favore delle famiglie delle vittime e dei Vigili del Fuoco di New York. Su un palco illuminato dalle candele, si cantano canzoni di dolore e speranza, e si leggono messaggi di attori e presentatori. Scelto dalla rivista Rolling Stone come uno dei 50 momenti che hanno cambiato la storia del rock, il concerto in realtà non offre grandi prestazioni musicali (almeno a parere di chi scrive). Alcuni presentano canzoni inedite, la cui qualità non è delle migliori: I Believe in Love delle Dixie Chicks, per esempio, è forse una delle cose peggiori del trio texano. Altri cantano vecchi pezzi intrisi di retorica patriottarda. Come America The Beautiful, scritta alla fine dell’Ottocento da Katharine Lee Bates, eseguita da un irriconoscibile e quasi stonato Willie Nelson:
I repubblicani, la guerra al terrorismo e il country patriottico
All’indomani di una simile tragedia è forse inevitabile il richiamo ai valori nazionalisti, da sempre vivi nell’immaginario americano. Il Partito Repubblicano, però, mesta nel torbido, e usa le Twin Towers come pretesto per una campagna anti-islamica: sfruttando la paura e lo sdegno collettivi, riesce così a far approvare a tempo di record – nell’Ottobre 2001 – il Patriot Act, legge federale che introduce restrizioni ai diritti civili e alle garanzie di difesa per gli imputati. Il country “ufficiale” – raccolto attorno al potente circuito discografico di Nashville – è da sempre vicino ai repubblicani, e volentieri si mobilita ora nella nuova crociata. Vengono così rispolverate antiche canzoni patriottarde, come la citata America The Beautiful. O come God Bless America, una canzonetta diffusa negli anni ’30 e ’40 (contro la quale Woody Guthrie scrisse This Land is Your Land): subito dopo gli attentati, ne esce una versione di Celine Dion e una di LeAnn Rimes. Alla fine di Ottobre, balza al primo posto delle classifiche country Only in America di Brooks & Dunn. Si tratta di un pezzo che di politico ha ben poco, e che si limita a celebrare gli elementi fondamentali del sogno americano: libertà, gioia di vivere, possibilità per chiunque di avere successo. La canzone, però, viene fatta propria dai repubblicani, segno che anche la musica è ormai arruolata [per ascoltare il pezzo clicca qui; per il testo qui].
Ma la vera svolta avviene nel Luglio 2002, con la canzone di Toby Keith, Courtesy of Red, White and Blue: che non si limita a lamentare la patria ferita, ma incita proprio alla guerra. Ecco alcuni passaggi, in cui Keith si rivolge ai nemici, islamici e terroristi: «Lo zio Sam ha messo il vostro nome al primo posto della lista» [Uncle Sam put your name at the top of his list], tuona Keith. L’Aquila volerà – prosegue – «e sarà l’inferno quando sentirete Madre Libertà che suona la campana/ Sarà come se l’intero mondo piovesse addosso a voi, per gentile concessione del rosso, bianco e blu» [And the eagle will fly/ Man it’s gonna be hell/ When you hear Mother Freedom/ Start ringin’ her bell/ And it feels like the whole wide world is raining down on you/ Brought to you Courtesy of the Red White and Blue]. Una dichiarazione di guerra musicale, propedeutica a quella reale contro l’Iraq, che infatti scatterà pochi mesi dopo.
La memoria del Vietnam e il ritorno del pacifismo
Il country, però, non è solo Nashville: al suo interno fioriscono da sempre gli Outlaws (i «fuorilegge»), i dissenzienti, i sovversivi. Ed è ancora viva la generazione di musicisti che ha vissuto la guerra nel Vietnam. Proprio il Vietnam rappresenta la prima risorsa per dare voce, corpo e memoria al dissenso: quella guerra, infatti, è ancora una ferita aperta nell’immaginario statunitense, e paragonarla all’Iraq significa rendere comprensibili – per l’americano medio – le ragioni dell’opposizione ad un nuovo conflitto. La liaison tra i pacifisti degli anni ’60 e le «nuove leve» è rappresentata da Joan Baez, rimasta attiva sino ad oggi: nel periodo dell’Iraq la Baez apre i concerti all’estero con la frase Chiedo scusa per quel che il mio governo sta facendo al mondo. Ed esegue spesso un brano di Steve Earle, Christmas in Washington, dove sono rievocati i protagonisti dell’impegno civile americano: «Torna Woody Guthrie/ Torna da noi adesso/ Togli i tuoi occhi dal paradiso/ E alzati in qualche modo» [So come back Woody Guthrie/ Come back to us now/ Tear your eyes from paradise/ And rise again somehow]. E un appello simile è rivolto, pochi versi dopo, a Malcolm X e a Luther King, all’anarchica antimilitarista Emma Goldman, al cantante-sindacalista Joe Hill e a Gandhi [per ascoltare la canzone vai qui; per il testo qui].
