Diritti dei migranti e antirazzismo

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Milano, delitto di cronaca

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

In seguito all’omicidio di un ragazzo di colore, si è scatenato un battage mediatico senza capo nè coda: una vera e propria cortina fumogena di dichiarazioni e polemiche che, invece di far luce sull’episodio, hanno finito per occultarlo del tutto. Ecco una piccola cronaca di una giornata tutta da riscrivere.

In Italia, se un immigrato si rende colpevole di omicidio, tutto è chiaro: si scatenano i giornali e le televisioni, si grida all’emergenza immigrazione, si invocano espulsioni e rimpatri, ci si lamenta delle frontiere spalancate, si chiede l’intervento di chiunque, dalle forze armate alla NATO. Tutto torna, tutto è facile da raccontare, da capire, da scrivere. Ma quando avviene il contrario, quando è un italiano ad uccidere un immigrato (o presunto tale), l’informazione e la politica vanno in tilt: e così è successo ieri.

I fatti, nella loro brutalità, sarebbero semplici. Siamo a Milano, zona Porta Romana, in un bar che si chiama Shining [!!]. Ci sono tre ragazzi molto giovani, tutti di colore: uno è straniero ruandese, gli altri due sono cittadini italiani. I ragazzi escono dal bar in fretta, e i proprietari pensano di essere stati derubati di un pacco di biscotti. I gestori del locale, furiosi, rincorrono i ragazzi, li raggiungono e si accaniscono contro uno di loro, Abdul Salam Guibre, cittadino italiano originario del Burkina Faso: lo colpiscono con una spranga e lo uccidono, urlandogli «ladro, negro di merda», «sporco negro, ti ammazziamo».

Questo è quello che è successo: ma ai giornali e al mondo della politica i semplici fatti non bastano. Soprattutto quando smentiscono lo stereotipo del «negro» cattivo e del «bianco» buono. E allora bisogna ricamarci sopra, gironzolarci un po’ intorno, sollevare cortine fumogene per confondere le acque.

I giornali si danno da fare. A metà mattinata esce un lancio di agenzia – ripreso dai principali siti di informazione, dal Corriere a Repubblica – che comincia il resoconto dei fatti in questo modo: «Abdul era con altri due amici di colore, Samir R., 19 anni di Reggio Calabria, e John K., 21enne del Ruanda con permesso di soggiorno scaduto». Non si capisce bene quale rilevanza abbia la data di scadenza del documento, in una cronaca che parla di omicidio. La cosa puzza di insinuazione di basso livello: ma per fortuna passa inosservata, sommersa com’è dal fuoco di artificio delle dichiarazioni dei politici.

Questi ultimi si azzuffano accusandosi a vicenda della responsabilità morale del delitto. Veltroni se la prende con la Lega e con il clima di odio contro il diverso agitato dai padani: e lo dice lui, che il 31 Ottobre scorso – all’indomani dello stupro di Giovanna Reggiani – aveva luminosamente pontificato sull’«unica matrice rumena» delle violenze sessuali.

Il Presidente PD della Provincia di Milano, forse preoccupato di tanta apertura, corregge il tiro e commenta l’omicidio invitando a «non sottovalutare i dati del Ministero degli Interni, secondo cui la maggior parte dei reati sono commessi da immigrati clandestini». Cosa c’entrino gli immigrati clandestini con un delitto commesso da un italiano contro un altro italiano lo sa solo lui. Poi, però, anche Penati se la prende con il nuovo Governo: «quando tutto il problema sicurezza si riconduce solo ai rom», spiega, «passa il messaggio che il problema è quello del contrasto con chi è di un’altra nazione o di un’altra cultura. Ma non è colpendo il diverso che si conquista sicurezza». Peccato che proprio Penati, su La Repubblica del 14 Maggio scorso, avesse proposto di «azzerare i campi nomadi nel milanese», schierandosi apertamente a favore del decreto sicurezza varato da Berlusconi.

Intanto la Procura annuncia di non aver contestato agli assassini l’aggravante di odio razziale. A quanto pare, i due gestori del locale avrebbero agito «solo» per i biscotti, non per xenofobia. Il Governo coglie l’occasione per levarsi d’impiccio, e Berlusconi dichiara: «ho parlato con i responsabili del Ministero dell’Interno, e mi hanno espresso il loro convincimento che non c’entri niente il razzismo, il colore della pelle». In realtà, il razzismo non è stato il movente dell’aggressione: ma il ragazzo è stato ucciso al grido di «sporco negro», che a casa mia è una frase razzista.

La Lega Nord, offesa per essere stata chiamata in causa quasi come mandante morale del delitto, si risente e rovescia l’accusa sull’avversario: i veri razzisti sono quelli della sinistra, tuona Paolo Grimoldi, coordinatore dei Giovani Padani. Che spiega: «La sinistra dovrebbe interrogarsi sul perché si verificano casi di razzismo. Allora capirebbe che non porre un freno all’immigrazione non ha fatto altro che aumentare i rischi». Insomma, per arginare il razzismo bisogna allontanare gli immigrati: che è un po’ un modo gentile per dire «non siamo noi i razzisti, sono loro che son negri»…

Con il passare delle ore, la vicenda specifica – e tragica – del delitto è trascolorata in una polemica tanto veemente quanto priva di senso. Ai giornali e agli uomini politici piace molto trarre conclusioni generali da singoli fatti di cronaca: così, se l’omicidio di Giovanna Reggiani era colpa dei rumeni (di tutti i rumeni), e se le accuse – tutte da dimostrare – di una signora a Ponticelli insegnavano che gli zingari rubano i bambini, oggi si può disinvoltamente dire che l’uccisione di un ragazzo di colore fuori da un bar è tutta colpa della Lega che è razzista, o della sinistra che fa entrare gli immigrati.

Le generalizzazioni richiedono cautela e un qualche rigore metodologico: sennò non aiutano a capire, e sollevano solo nubi di polvere. Il fatto di Milano ha una propria dinamica, che andrebbe analizzata nella sua specificità e singolarità. Poi, certo, è legittimo e utile individuare nessi, legami, contesti: ma questi non chiamano in causa una singola forza politica, un unico responsabile o un solo mandante morale.

In Italia si è assistito ad una escalation progressiva di criminalizzazione di immigrati, Rom, venditori ambulanti «abusivi», «clandestini» e quant’altro: e queste figure sono state additate – dal sistema politico e dalla stampa, con pochissime eccezioni – come bersagli fragili e inermi, su cui scaricare la rabbia collettiva. Gli assassini di Milano avevano i loro motivi per fare quello che hanno fatto: ma, forse, hanno sentito – anche – di poter esercitare liberamente violenza su un nemico «facile», privo di protezione. Quante volte giornali e televisioni hanno di fatto assolto commercianti che uccidevano ladri in fuga dai loro negozi? Quante volte la furia della sicurezza ha legittimato reazioni sproporzionate contro Rom o immigrati, magari colpevoli di piccoli reati?

Qui si potrebbe – con la dovuta cautela, e avendo sempre cura di guardare al fatto specifico, alla sua irriducibilità – tentare qualche generalizzazione. E non per prendersela con la Lega, ma con un sistema dell’informazione e della politica avvelenato nel suo complesso.

Sergio Bontempelli

15 Settembre 2008

 

La Chitarra e l’Apocalisse. Rock e Country dopo l’11 Settembre

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Sconvolto dagli eventi dell’11 Settembre, il mondo della musica country e rock si è diviso tra il sostegno alle politiche di guerra dell’Amministrazione Bush, e il richiamo alla tradizione antimilitarista e pacifista radicata da decenni negli Stati Uniti. Sul fronte “pacifista”, però, accanto alla memoria del Vietnam – una ferita ancora viva nell’immaginario americano – è emerso un filone dai temi innovativi. Una breve rassegna sulle reazioni ad un evento-spartiacque per la storia recente.

Qui sotto potete ascoltare The Rising, la splendida canzone di Springsteen dedicata all’11 Settembre. La tragedia delle Twin Towers, come noto, costituisce un evento-spartiacque destinato ad incidere profondamente nell’immaginario collettivo, americano e non solo. Come ha reagito il mondo della musica country e rock a questo evento così drammatico e decisivo?

Stupore, indignazione, solidarietà: le reazioni «a caldo»

La prima reazione, ovvia, è di stupore, indignazione e vicinanza alle vittime. Il 21 Settembre, pochi giorni dopo gli attentati, decine di artisti partecipano alla maratona televisiva A Tribute to Heroes, per raccogliere fondi a favore delle famiglie delle vittime e dei Vigili del Fuoco di New York. Su un palco illuminato dalle candele, si cantano canzoni di dolore e speranza, e si leggono messaggi di attori e presentatori. Scelto dalla rivista Rolling Stone come uno dei 50 momenti che hanno cambiato la storia del rock, il concerto in realtà non offre grandi prestazioni musicali (almeno a parere di chi scrive). Alcuni presentano canzoni inedite, la cui qualità non è delle migliori: I Believe in Love delle Dixie Chicks, per esempio, è forse una delle cose peggiori del trio texano. Altri cantano vecchi pezzi intrisi di retorica patriottarda. Come America The Beautiful, scritta alla fine dell’Ottocento da Katharine Lee Bates, eseguita da un irriconoscibile e quasi stonato Willie Nelson:

I repubblicani, la guerra al terrorismo e il country patriottico

All’indomani di una simile tragedia è forse inevitabile il richiamo ai valori nazionalisti, da sempre vivi nell’immaginario americano. Il Partito Repubblicano, però, mesta nel torbido, e usa le Twin Towers come pretesto per una campagna anti-islamica: sfruttando la paura e lo sdegno collettivi, riesce così a far approvare a tempo di record – nell’Ottobre 2001 – il Patriot Act, legge federale che introduce restrizioni ai diritti civili e alle garanzie di difesa per gli imputati. Il country “ufficiale” – raccolto attorno al potente circuito discografico di Nashville – è da sempre vicino ai repubblicani, e volentieri si mobilita ora nella nuova crociata. Vengono così rispolverate antiche canzoni patriottarde, come la citata America The Beautiful. O come God Bless America, una canzonetta diffusa negli anni ’30 e ’40 (contro la quale Woody Guthrie scrisse This Land is Your Land): subito dopo gli attentati, ne esce una versione di Celine Dion e una di LeAnn Rimes. Alla fine di Ottobre, balza al primo posto delle classifiche country Only in America di Brooks & Dunn. Si tratta di un pezzo che di politico ha ben poco, e che si limita a celebrare gli elementi fondamentali del sogno americano: libertà, gioia di vivere, possibilità per chiunque di avere successo. La canzone, però, viene fatta propria dai repubblicani, segno che anche la musica è ormai arruolata [per ascoltare il pezzo clicca qui; per il testo qui].