Il parallelo col Vietnam è ripreso dalle Dixie Chicks, che più di altre raccolgono l’eredità artistica di Joan Baez: la loro Travellin Soldier, scritta da Charlie Robison e molto vicina allo stile della Baez, è ambientata nel periodo del Vietnam, ma è chiaro il riferimento all’attualità [non mi soffermo oltre sul brano, avendone parlato in questo blog]. In altre canzoni – come More Love, o la citata I believe in Love -, il trio contrappone alla logica della guerra quella dell’amore, con un richiamo ai temi del pacifismo anni ’60. E’ nota anche la vis polemica delle Dixie Chicks: contro Toby Keith e la sua canzone «guerrafondaia» (oggetto di una controversia tra l’autore e la leader del gruppo texano, di cui parlerò prossimamente), e contro Bush. Un analogo impegno è mostrato da Emmylou Harris, che con i veterani del Vietnam organizza un tour contro le mine [vedi Wikipedia]. E da Mary Chapin Carpenter, i cui ultimi dischi ripropongono i temi classici del pacifismo statunitense: l’orrore della guerra, la condanna della violenza da qualunque parte provenga. Così, mentre la struggente Grand Central Station rievoca la storia di un lavoratore a Ground Zero che ogni sera si reca alla Stazione di New York, in modo che le anime delle vittime possano seguirlo e tornare a casa, il rock vivace di On with the song è dedicato alle Dixie Chicks e alla loro battaglia contro la guerra [per ascoltare Grand Central Station vai qui; On with the song qui; leggi anche articolo di NPR].
Insomma, la prima risorsa del country «dissidente» è la riattivazione del repertorio tematico legato all’esperienza del Vietnam: la condanna della violenza, l’appello alla pace e all’amore, il richiamo ai «padri» del pacifismo e della nonviolenza (Gandhi, Luther King ecc.), oltre che alle icone della tradizione operaia e antimilitarista degli Stati Uniti, a cominciare da Woody Guthrie. Ma il potere evocativo del Vietnam non è l’unica strada seguita dai musicisti «impegnati»: nei mesi successivi all’11 Settembre emerge un filone tematico più coraggioso e innovativo, sul quale vale la pena spendere qualche parola.
Dare la parola al nemico: Steve Earle e Bruce Springsteen
Pur condividendo l’impegno pacifista, Bruce Springsteen e Steve Earle fanno un passo ulteriore in avanti. Nel clima avvelenato della crociata anti-islamica, i due rocker cercano, nelle loro canzoni, di dare la parola al nemico, o addirittura di immedesimarsi con lui: col nemico «generico» – lo straniero, il musulmano, l’immigrato arabo – ma anche col terrorista, l’attentatore, il militante di Al-Qaida. Non per condividerne le ragioni, certo, ma per ascoltarle, capirle, per restituire al mostro la fisionomia di un uomo. E per gettare ponti dove si sono eretti muri. E’ un’operazione difficile e controcorrente, che infatti procurerà qualche problema: non a Springsteen, il cui prestigio lo mette al riparo dalle polemiche, ma a Earle, che sarà tacciato di tradimento.