Ma la vera svolta avviene nel Luglio 2002, con la canzone di Toby Keith, Courtesy of Red, White and Blue: che non si limita a lamentare la patria ferita, ma incita proprio alla guerra. Ecco alcuni passaggi, in cui Keith si rivolge ai nemici, islamici e terroristi: «Lo zio Sam ha messo il vostro nome al primo posto della lista» [Uncle Sam put your name at the top of his list], tuona Keith. L’Aquila volerà – prosegue – «e sarà l’inferno quando sentirete Madre Libertà che suona la campana/ Sarà come se l’intero mondo piovesse addosso a voi, per gentile concessione del rosso, bianco e blu» [And the eagle will fly/ Man it’s gonna be hell/ When you hear Mother Freedom/ Start ringin’ her bell/ And it feels like the whole wide world is raining down on you/ Brought to you Courtesy of the Red White and Blue]. Una dichiarazione di guerra musicale, propedeutica a quella reale contro l’Iraq, che infatti scatterà pochi mesi dopo.

La memoria del Vietnam e il ritorno del pacifismo

Il country, però, non è solo Nashville: al suo interno fioriscono da sempre gli Outlaws (i «fuorilegge»), i dissenzienti, i sovversivi. Ed è ancora viva la generazione di musicisti che ha vissuto la guerra nel Vietnam. Proprio il Vietnam rappresenta la prima risorsa per dare voce, corpo e memoria al dissenso: quella guerra, infatti, è ancora una ferita aperta nell’immaginario statunitense, e paragonarla all’Iraq significa rendere comprensibili – per l’americano medio – le ragioni dell’opposizione ad un nuovo conflitto. La liaison tra i pacifisti degli anni ’60 e le «nuove leve» è rappresentata da Joan Baez, rimasta attiva sino ad oggi: nel periodo dell’Iraq la Baez apre i concerti all’estero con la frase Chiedo scusa per quel che il mio governo sta facendo al mondo. Ed esegue spesso un brano di Steve Earle, Christmas in Washington, dove sono rievocati i protagonisti dell’impegno civile americano: «Torna Woody Guthrie/ Torna da noi adesso/ Togli i tuoi occhi dal paradiso/ E alzati in qualche modo» [So come back Woody Guthrie/ Come back to us now/ Tear your eyes from paradise/ And rise again somehow]. E un appello simile è rivolto, pochi versi dopo, a Malcolm X e a Luther King, all’anarchica antimilitarista Emma Goldman, al cantante-sindacalista Joe Hill e a Gandhi [per ascoltare la canzone vai qui; per il testo qui].

Il parallelo col Vietnam è ripreso dalle Dixie Chicks, che più di altre raccolgono l’eredità artistica di Joan Baez: la loro Travellin Soldier, scritta da Charlie Robison e molto vicina allo stile della Baez, è ambientata nel periodo del Vietnam, ma è chiaro il riferimento all’attualità [non mi soffermo oltre sul brano, avendone parlato in questo blog]. In altre canzoni – come More Love, o la citata I believe in Love -, il trio contrappone alla logica della guerra quella dell’amore, con un richiamo ai temi del pacifismo anni ’60. E’ nota anche la vis polemica delle Dixie Chicks: contro Toby Keith e la sua canzone «guerrafondaia» (oggetto di una controversia tra l’autore e la leader del gruppo texano, di cui parlerò prossimamente), e contro Bush. Un analogo impegno è mostrato da Emmylou Harris, che con i veterani del Vietnam organizza un tour contro le mine [vedi Wikipedia]. E da Mary Chapin Carpenter, i cui ultimi dischi ripropongono i temi classici del pacifismo statunitense: l’orrore della guerra, la condanna della violenza da qualunque parte provenga. Così, mentre la struggente Grand Central Station rievoca la storia di un lavoratore a Ground Zero che ogni sera si reca alla Stazione di New York, in modo che le anime delle vittime possano seguirlo e tornare a casa, il rock vivace di On with the song è dedicato alle Dixie Chicks e alla loro battaglia contro la guerra [per ascoltare Grand Central Station vai qui; On with the song qui; leggi anche articolo di NPR].

Insomma, la prima risorsa del country «dissidente» è la riattivazione del repertorio tematico legato all’esperienza del Vietnam: la condanna della violenza, l’appello alla pace e all’amore, il richiamo ai «padri» del pacifismo e della nonviolenza (Gandhi, Luther King ecc.), oltre che alle icone della tradizione operaia e antimilitarista degli Stati Uniti, a cominciare da Woody Guthrie. Ma il potere evocativo del Vietnam non è l’unica strada seguita dai musicisti «impegnati»: nei mesi successivi all’11 Settembre emerge un filone tematico più coraggioso e innovativo, sul quale vale la pena spendere qualche parola.

Dare la parola al nemico: Steve Earle e Bruce Springsteen

Pur condividendo l’impegno pacifista, Bruce Springsteen e Steve Earle fanno un passo ulteriore in avanti. Nel clima avvelenato della crociata anti-islamica, i due rocker cercano, nelle loro canzoni, di dare la parola al nemico, o addirittura di immedesimarsi con lui: col nemico «generico» – lo straniero, il musulmano, l’immigrato arabo – ma anche col terrorista, l’attentatore, il militante di Al-Qaida. Non per condividerne le ragioni, certo, ma per ascoltarle, capirle, per restituire al mostro la fisionomia di un uomo. E per gettare ponti dove si sono eretti muri. E’ un’operazione difficile e controcorrente, che infatti procurerà qualche problema: non a Springsteen, il cui prestigio lo mette al riparo dalle polemiche, ma a Earle, che sarà tacciato di tradimento.

Nella splendida Worlds Apart («mondi separati»), pubblicata in The Rising, Springsteen sembra immaginare un amore al di là dei muri e delle frontiere. Un amore intenso, vissuto, sensuale, «carnale», e proprio per questo vivo, vitale e «vero»: più «vero» di quella Verità in nome della quale si combattono le opposte fazioni della «guerra al terrorismo». «A volte la verità non basta/ oppure è troppo in tempi come questi/ buttiamo via la verità, la troveremo in questo bacio/ nella tua pelle sulla mia pelle, nel pulsare dei nostri cuori/ che i vivi ci lascino entrare prima che i morti ci facciano a pezzi» [Sometimes the truth ain’t enough/ Or it’s too much in times like this/ Let’s throw the truth away, we’ll find it in this kiss/ In your skin upon my skin, in the beating of our hearts/ May the living let us in, before the dead tear us apart]. C’è qui il tema dell’amore contrapposto alla guerra, ma c’è di più: perchè la canzone è suonata insieme al musicista pakistano Asif Ali Khan. E il più americano dei rocker sceglie, all’indomani dell’11 Settembre, di pubblicare una canzone con un arrangiamento tipicamente pakistano, con una melodia simile ai canti degli Indiani d’America che si trasforma – con l’ingresso a metà brano della E Street Band – in una classica ballata rock. Vale la pena ascoltare tutto il pezzo [per il testo, con la relativa traduzione italiana, vai qui]:

La scelta, del tutto inconsueta per uno come Springsteen, di uscire dai confini della musica «americana», rappresenta un tentativo – scrive Antonella D’Amore – di «assumere per quanto possibile un punto di vista esterno, se non addirittura ostile a questa cultura» [A. D’Amore, Mia città di rovine. L’America di Bruce Springsteen, ManifestoLibri, Roma 2002, pag. 33]. Tentativo che ricorre in tutto l’album The Rising, uscito all’indomani dell’11 Settembre.

Ben più estrema, da questo punto di vista, è la strada seguita da Steve Earle: che prova ad immedesimarsi non con un arabo o un pakistano, non con un musulmano e nemmeno con un terrorista, ma con un vero e proprio «traditore». Con quel John Walker Lindh, cioè, che da cittadino statunitense si converte all’Islam e va a combattere con i talebani in Afghanistan.

Catturato dall’esercito americano nel Dicembre 2001, in pieno clima di crociata anti-islamica, Walker viene fatto oggetto di torture e trattamenti inumani dall’esercito del suo stesso paese (qui sopra la foto che ha fatto il giro del mondo). Poi, tornato negli Stati Uniti, viene additato dalla stampa e dai mass-media come un traditore, mentre alcuni politici – tra i quali il Sindaco di New York Rudolph Giuliani – ne chiedono la condanna a morte per alto tradimento. Alla fine, il giovane sarà condannato a 20 anni di prigione, nonostante non vi siano prove di una sua partecipazione ad azioni terroristiche [leggi dossier di PeaceReporter; appello della campagna freejohnwalker in inglese].

In John Walker Blues, Steve Earle fa parlare in prima persona proprio John Walker, che racconta la sua scelta religiosa e la sua esperienza di combattente: «Sono solo un ragazzo americano cresciuto con MTV/ e ho visto tutti quei ragazzi nelle pubblicità delle bibite/ ma nessuno di loro mi assomigliava/ Così ho cercato la luce fuori dall’oscurita/ E la prima cosa che ho sentito che aveva senso era la parola di Maometto, la pace sia con lui» [I’m just an American boy raised on MTV/ And I’ve seen all those kids in the soda pop ads/ But none of ‘em looked like me/ So I started lookin’ around for a light out of the dim/ And the first thing I heard that made sense was the word Of Mohammed, peace be upon him] [per il testo della canzone, con la traduzione italiana, vai qui; leggi anche saggio di Diana Bianchi].

Le parole che Earle mette in bocca al giovane sono un atto di accusa contro la società americana: forse, sembra dirci il rocker texano, la scelta di John Walker è il frutto non del «tradimento», ma dell’insoddisfazione per i valori proposti dalla cultura del suo paese. E infatti, il giovane è «solo un americano», uno come gli altri, «a regular guy» (una persona normale), per citare un altro noto pezzo di Steve Earle: un ragazzo, insomma, cresciuto con la televisione (MTV, per chi non lo sapesse, è un’emittente che trasmette musica) e con i prodotti di consumo, esattamente come tutti gli altri suoi coetanei. Dunque, il terrorista non è un «mostro» venuto da fuori, perchè le sue scelte – che Steve Earle non giustifica ma prova a capire – derivano anche dalla crisi del mondo occidentale, del nostro mondo. In questo modo, la canzone restituisce un’umanità a colui che – con un dispositivo tipico delle retoriche di esclusione dei nostri tempi – era stato disumanizzato, fino ad essere dipinto come un essere «mostruoso» e, appunto inumano.

Quando gli italiani emigravano in Romania

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

 

Tutti sanno che, accanto al flusso migratorio di rumeni verso l’Italia, ne esiste uno opposto, di italiani che vanno in Romania: si tratta però di un’immigrazione diversa, fatta prevalentemente di imprenditori che delocalizzano le loro attività produttive in città come Timisoara. Sono in pochi a sapere invece che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, molti italiani sono emigrati in Romania, nello stesso modo in cui oggi i rumeni arrivano nel nostro paese: come lavoratori edili, operai di fabbrica e umili salariati.

Quello proveniente dalla Romania è divenuto il principale flusso migratorio diretto verso l’Italia: questo lo sanno tutti. Ma quanti sanno che nella storia – tra l’altro in tempi relativamente recenti – è esistito il fenomeno inverso, di italiani che andavano in Romania? E non si parla qui dell’emigrazione attuale, fatta di imprenditori del Nord-Est che trasferiscono le proprie attività in città come Timisoara, non a caso ribattezzata “Trevisoara”: si parla di un vero e proprio flusso di manodopera salariata – operai, minatori, edili – che dall’Italia partiva per la Romania. A far luce su questa storia «dimenticata» è un recente volume sulle migrazioni rumene curato dalla Caritas [Caritas Italiana, Immigrazioni e lavoro in Italia. Statistiche, problemi e prospettive, IDOS, Roma 2008].

I primi flussi verso la Romania cominciano nel XIX secolo: si tratta di lavoratori dell’odierno Triveneto, diretti per lo più in Transilvania. «L’Austria Ungheria», scrive Antonio Ricci, curatore del saggio sulle migrazioni italiane pubblicato nel volume della Caritas, «tende a favorire le migrazioni interne tra le regioni più povere e di confine» [Caritas, cit., pag. 59]. Le prime partenze risalgono – pare – al 1821, quando alcune famiglie della Val di Fassa e della Val di Fiemme (nel Trentino) vengono condotte nei monti Apuseni, in Transilvania, a lavorare come tagliaboschi e lavoratori del legno per conto di un commerciante austriaco di legname [Ibid., pag. 61].

L’emigrazione – in Transilvania, ma non solo – prosegue anche dopo l’unità d’Italia: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, anzi, la Romania diventa una meta secondaria ma tutt’altro che irrilevante per l’emigrazione italiana. Si è calcolato ad esempio che alla fine del XIX secolo circa il 10-15% degli emigranti partiti dal Veneto si sia diretto in Romania [Ibid., pag. 59]. Si è trattato, spesso, di migrazioni stagionali: una sorta di pendolarismo transnazionale che ha trovato sbocco nell’edilizia, nella costruzione delle ferrovie, in attività boschive o nelle miniere [Ibid., pag. 61]. Stando ai censimenti del Ministero degli Affari Esteri, il numero di emigranti italiani in Romania è quasi decuplicato nell’arco di tre decenni, passando dagli 830 del 1871 ai più di 8.000 del 1901 [Ibid., pag. 64].

Un «manuale» per l’emigrante italiano nei Balcani e in Romania, pubblicato nel 1910, si sofferma sulle procedure burocratiche necessarie per raggiungere il paese: e qui le analogie con la situazione attuale – ma, ovviamente, a parti rovesciate – sono impressionanti. Il Regio Commissariato dell’Emigrazione, curatore del volumetto, raccomanda infatti di richiedere il passaporto – opportunamente vistato da un consolato rumeno – e di stipulate un contratto di lavoro prima della partenza: il datore di lavoro in Romania, d’altra parte, deve munirsi dell’apposita autorizzazione all’ingresso per il proprio lavoratore, da richiedere al Ministero dell’Interno. Si tratta di formalità burocratiche – avverte il Regio Commissariato – senza le quali si rischia di venir respinti alla frontiera dalle solerti autorità rumene di polizia [Ibid., pag. 60]. Sono le stesse procedure burocratiche che l’Italia ha chiesto agli immigrati rumeni, fino all’ingresso del loro paese nell’Unione Europea.

Proseguita nel periodo tra le due guerre mondiali (alcune stime hanno calcolato la presenza in Romania, negli anni Trenta, di circa 60.000 italiani), l’emigrazione è andata man mano esaurendosi negli anni Quaranta. Sono rimasti, nelle città rumene, quegli emigranti che nel frattempo avevano rinunciato alla cittadinanza italiana: a queste piccole comunità lo Stato rumeno ha riconosciuto, all’indomani della caduta del regime comunista, lo status di minoranza linguistica e il diritto ad essere rappresentate alla Camera dei Deputati da un proprio parlamentare [Ibid., pag. 68]. «Trascorsi ormai un secolo-un secolo e mezzo dalla partenza», conclude il saggio pubblicato dalla Caritas, «la vicenda degli italiani di Romania mantiene un carattere esemplare, ancor più oggi che in Italia si assiste a un malumore diffuso nei confronti dei rumeni».

L’arrivo della ferrovia a Pisa e la nascita del quartiere Stazione

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

In questi giorni si discute molto del futuro del quartiere Stazione di Pisa: può essere utile, allora, ripercorrerne la storia passata. Ecco come è nato quel quartiere, e come la Stazione distrusse – nel XIX secolo – il vecchio tessuto urbano della zona a Sud della città.

Era il 17 Marzo 1844, quando il primo treno percorse la breve distanza che separa Livorno e Pisa. I viaggiatori a bordo erano i primi toscani ad utilizzare la ferrovia nel territorio (allora) granducale. In quella che di li a poco sarebbe diventata l’Italia unita, erano state aperte pochissime strade ferrate: c’era la Napoli-Portici – la prima tratta costruita nel nostro paese -, una piccola parte del tracciato Napoli-Brindisi e la Padova-Mestre (a sua volta primo “avamposto” del futuro collegamento Venezia-Milano) [cfr. Cristiana Torti, Quando i treni a vapore…, in Cristiana Torti (a cura di), L’industria della memoria. Archeologie industriali in provincia di Pisa, Tagete edizioni, Pisa 2004, pagg. 77-83; Wikipedia, Storia delle ferrovie in Italia, «le origini»].

Il Granduca Leopoldo II di Toscana capì, prima e meglio di altri, l’importanza della ferrovia per lo sviluppo economico del Granducato. Per questo, sin dalla fine degli anni ’30 commissionò ai suoi tecnici la costruzione di una linea che collegasse i due luoghi strategici della Toscana: la capitale, Firenze, e il porto di Livorno, principale scalo commerciale della regione. All’inizio, si pensò ad una strada ferrata riservata esclusivamente al trasporto merci, il cui tracciato – tra l’altro – non prevedeva il passaggio da Pisa. Nel 1839, invece, Robert Stephenson propose il percorso Livorno – Pisa – Pontedera – Firenze, con un uso promiscuo merci/passeggeri: l’idea convinse il sovrano, e nel Giugno 1841 iniziarono i lavori del primo tratto, tra Livorno e Pisa. Nel frattempo, veniva costruita a Pisa la prima stazione ferroviaria della città, la cosiddetta Leopolda nell’attuale Piazza Guerrazzi [cfr. C. Torti, Quando i treni a vapore…, cit].