Nella splendida Worlds Apart («mondi separati»), pubblicata in The Rising, Springsteen sembra immaginare un amore al di là dei muri e delle frontiere. Un amore intenso, vissuto, sensuale, «carnale», e proprio per questo vivo, vitale e «vero»: più «vero» di quella Verità in nome della quale si combattono le opposte fazioni della «guerra al terrorismo». «A volte la verità non basta/ oppure è troppo in tempi come questi/ buttiamo via la verità, la troveremo in questo bacio/ nella tua pelle sulla mia pelle, nel pulsare dei nostri cuori/ che i vivi ci lascino entrare prima che i morti ci facciano a pezzi» [Sometimes the truth ain’t enough/ Or it’s too much in times like this/ Let’s throw the truth away, we’ll find it in this kiss/ In your skin upon my skin, in the beating of our hearts/ May the living let us in, before the dead tear us apart]. C’è qui il tema dell’amore contrapposto alla guerra, ma c’è di più: perchè la canzone è suonata insieme al musicista pakistano Asif Ali Khan. E il più americano dei rocker sceglie, all’indomani dell’11 Settembre, di pubblicare una canzone con un arrangiamento tipicamente pakistano, con una melodia simile ai canti degli Indiani d’America che si trasforma – con l’ingresso a metà brano della E Street Band – in una classica ballata rock. Vale la pena ascoltare tutto il pezzo [per il testo, con la relativa traduzione italiana, vai qui]:
La scelta, del tutto inconsueta per uno come Springsteen, di uscire dai confini della musica «americana», rappresenta un tentativo – scrive Antonella D’Amore – di «assumere per quanto possibile un punto di vista esterno, se non addirittura ostile a questa cultura» [A. D’Amore, Mia città di rovine. L’America di Bruce Springsteen, ManifestoLibri, Roma 2002, pag. 33]. Tentativo che ricorre in tutto l’album The Rising, uscito all’indomani dell’11 Settembre.
Ben più estrema, da questo punto di vista, è la strada seguita da Steve Earle: che prova ad immedesimarsi non con un arabo o un pakistano, non con un musulmano e nemmeno con un terrorista, ma con un vero e proprio «traditore». Con quel John Walker Lindh, cioè, che da cittadino statunitense si converte all’Islam e va a combattere con i talebani in Afghanistan.
Catturato dall’esercito americano nel Dicembre 2001, in pieno clima di crociata anti-islamica, Walker viene fatto oggetto di torture e trattamenti inumani dall’esercito del suo stesso paese (qui sopra la foto che ha fatto il giro del mondo). Poi, tornato negli Stati Uniti, viene additato dalla stampa e dai mass-media come un traditore, mentre alcuni politici – tra i quali il Sindaco di New York Rudolph Giuliani – ne chiedono la condanna a morte per alto tradimento. Alla fine, il giovane sarà condannato a 20 anni di prigione, nonostante non vi siano prove di una sua partecipazione ad azioni terroristiche [leggi dossier di PeaceReporter; appello della campagna freejohnwalker in inglese].
In John Walker Blues, Steve Earle fa parlare in prima persona proprio John Walker, che racconta la sua scelta religiosa e la sua esperienza di combattente: «Sono solo un ragazzo americano cresciuto con MTV/ e ho visto tutti quei ragazzi nelle pubblicità delle bibite/ ma nessuno di loro mi assomigliava/ Così ho cercato la luce fuori dall’oscurita/ E la prima cosa che ho sentito che aveva senso era la parola di Maometto, la pace sia con lui» [I’m just an American boy raised on MTV/ And I’ve seen all those kids in the soda pop ads/ But none of ‘em looked like me/ So I started lookin’ around for a light out of the dim/ And the first thing I heard that made sense was the word Of Mohammed, peace be upon him] [per il testo della canzone, con la traduzione italiana, vai qui; leggi anche saggio di Diana Bianchi].
Le parole che Earle mette in bocca al giovane sono un atto di accusa contro la società americana: forse, sembra dirci il rocker texano, la scelta di John Walker è il frutto non del «tradimento», ma dell’insoddisfazione per i valori proposti dalla cultura del suo paese. E infatti, il giovane è «solo un americano», uno come gli altri, «a regular guy» (una persona normale), per citare un altro noto pezzo di Steve Earle: un ragazzo, insomma, cresciuto con la televisione (MTV, per chi non lo sapesse, è un’emittente che trasmette musica) e con i prodotti di consumo, esattamente come tutti gli altri suoi coetanei. Dunque, il terrorista non è un «mostro» venuto da fuori, perchè le sue scelte – che Steve Earle non giustifica ma prova a capire – derivano anche dalla crisi del mondo occidentale, del nostro mondo. In questo modo, la canzone restituisce un’umanità a colui che – con un dispositivo tipico delle retoriche di esclusione dei nostri tempi – era stato disumanizzato, fino ad essere dipinto come un essere «mostruoso» e, appunto inumano.