Lo sviluppo della rete ferroviaria toscana

La linea Pisa-Livorno non restò isolata. Il 19 Ottobre 1845 venne inaugurata la tratta fino a Pontedera, e il 12 Giugno 1848 fu terminato l’intero percorso fino a Firenze. Alla fine degli anni ’50, infine, fu aperto il tracciato che da Pisa portava a Lucca, e poi a Montecatini, Pistoia, Prato e Firenze. Per l’occasione, venne costruita a Pisa la seconda Stazione Leopolda, a Nord della città, dove passavano i treni per Lucca. Il Granducato di Toscana si trovò così ad essere, nel 1859, il terzo Stato italiano per consistenza della rete ferroviaria (257 km complessivi), dopo il Regno di Sardegna (850 km) e il Lombardo-Veneto (522 km): Pisa, con ben due stazioni e altrettante strade ferrate, diventò uno scalo ferroviario strategico per il granducato.

La costruzione di questa imponente (per l’epoca) rete di collegamenti e di binari non fu esente da conflitti e discussioni accese. «Voci contrarie alle strade ferrate», scrive in proposito Cristina Torti, «emersero in quegli strati di popolazione che vedevano irreversibilmente persa la propria attività, i navicellai e i barrocciai, mentre la questione delle espropriazioni dei terreni scatenò non poche contestazioni. Si diffuse anche la diceria che le locomotive e gli sbuffi di vapore danneggiassero le colture e la salute, ci furono sabotaggi da parte dei navicellai e processioni con benedizioni contro il “diabolico” congegno» [cfr. C. Torti, Quando i treni a vapore…, cit.].

La costruzione della Stazione Centrale

Intanto arrivò, nel 1861, l’unità d’Italia. Di fronte alla prospettiva dell’apertura delle frontiere tra i vecchi Stati della Penisola, e della mobilità che ne sarebbe derivata, la Società per le Strade Ferrate Livornesi – l’ente che gestiva la rete ferroviaria toscana – pensò di unificare le due stazioni cittadine, costruendo il nuovo scalo di Pisa Centrale. Fu individuata, a questo scopo, un’area a Sud della città, quella dove oggi sorge la stazione, non lontana dalla Leopolda.

La zona si trovava a ridosso delle mura urbane, il cui tracciato seguiva il percorso delle attuali Via Benedetto Croce e Via Ninio Bixio. Come sa qualunque pisano, tra queste due strade si apre, oggi, la grande Piazza Vittorio Emanuele, nel punto dove termina Corso Italia. Ecco qui sotto una piccola mappa, nella quale il tracciato (approssimativo) delle vecchie mura è evidenziato in rosso:

(fare clic sulla mappa per ingrandire)

All’epoca, venendo da Corso Italia (che allora si chiamava Carraia del Carmine, e prima ancora si era chiamata Strada San Gilio), e andando verso l’attuale Stazione (dunque, sulla cartina, dall’alto verso il basso), si incontravano – proprio alla fine del corso – le vecchie mura medievali, nelle quali si apriva la Porta San Gilio che oggi non esiste più. Non c’era ancora la grande Piazza Vittorio Emanuele: superata la porta, si imboccava direttamente la Via dei Cappuccini (attuale Viale Gramsci) che portava in zona S. Marco [per queste informazioni vedi E. Tolaini, Pisa. La città e la storia, ETS, Pisa 2007, pagg. 227 e ss.].

Per costruire la nuova Stazione centrale, si pensò di «sventrare» la Via dei Cappuccini, interrompendone il percorso con i binari. Nel Febbraio 1861, il progetto venne approvato dal Consiglio Comunale. Nel Maggio dello stesso anno, si ottenne la dichiarazione sovrana di pubblica utilità, che consentiva di procedere agli espropri dei terreni, e nel 1862 fu inaugurata la nuova Stazione centrale: cominciava, per quel quartiere di Pisa, un’epoca nuova [cfr. L. Nuti, Pisa. Progetto e città 1814-1865, Pacini ed., Pisa 1986, pagg. 135 e ss.].

La “barriera”

La costruzione del nuovo scalo ferroviario dette luogo all’esigenza di urbanizzare la zona tra la Stazione e la Carraia del Carmine. La progettazione di quest’area fu affidata all’ingegner Pietro Bellini, di cui si è già parlato in questo blog a proposito dei Lungarni: il disegno originario prevedeva l’abbattimento della Porta San Gilio, la distruzione di una parte considerevole delle vecchie mura, e l’apertura al loro posto di una grande piazza, di forma circolare, che avrebbe dovuto costituire la “porta di accesso” alla città per chi veniva dalla Stazione. I lavori cominciarono proprio con la demolizione della Porta San Gilio (1864). Intanto, però, nel 1866 il Bellini morì, e la gestione del progetto fu assunta dall’ingegner Vincenzo Micheli, padre del primo «piano regolatore» della città. La piazza fu ridisegnata in forma ellittica, con al centro un monumento al sovrano Vittorio Emanuele, e la struttura della Barriera Daziaria. Ecco come si presentava la piazza una volta ultimati i lavori:

(clicca sull’immagine per ingrandire)

L’aspetto, come si vede, è assai diverso da quello odierno che tutti conosciamo:

(clicca sull’immagine per ingrandire)

L’intero quartiere subì una trasformazione profondissima. Oltre alla Stazione e alla piazza con la Barriera, fu costruito il Viale della Stazione sul tracciato della vecchia Via dei Cappuccini, la nuova Via Crispi (verso il Lungarno), mentre si ricostruirono il tratto urbano della Via Fiorentina (chiamato Viale Bonaini) e quello della Via Livornese (oggi Via Cesare Battisti) [cfr. E. Tolaini, cit., pagg. 230]. Nel frattempo, la storica “Carraia del Carmine” (oggi Corso Italia), fu ribattezzata Strada Vittorio Emanuele: strada, e non via, per evitare il gioco di parole (via Vittorio Emanuele!) che i pisani, per lo più di fede repubblicana, avrebbero facilmente diffuso… [cfr. E. Tolaini, cit., pag. 235, nota 18]

Nelle intenzioni dei progettisti, la zona doveva diventare il nuovo centro di Pisa. E infatti, oltre alle aree verdi e agli spazi aperti, sorsero sul nuovo Viale della Stazione tre alberghi-ristoranti e tre caffè, luogo di ritrovo abituale della borghesia cittadina.

I costi di tutta l’operazione, tuttavia, furono altissimi. In primo luogo, per il paesaggio e per la struttura urbanistica della zona: la distruzione delle mura medievali, la scomparsa di una delle porte storiche del tessuto urbano, lo smembramento del quartiere S. Marco ebbero un impatto devastante su tutta la zona Sud di Pisa. Ma la città pagò anche in termini economici. Nonostante la dichiarazione di pubblica utilità – che avrebbe consentito di acquisire i terreni tramite esproprio – l’amministrazione procedette per lo più a comprare le aree, con grave danno per le casse dell’erario. Nel 1886, le spese complessive per tutti gli interventi erano raddoppiate rispetto alla previsione iniziale, e Pisa risultò essere una delle città più indebitate d’Italia [cfr. E. Tolaini, cit., pag. 231 e pag. 233]. La speculazione e gli affari privati, insomma, ebbero la meglio sull’interesse pubblico.

La nascita della tramvia

Negli anni ’80 il sistema cittadino dei trasporti si arricchì di un nuovo strumento: il tram.

La prima linea, che collegava Pisa con Pontedera, fu inaugurata il 23 Agosto 1884: partiva dalla nuova Piazza Vittorio Emanuele, entrava in viale Bonaini, raggiungeva la Fornace Antonimi (nell’attuale quartiere de La Cella) e proseguiva a Riglione, Navacchio, San Benedetto e Fornacette, arrivando a Pontedera lungo il percorso della Via Fiorentina [cfr. C. Torti, Quando i treni a vapore…, cit.]. Il 18 giugno 1892 venne inaugurata la linea Pisa-Marina. Il tracciato partiva da Pisa – sempre dalla Piazza Vittorio Emanuele – passava sulle mura urbane all’altezza del Bastione Stampace, scavalcava il canale dei Navicelli, la ferrovia e la strada provinciale, e continuava sulla via Vecchia Livornese verso Marina.

Il nuovo quartiere si trovò cosi ad essere il crocevia di diversi mezzi di comunicazione: una stazione intermodale, per usare un termine che piace tanto all’amministrazione comunale di oggi.

 Sergio Bontempelli, 24 Luglio 2008

Nashville, tra musica e business

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Nashville, capitale del Tennessee, è anche la patria del country: qui hanno sede le case discografiche e le stazioni radio, e qui si esibiscono i principali artisti. Nel corso del Novecento, la città ha svolto un ruolo di primo piano nella diffusione della musica popolare: con tutte le ambiguità di un luogo che è patria della musica, ma anche di un business provinciale e conservatore.

E’ il 5 Ottobre 1925, quando ai microfoni della WSM – una radio locale di Nashville – si presenta un arzillo ottantenne, musicista rurale della zona degli Appalachi: un certo Jimmy Thompson, detto Uncle Jimmy («lo zio Jimmy»), suonatore di fiddle (il fiddle è il violino popolare dei musicisti country). Uncle Jimmy conduce una nuova trasmissione radiofonica, Radio Barn Dance, che tradotto in italiano significa più o meno «ballo del granaio via radio»: in pratica, si tratta dell’esibizione dal vivo, via etere, di gruppi provenienti dalle montagne, che suonano musica tradizionale («del granaio», appunto…).

Non si tratta di una formula nuova. Da qualche tempo un’altra stazione radiofonica, la WLS di Chicago, sta trasmettendo settimanalmente il National Barn Dance, una trasmissione simile a quella di Nashville, che ha già riscosso un imponente successo di pubblico: vi si esibiscono musicisti di talento, molto conosciuti in questo periodo [cfr. M De Simone, La musica country, Castelvecchi, Roma 1997, pagg. 114-115; scheda sul Radio Barn Dance in DeFord Bailey – sings Lost John using a Banjo, youtube]. Qui sotto, per esempio, potete ascoltare Barbara Allen di Bradley Kincaid:

Torniamo a Nashville, e alla trasmissione «del granaio» della WSM. Trasmesso ogni Sabato sera, il programma ottiene subito un ottimo successo di pubblico. Anche perchè a condurlo, oltre ad Uncle Jimmy, viene chiamato nientemeno che George D. Hay, il presentatore del National Barn Dance di Chicago, conosciutissimo in tutto il Sud degli Stati Uniti con il soprannome di Judge Hay [«il giudice Hay»]. Il 10 Dicembre 1927, appena due anni dopo l’avvio, il programma assume il nome di Grand Ole Opry. Nasce così una delle principali istituzioni del country: trasmessa ininterrottamente fino ad oggi, la Opry diventerà infatti il «tempio» di questo genere musicale, dove si alterneranno tutti i più noti autori, cantanti ed esecutori della storia. Allora come oggi, andare alla Opry costituisce uno degli obiettivi più ambiti di ogni musicista country.

Roy Acuff e l’epoca della commercializzazione

Nel 1938, alla Opry si esibisce per la prima volta un autore destinato a fare epoca: Roy Acuff. Suonatore di fiddle e musicista eclettico, Acuff diventa presto un abitueé della trasmissione, per la quale stipula un contratto già dal 1940: il suo rifacimento di Wabash Cannonball una canzone tradizionale registrata per la prima volta da Alvin Pleasant Carter – diventa una delle sigle di avvio della Opry, e uno dei pezzi più conosciuti del repertorio country. Eccola:

(per ascoltare altri pezzi di Roy Acuff clicca qui oppure qui)

Nel 1942, Roy Acuff fonda, assieme a Fred Rose, la prima casa discografica di Nashville, chiamata Acuff-Rose, che finisce per essere una delle principali agenzie di «ricerca di talenti» di tutto il Sud degli Stati Uniti. Tre anni dopo, nel 1945, nasce il primo studio di registrazione, su iniziativa di due tecnici della WSM. Il successo della Opry, insomma, sta cominciando a creare un vero e proprio «indotto» commerciale [cfr. M. De Simone, cit., pagg. 142-144]. E Nashville sta diventando la patria della country music: in pochi anni la città si riempe di negozi, studi di registrazione, case discografiche, talent-scouts, musicisti, editori, un mondo complesso e variopinto che ruota attorno alla musica popolare, ormai largamente commercializzata. E proprio il processo di commercializzazione della musica a Nashville produce conseguenze di straordinaria importanza, che meritano di essere segnalate brevemente.

Il Nashville Sound

Cambia, in primo luogo, il modo stesso di fare musica. Se, all’epoca delle trasmissioni radiofoniche «da granaio», i musicisti erano gli autori delle stesse canzoni che eseguivano alla radio, ora tutto il processo di composizione viene – per cosi dire – «industrializzato». La necessità di sfornare dischi a getto continuo, inseguendo le esigenze di un mercato in espansione, spinge le case discografiche a creare una nuova figura professionale: quella del compositore «seriale» di pezzi sempre più simili gli uni agli altri, consegnati a musicisti che si limitano ad eseguirli alla radio o ad inciderli. Nasce, in questo modo, una musica sempre più appiattita sulle esigenze del mercato, e per questo sempre più uguale a se stessa [cfr. M. De Simone, cit., pag. 147].

Cambia, inoltre, il sound del country. Le musiche «tradizionali» di origine rurale, eseguite dalle string-bands del Sud Est (le string-bands sono gruppi costituiti esclusivamente da strumenti a corda, in genere chitarra-fiddle-banjo), lasciano il posto a suoni più «orecchiabili» (per l’epoca), mutuati dalle orchestre jazz e dalle canzoni «pop» di questo periodo [cfr. M. De Simone, cit., pag. 148]. Un esempio è Bouquet of Roses di Eddie Arnold:

In quello che è stato definito il «decennio d’oro» del country – e dunque nel periodo che va dalla metà degli anni ’40 alla metà dei ’50 – si va insomma definendo un nuovo modo di fare musica, che sarà poi universalmente conosciuto come «Nashville Sound».

Country, un nome nuovo per una musica (quasi) nuova

In questo contesto, nasce persino la definizione di country music. In precedenza, infatti, i balli rurali e le canzoni «da granaio» erano comunemente definite hillbilly: un termine dispregiativo, rivolto contro gli abitanti delle montagne, che deriva da hill (collina) e billy-goat (una specie di capre diffuse nella regione appalachiana), e che potrebbe essere perciò tradotto – grosso modo – come «caproni da collina» [cfr. M. De Simone, cit., pag. 12]. L’avvento del Nashville Sound, la volontà di «nobilitare» la nuova musica, l’ibridazione con altri generi (in particolare con i suoni delle orchestre swing), l’impiego cinematografico delle canzoni nei film dei cowboy, spinge le case discografiche a coniare la nuova espressione di «country & western», poi abbreviata in «country». Un termine – quello di «country & western» – quanto mai improprio: sia perchè «western» significa letteralmente «dell’Ovest», e la musica «tradizionale» ha origine dalla regioni orientali degli Stati Uniti, sia perchè – storicamente – le prime canzoni popolari registrate a Nashville non avevano alcuna relazione con il mondo dei cowboy (sembra strano, ma è proprio così: avrò occasione di tornare su questo punto nel mio blog).

Il rock’n roll e la crisi

La standardizzazione del country, prodotta dalle istituzioni di riproduzione della musica (case discografiche, radio, ecc.), impedisce di valorizzare le novità prodotte dagli stessi musicisti cresciuti a Nashville. Alla fine degli Anni Quaranta nella capitale del Tennessee viene importato il boogie, un blues per pianoforte, molto veloce e ritmato, nato originariamente nelle taverne e nelle sale da ballo frequentate da neri: alcuni autori cominciano ad utilizzare sonorità tratte dal boogie, «fondendole» con i pezzi country & western. Nasce in questo modo un nuovo genere, di volta in volta definito come «rockabilly», «country-boogie» o «hillbilly-boogie».

A Nashville – ormai divenuta patria della musica conservatrice – è d’obbligo mantenere, sul palco e al microfono, una certa compostezza, cosa che mal si concilia con il ritmo serrato delle sonorità boogie. Così, quando nella non lontana Memphis un promettente giovanotto dalle radici country – tale Elvis Presley… – «sforna» una nuova musica, che mette insieme le sonorità country, i ritmi neri del blues, le chitarre elettriche, il boogie e – soprattutto – una prorompente energia giovanile, nessuno mette in relazione il nuovo genere con il country-boogie che ne era il legittimo precursore. La nuova musica, infatti, prende il nome di rock’n roll, e percorre strade del tutto autonome dal country standardizzato di Nashville [cfr. M. De Simone, cit., pagg. 152-153].

L’avvento del rock, anzi, produce una crisi profondissima del country e della sua storica «capitale». Alla fine degli anni ’50, Nashville cerca di adeguarsi al nuovo clima, valorizzando i musicisti che utilizzano strumenti elettrici e che tentano un’integrazione tra i due generi musicali. Si rispolvera il termine rockabilly, ad indicare stavolta la fusion tra country e rock, e si promuovono gruppi come gli Everly Brothers, veri e propri «ibridi» tra country e rock. Eccoli in Bye Bye Love, un pezzo di successo di questo periodo:

Le evoluzioni del Nashville Sound

Superata la crisi del rock’n roll, Nashville acquisisce a partire dagli anni Sessanta la sua «nicchia di mercato», tornando ad essere la capitale della musica conservatrice (legata, tra l’altro, agli ambienti repubblicani della destra americana). Le case discografiche ridefiniscono il «Nashville Sound», che ora perde del tutto le sonorità vagamente swing – quelle, per intenderci, della canzone Bouquet of Roses che abbiamo ascoltato prima – e si trasforma in un mix tra rock, melodia da canzonetta e musica pop di facile consumo, con qualche «innesto» di sonorità tradizionali [cfr. M. De Simone, cit., pagg. 157 e ss.].

Nashville si trasforma insomma in quello che è rimasta tuttora. Da un lato, il «tempio» del country, punto di approdo obbligato per chiunque voglia riscoprire le musiche popolari (e da cui, infatti, sono passati personaggi come Bob Dylan o Joan Baez). Dall’altro lato, però, la capitale di una vera e propria ortodossia conservatrice – culturale, politica e musicale -, ostile al cambiamento e anche al ripensamento critico del passato. Non è un caso, da quest’ultimo punto di vista, che molti fenomeni innovativi abbiano attraversato Nashville senza fermarvisi, mantenendo spesso un rapporto conflittuale con Music City. Ne sono un esempio personaggi come Johnny Cash – che abbandona la Opry proprio negli anni Sessanta -, o correnti musicali come il country-rock (che cercherà punti di riferimento alternativi in Texas o in California).

Oggi, questa ambiguità strutturale si rispecchia nelle produzioni recenti di Nashville. La capitale del country ha «sfornato» pezzi sostanzialmente «pop» come Don’t be Stupid della canadese Shania Twain, che per motivi misteriosi è l’unica cantante country ad avere un fan club italiano

… ma anche una come Alison Krauss, cantante di straordinario talento, interprete di un nuovo intreccio tra sonorità country e tradizione bluegrass. Qui sotto potete ascoltare Every Time you say goodbye, eseguita con gli Union Station:

Costituzione italiana, articolo 13

La libertà personale è inviolabile.

Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.

È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.

La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

Cosa sono i CPT? Un dossier

Dossier originariamente pubblicato a puntate sul blog personale di Sergio Bontempelli

Si parla spesso di centri di permanenza temporanea, o CPT, ma pochi sanno veramente cosa sono. Provo dunque a spiegarlo ripercorrendone la storia. Mi auguro che questo articolo possa rappresentare una sorta di “guida” per capirci qualcosa, o per approfondire ulteriormente. L’articolo è un po’ lungo – si tratta di un piccolo “dossier” – e per questo lo divido in tre parti.

Che cosa sono esattamente i centri di permanenza temporanea, conosciuti anche con la sigla “CPT”? Per capirlo è bene anzitutto chiarire che cosa non sono. I CPT non vanno confusi con i centri di accoglienza: mentre questi ultimi servono – lo dice la parola – ad accogliere i migranti, a dar loro un tetto dove dormire, i CPT sono stati costruiti per trattenere gli stranieri in attesa di espulsione. Perché bisogna trattenere le persone in attesa di espulsione? Per rispondere a questa domanda, occorre ricostruire brevemente la genesi storica dei CPT: capire, cioè, quando sono nati, chi li ha inventati e perché.

Le politiche migratorie italiane prima dei CPT

Le radici lontane dei CPT si trovano nella legge Martelli del 1990. Con questa norma le espulsioni diventano uno strumento ordinario di contrasto dell’immigrazione cosiddetta clandestina. In precedenza esisteva il “foglio di via obbligatorio”, con il quale il Prefetto ordinava allo straniero di allontanarsi dal territorio nazionale. Trattandosi di un semplice ordine scritto, tuttavia, non c’era modo di costringere la persona ad andarsene: e, infatti, alla fine degli anni ’80 alcune ricerche segnalavano che il 90% dei destinatari rimanevano in Italia [cfr. per es. L. Pepino e P. L. Zanchetta, L’Italia degli stranieri: il controllo amministrativo e penale, in «Questione Giustizia», 1989, pag. 663]. Prima della legge Martelli, esisteva anche l’espulsione, con la quale la polizia era autorizzata ad accompagnare fisicamente (e coattivamente) lo straniero alla frontiera: ma la procedura era complicata, perchè a firmare il provvedimento doveva essere direttamente il Ministro degli Interni. La legge Martelli interviene proprio su questo punto, affida ai Prefetti il compito di firmare le espulsioni, e dunque le rende più facilmente eseguibili. In compenso, la nuova procedura non prevede l’immediato accompagnamento alla frontiera: la prima espulsione viene eseguita con una «intimazione» – cioè con un ordine scritto, simile al vecchio “foglio di via” -, e solo se il migrante viene trovato una seconda volta in territorio nazionale si può procedere all’accompagnamento. Nasce così una politica migratoria fondata sull’allontanamento degli irregolari: e di qui nascono i problemi.

Come (non) funziona un’espulsione

Contrariamente a quanto si pensa comunemente, espellere uno straniero non è una faccenda semplice. Ci sono, anzitutto, questioni di carattere normativo: l’accompagnamento alla frontiera è una misura limitativa della libertà personale, e come tale pone problemi di armonizzazione con lo spirito e la lettera della Costituzione. Vi sono poi difficoltà economiche: rimpatriare i clandestini ha costi non indifferenti. Infine – e vengo alla questione dei CPT – una espulsione comporta notevoli difficoltà relative alla riammissione dei migranti nei loro paesi di origine. Spesso, infatti, gli stranieri irregolari sono privi di passaporto e di documenti di identità. Così, quando vengono consegnati alle autorità dei loro paesi, accade che le polizie straniere si rifiutino di accoglierli: senza documenti, infatti, non si può dire con certezza se il migrante è davvero cittadino del paese nel quale viene riaccompagnato. Detto in soldoni, quando la polizia italiana accompagna alla frontiera un migrante, poniamo, tunisino, la polizia tunisina finge di non conoscerlo, magari sostiene che è libico o forse egiziano o addirittura marocchino, e comunque non se lo riprende. Un bel guaio…

Perchè la polizia tunisina (o ucraina o senegalese ecc.) non riammette i propri migranti? La ragione l’hanno spiegata Ferruccio Pastore e Giuseppe Sciortino: «la riammissione non è un problema tecnico quanto piuttosto la cartina di tornasole di una divergenza d’interessi tra stati d’emigrazione e stati d’immigrazione: se per questi ultimi la possibilità di allontanare […] gli stranieri [irregolari] costituisce un tassello fondamentale delle […] politiche di contrasto, per i primi, invece, […] facilitare il rimpatrio coattivo dei propri cittadini è un atto impopolare […] che produce […] conflittualità politica […] e tensioni a livello sociale» [Ferruccio Pastore e Giuseppe Sciortino, Tutori lontani.Il ruolo degli Stati di origine nel processo di integrazione degli immigrati, CESPI, Roma 2001, pag. 17].

Questo ragionamento fa capire quanto sia miope la politica italiana (ed europea) sull’immigrazione. I flussi migratori sono un fenomeno complesso, transnazionale, che coinvolge attori sociali di diversi paesi. Mentre, al contrario, le espulsioni sono una risposta unilaterale del solo paese di destinazione (nel nostro caso, dell’Italia): una risposta semplice, troppo semplice e persino rozza, ad un fenomeno complesso, multidimensionale e globale. E una risposta semplice e unilaterale a un fenomeno complesso e multilaterale è inevitabilmente destinata al fallimento. E, infatti, nel periodo di vigenza della legge Martelli le autorità italiane riescono ad eseguire poco più del 10% dei decreti di espulsione [cfr. M. Barbagli, A. Colombo, G. Sciortino (a cura di), I sommersi e i sanati. Le regolarizzazioni degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, pag. 203].

L’invenzione dei CPT (1995-1998 )

Il fallimento del sistema delle espulsioni non spinge però a ripensare l’impianto complessivo delle politiche migratorie. Al contrario, attorno alla metà degli anni ’90 si fa strada l’idea di rendere più rigide le norme in materia di allontanamento degli stranieri irregolari. Il delicato problema della riammissione dei migranti, in particolare, viene affrontato con l’inasprimento delle procedure: se le polizie dei paesi di origine si rifiutano di riaccogliere i propri cittadini, bisogna impedire che questi ultimi si allontanino nel corso delle trattative tra autorità italiane e straniere. Così, nel 1995, il “decreto Dini” (Decreto legge 18 novembre 1995, n. 489) introduce una modifica alla legge Martelli, che prevede l’obbligo di dimora per gli stranieri in attesa di espulsione: si apre in questo modo la strada a provvedimenti che limitano la libertà personale degli stranieri nel corso delle procedure di allontanamento.

Pochi anni dopo, nel 1997, il Governo Prodi presenta alla Camera il disegno di legge n. 3240 che, una volta approvato dal Parlamento, diverrà noto come “legge Turco-Napolitano” (legge n. 40 del 6 Marzo 1998, poi trasfusa nel Testo Unico sull’Immigrazione di cui al decreto legislativo 286 del 25 Luglio 1998). Ed è proprio la Turco-Napolitano che inventa l’istituto dei CPT: «Quando non e’ possibile eseguire con immediatezza l’espulsione», si legge al comma 1 dell’art. 12, «perchè occorre procedere […] ad accertamenti supplementari in ordine all’identità o nazionalità [dello straniero], […] il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino». Dunque, la difficoltà di eseguire un’espulsione – dovuta, come abbiamo visto, al rifiuto dei paesi di origine di riaccogliere i propri emigranti – viene risolta con un vero e proprio strumento di detenzione.

La nascita dei “centri” (1998-2000)

I primi centri vengono attivati, in attuazione della nuova normativa, già nell’Estate 1998 in alcune regioni meridionali (Sicilia, Calabria e Puglia). Il Ministero dell’Interno, però, vuole aprirne subito degli altri, e ha molta fretta: i “centri di permanenza” rappresentano uno dei pilastri della nuova normativa, e un fattore decisivo di “rassicurazione” dell’opinione pubblica. Il Governo attiva procedure di urgenza, e nel giro di pochi mesi (inizio 1999) sono già operativi in tutto il territorio nazionale 11 centri. Per risparmiare tempo e risorse finanziarie, si utilizzano beni demaniali spesso fatiscienti o in condizioni di degrado: i lavori di adeguamento vengono svolti in modo sbrigativo, attraverso interventi strutturali in estrema economia. La gestione viene affidata per lo più alla Croce Rossa, senza vere e proprie gare di appalto e con modalità di assegnazione poco trasparenti [Per queste informazioni si è fatto riferimento alla dettagliatissima relazione della Corte dei Conti: Corte dei Conti – Sezione Centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato, Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno immigrazione per l’anno 2002, Roma 2003].

Il risultato di questa attività frettolosa e approssimativa, in termini di garanzie dei diritti umani, è devastante. È la stessa Corte dei Conti a riconoscere che il trattamento degli espellendi «è per taluni aspetti risultato deteriore rispetto a quello riservato ai detenuti nelle strutture carcerarie». Ma una conferma clamorosa delle condizioni inumane in cui sono trattenuti gli stranieri proviene da una fonte giornalistica: un inviato del Corriere della Sera, Fabrizio Gatti, si fa passare per clandestino rumeno e internare in un centro di permanenza. Racconta di «un poliziotto che obbliga un immigrato a firmare la rinuncia all’avvocato difensore», oltre che di maltrattamenti, percosse, degrado fisico delle strutture [F. Gatti, Io, clandestino per un giorno rinchiuso nel centro di via Corelli, in «Il Corriere della Sera», 6 Febbraio 2000]. Altre inchieste dimostrano poi che, nel centro di Via Corelli a Milano, «la convalida dell’internamento […] è fatta a mezzo di un prestampato uguale per tutti, che la maggioranza dei magistrati neanche legge. […] Vari operatori sociali raccontano che gli internati […] non vengono informati dei loro diritti e non viene concessa loro la possibilità di incontrare il loro avvocato» [cfr. S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 229].

D’altra parte l’efficacia delle nuove strutture, in termini di reale contrasto all’immigrazione clandestina, è assai dubbia. Nel 1999, su circa 8.000 “trattenuti”, solo il 44% viene effettivamente rimpatriato: questa percentuale scende al 31,1% nel 2000 e al 29,6% nel 2001 [Questi dati sono contenuti nella relazione della Corte dei Conti già citata]. La stragrande maggioranza degli immigrati, dopo aver subito angherie, vessazioni e restrizioni della propria libertà personale, viene liberata: da questo punto di vista, l’istituto del trattenimento si rivela un vero e proprio flop, utile più ad umiliare e stigmatizzare gli stranieri che a regolare le migrazioni clandestine.

Le prime contestazioni, tra giuristi e movimenti

La nascita dei CPT è accompagnata però da diffuse contestazioni. Da un lato, giuristi, avvocati e magistrati democratici contestano la legittimità costituzionale dei “centri”: il trattenimento è infatti una limitazione evidente della libertà personale, che viene inflitta a persone che non hanno commesso reati (la semplice irregolarità del soggiorno non è un reato penale, ma un’infrazione amministrativa: qualcosa di simile, fatte le debite proporzioni, ad un divieto di sosta). La Costituzione italiana, all’articolo 13, prevede che le restrizioni alla libertà personale siano disposte da un giudice, mentre l’espulsione e il conseguente trattenimento sono decisioni del Prefetto. Così, già nei primi anni dopo l’istituzione dei CPT si moltiplicano le contestazioni di avvocati, giudici, esperti di diritto [cfr. tra gli altri: Livio Pepino, Centri di detenzione ed espulsioni (irrazionalità del sistema e alternative possibili), in «Diritto Immigrazione Cittadinanza», n. 2/2000; Roberto Bin, Giuditta Brunelli, Andrea Pugiotto, Paolo Veronesi (a cura di), Stranieri tra i diritti. Trattenimento, accompagnamento coattivo, riserva di giurisdizione, Giappichelli editore, Milano 2001].

Dall’altro lato, associazioni e movimenti di solidarietà avviano azioni, denunce e mobilitazioni pubbliche contro i CPT: tra l’altro, alle tradizionali reti dell’associazionismo pro-immigrati (come la Rete Nazionale Antirazzista) si aggiungono in questo periodo i gruppi legati al nascente movimento altermondialista (impropriamente definito no-global), che è molto visibile sulla scena pubblica. Nel 1999 si costituisce a Milano un coordinamento di associazioni per il monitoraggio del “centro” di Via Corelli: il coordinamento produce, nell’Ottobre 1999, una delle prime inchieste sulle violazioni dei diritti umani nei CPT [vedi Documento del Coordinamento di Via Corelli sui centri di permanenza temporanea (5 Ottobre 1999), pubblicato sul sito Archivio Briguglio, Ottobre 1999. Leggi testo].

Il 29 Gennaio 2000 un corteo di 20.000 persone, convocato dal movimento delle “Tute Bianche”, e a cui partecipano esponenti del mondo politico come Luigi Manconi e attori come Lella Costa, si ferma davanti al Centro di Permanenza milanese di Via Corelli, e riesce ad ottenere anche l’ingresso di una delegazione dei manifestanti all’interno del centro: la vicenda, che avrà ampia eco sulla stampa nazionale, porta all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dei CPT.

I successi del movimento contro i CPT e la Bossi-Fini (2000-2002)

La denuncia di Fabrizio Gatti, le contestazioni dei giuristi e la mobilitazione dei movimenti producono, all’inizio del nuovo decennio, alcuni cambiamenti non irrilevanti nella politica riguardante la detenzione amministrativa. Il 30 Agosto 2000 il Ministero dell’Interno vara una Direttiva generale in materia di Centri di Permanenza Temporanea ed assistenza, nella quale si stabiliscono con precisione i diritti degli “ospiti”, in modo da evitare abusi e violenze delle forze dell’ordine. Tale Direttiva, che non verrà mai davvero applicata, prevede tra l’altro la possibilità di colloqui con familiari e amici, l’accesso ad informazioni sull’asilo politico, il libero utilizzo di telefoni anche cellulari: tutte cose che rimarranno lettera morta… Pochi mesi dopo, sulla questione dei Centri interviene anche la Corte Costituzionale, sollecitata dai magistrati milanesi: con la sentenza n. 105 del 2001, la Consulta interviene in particolare sull’incostituzionalità dei centri. Come spiega Sergio Briguglio in un linguaggio comprensibile ai profani, i giudici costituzionali non dichiarano tout court illegittimo l’istituto del CPT, ma costringono il governo a modificare profondamente la procedura che porta al trattenimento: «La Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità, stabilendo che […] la misura dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera incide effettivamente sulla libertà personale, [e che perciò] la convalida del trattenimento nel CPT deve fondarsi sulla verifica dei presupposti del provvedimento di espulsione, e non solo su quella dei presupposti immediati per l’adozione del provvedimento di trattenimento» [vedi messaggio e-mail inviato da Sergio Briguglio, pubblicato sul sito Archivio Briguglio, Ottobre 1999. Leggi testo]. Vediamo cosa significa più in dettaglio.

Come abbiamo visto, sin dai tempi della legge Martelli la competenza in materia di espulsioni era stata affidata ai Prefetti: è infatti il Prefetto che decide il provvedimento, lo firma e ordina alla polizia di eseguirlo. Lo straniero può, se vuole, far ricorso al giudice. In questo caso, il magistrato deve esprimersi sul provvedimento di espulsione, decidendo se esso è legittimo e conforme alla legge oppure no: in altre parole, nel ricorso sull’espulsione il giudice si esprime nel merito, e se la decisione del prefetto è stata presa contro la legge, il provvedimento espulsivo decade. Con la Turco-Napolitano, l’espulsione può essere eseguita mediante trattenimento in un CPT: ma, poichè il trattenimento è una misura restrittiva della libertà personale dello straniero, esso deve essere autorizzato dal giudice. Perciò, ogni volta che il Prefetto dispone il trattenimento, è obbligato a chiedere l’autorizzazione del magistrato. Questa autorizzazione si chiama convalida, ed è in linea di principio diversa dal ricorso sull’espulsione. Nella convalida, infatti, il giudice non si esprime nel merito – non valuta, cioè, la legittimità dell’espulsione – ma si limita a decidere se lo straniero deve finire in un CPT o no.

Ebbene, con la sentenza n. 105 del 2001, la Corte Costituzionale – pur non dichiarando illegittimi i CPT – dichiara che, in sede di convalida, il giudice può e deve esprimersi anche nel merito del decreto di espulsione: ciò significa che, se l’espulsione è illegittima, lo straniero potrà contestarla anche prima del ricorso, davanti al giudice chiamato ad autorizzare il trattenimento nel CPT. Si tratta di un piccolo, significativo passo avanti.

Questi successi, parziali ma importanti, vengono vanificati dall’approvazione, nel 2002, della legge “Bossi-Fini” (legge 189/2002, recante modifiche al Testo Unico sull’Immigrazione). La nuova normativa modifica le procedure di allontanamento degli stranieri irregolari: se, ancora ai tempi della Turco-Napolitano, l’espulsione veniva eseguita di norma tramite intimazione – cioè con un ordine scritto consegnato allo straniero – con la Turco-Napolitano tutte le espulsioni (fatti salvi casi eccezionali) debbono essere eseguite con l’accompagnamento coattivo alla frontiera da parte della forza pubblica. Da questo punto di vista, i CPT diventano strumenti indispensabili per eseguire i provvedimenti di allontanamento: e, infatti, la Bossi-Fini rafforza lo strumento del trattenimento, prevedendo l’aumento del tempo massimo di permanenza in un CPT da trenta a sessanta giorni. Le prime mobilitazioni contro la detenzione amministrativa sembrano quindi sconfitte.

La legge Bossi-Fini entra in vigore il 10 Settembre 2002, e prevede un’abnorme estensione degli strumenti repressivi contro l’immigrazione irregolare. Dal 2002 al 2003 la spesa pubblica per le espulsioni e le politiche di contrasto aumenta del 57% [Cfr. Corte dei conti, Programma di controllo 2003 –Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione, Regolamentazione e sostegno all’immigrazione. Controllo dell’immigrazione clandestina, Roma 2004]. Nel solo 2004, il sistema delle espulsioni costa all’erario circa 320 mila euro al giorno [European Migration Network, Punto nazionale di contatto in Italia, Immigrazione irregolare in Italia. L’approccio nazionale nei confronti dei cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti: caratteristiche e condizioni sociali, Idos, Roma 2005, pag. 44]. Nel corso del 2003 il Ministero dell’Interno intensifica anche l’attività dei centri di permanenza temporanea: vengono aperti due nuovi CPT a Bologna e a Modena, il centro di Roma-Ponte Galeria viene ampliato, mentre si avviano le procedure per l’apertura di ulteriori strutture a Bari Palese, Gradisca di Isonzo (Gorizia), Foggia e Padova. Complessivamente, nel solo anno 2003 le spese di gestione dei diversi CPT (escludendo le spese per lavori e quelle per manutenzione straordinaria) ammontano a quasi 30 milioni di euro (per la precisione, si tratta di € 29.648.352,7) [vedi relazione della Corte dei Conti già citata].

A un così rilevante impegno economico e finanziario, però, non corrisponde una significativa contropartita in termini di efficacia dei CPT. Come si vede nella tabella qui sotto, infatti, tra il 2002 e il 2003 – dunque, in coincidenza con l’entrata in vigore della Bossi-Fini – la percentuale di stranieri effettivamente rimpatriati cresce enormemente, ma si ferma poco sotto il 50%: in altre parole, metà dei migranti che transitano nei “centri” non vengono poi effettivamente espulsi.

Centri di permanenza temporanea
Riepilogo presenze 1999-2003
Fonte: Corte dei Conti
1999 2000 2001 2002 2003
Trattenuti 8.847 9.768 14.993 18.625 14.223
Effettivamente rimpatriati 3.893 3.134 4.437 6.372 6.830
Effettivamente rimpatriati (%) 44% 31,1% 29,6% 34,2% 48%

L’enorme sforzo sul versante repressivo, dunque, continua a rivelarsi inefficace sul suo stesso terreno, quello del contrasto all’immigrazione clandestina.

Dalla Corte dei Conti a Medici Senza Frontiere: la stagione delle denunce (2002-2004)

A partire dal 2003, la Corte dei Conti comincia a pubblicare periodiche relazioni sulla gestione delle politiche migratorie, soffermandosi anche sulle problematiche relative ai CPT e al trattenimento dei migranti in attesa di espulsione. Il giudizio espresso nella relazione del 2003 è durissimo: parla di «programmazione talvolta generica e in taluni casi velleitaria», di centri «realizzati […] in strutture fatiscenti e con scarsa attenzione ai livelli di sicurezza ed al trattamento complessivo dei soggetti trattenuti», di «estrema disomogeneità dei costi di gestione nonostante il diffuso affidamento al medesimo soggetto (Croce Rossa Italiana)», tutti elementi che concorrono a disegnare «un quadro gestionale che […] non può essere considerato positivo».

Nel Gennaio 2004 l’organizzazione umanitaria indipendente Medici Senza Frontiere (MSF) pubblica un dettagliato rapporto sui CPT. Ne esce un quadro sconfortante: Msf sottolinea gravi violazioni dei diritti umani e della dignità della persona, soprattutto riguardo alle strutture di accoglienza, all’assistenza sanitaria e al diritto d’asilo. «La politica italiana sull’immigrazione» – spiega il portavoce di MSF Loris De Filippi, nel corso della conferenza stampa di presentazione del rapporto – «mostra gravi lacune e la nostra ricerca è molto chiara: MSF chiede al governo italiano ed alla società civile di istituire un’authority indipendente ed imparziale in grado di monitorare il rispetto dei diritti umani, l’assistenza sanitaria e le procedure per l’asilo all’interno dei centri».

Una conferma delle denunce di MSF arriva anche dalla Magistratura: alla fine di Gennaio 2004 arriva infatti la notizia del rinvio a giudizio di Don Cesare Lodeserto, direttore del Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis” di Lecce. L’inchiesta, avviata un anno prima grazie alla denuncia di alcuni immigrati trattenuti nella struttura, riguarda i presunti abusi e pestaggi che 17 maghrebini hanno denunciato di aver subito dopo il tentativo di fuga del 22 novembre 2002. I capi di imputazione contestati a Lodeserto sono pesantissimi: lesioni personali, abuso di mezzi di correzione, omissioni di intervento per impedire i maltrattamenti [sulla vicenda di Don Cesare Lodeserto vedi dossier sul sito di Stefano Mencherini].

Il 18 Aprile 2004, la trasmissione televisiva Report, in onda su Raitre, dedica una puntata speciale alla questione dei CPT [in rete, sul sito di Melting Pot, è disponibile sia la trascrizione integrale sia il filmato in streaming]. La trasmissione documenta la scarsa trasparenza nella gestione dei CPT (di cui non vengono resi noti bilanci, convenzioni con i soggetti gestori e costi di amministrazione), il divieto di accesso per i giornalisti e la violazione dei diritti umani (soffermandosi anche sul caso di Lecce).

Nel Maggio 2004 il giornalista Fabrizio Gatti, che quattro anni prima aveva condotto la coraggiosa inchiesta sul CPT milanese di Via Corelli, fingendosi immigrato e facendosi internare nella struttura, viene condannato a 20 giorni di reclusione per “falsa dichiarazione di identità”. La condanna, però, non ferma le denunce contro l’istituto dei CPT: che, anzi, si moltiplicano in tutto il paese, provocando un diffuso e generalizzato malcontento.

Ed è ancora la Corte Costituzionale a dare uno sbocco concreto alle proteste: con la sentenza n. 222 del 2004, la Consulta non interviene nel merito della questione dei CPT, ma trasforma radicalmente le procedure di espulsione. L’articolo 13, comma 3 bis del Testo Unico sull’Immigrazione, introdotto dalla Bossi-Fini, stabiliva come noto sia l’immediata esecutività del provvedimento espulsivo, sia la convalida dell’allontanamento, da parte del giudice, entro le successive 48 ore. Di fatto, il giudice convalidava (o meno) l’espulsione quando lo straniero era già stato accompagnato alla frontiera dalle forze dell’ordine. Secondo la Corte, questa procedura vanifica le garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione, «e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell’autorità giudiziaria». Nella sentenza, dunque, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo in questione «nella parte in cui non prevede che il giudizio di convalida debba svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa».

Dalle denunce di Amnesty alla scoperta di Lampedusa (2004-2005)

Le numerose denunce e inchieste sul trattenimento mostrano un aspetto che negli anni precedenti era rimasto in ombra, almeno alle opinioni pubbliche: la funzione promiscua di numerosi “centri”. In teoria, infatti, il CPT svolge un ruolo specifico – il trattenimento di immigrati irregolari in attesa di espulsione -, e i centri debbono essere costituiti, a norma dell’art. 14 comma 1 del Testo Unico sull’Immigrazione, «con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica». Nella realtà dei fatti, invece, gran parte dei centri trattengono non solo gli immigrati in attesa di espulsione, ma anche i richiedenti asilo (che secondo una legge in vigore dal 2005 dovrebbero stare in strutture specifiche), le vittime della tratta di esseri umani, nonchè gli stranieri che arrivano in Italia a seguito di sbarchi sulle coste soprattutto siciliane. In molti casi, cioè, la stessa struttura è utilizzata come centro di permanenza temporanea, centro di identificazione (per i richiedenti asilo) e centro di accoglienza per fronteggiare gli sbarchi: il che significa che le funzioni umanitarie e di accoglienza vengono assolte da luoghi detentivi e punitivi, quasi tutti costituiti in violazione della procedura di cui all’art. 14 comma 1 del Testo Unico.

Il 20 Giugno 2004, intanto, la nave dell’organizzazione umanitaria tedesca Cap Anamur, sistematasi al largo di Porto Empedocle per monitorare gli sbarchi di profughi sulle coste siciliane, raccoglie a bordo 37 persone, tutte provenienti dall’Africa subsahariana, stipate su un gommone che navigava nelle acque comprese tra la Libia e l’isola di Lampedusa. La Cap Anamur chiede alle autorità italiane la possibilità di portare in salvo i profughi, ma il Ministero degli Interni nega l’autorizzazione all’attracco e costringe i migranti – molti dei quali in precarie condizioni di salute – a rimanere al largo, a bordo della nave. Dopo 13 giorni di attesa, scanditi da comunicati di protesta di ACNUR (Alto Commissariato ONU per i Rifugiati), Caritas, organizzazioni umanitarie ed enti locali, alla fine viene autorizzato l’attracco, ma l’equipaggio della nave viene messo sotto arresto, mentre i migranti vengono trattenuti nel CPT di Agrigento. Il 15 Luglio, il Ministero dell’Interno nega l’asilo politico ai profughi: il Ministro Pisanu dichiara che si tratta semplicemente di clandestini da espellere, e il 22 Luglio un aereo deporta i migranti in Ghana. La vicenda della Cap Anamur, legata solo marginalmente alla questione dei CPT, ripropone nel dibattito nazionale il problema della detenzione dei migranti irregolari.

Il 20 Giugno 2005 Amnesty International presenta alla stampa un dettagliato rapporto sui CPT dal titolo Presenze temporanee, diritti permanenti. Il rapporto contiene dettagliate denunce di persone detenute nei Cpt e sottoposte ad aggressioni fisiche da parte di agenti delle forze dell’ordine e del personale di sorveglianza e alla somministrazione eccessiva e abusiva di sedativi e tranquillanti. «Molte persone» – spiega Amnesty nella conferenza stampa di presentazione dell’inchiesta –  «incontrano difficoltà nell’accedere alla consulenza di esperti, necessaria a contestare la legalità della loro detenzione e del relativo ordine di espulsione. La tensione nei centri è alta, con frequenti proteste, inclusi tentativi di fuga e alti livelli di autolesionismo. I centri sono spesso sovraffollati, con strutture inadeguate, condizioni di vita contrarie alle norme dell’igiene e cure mediche non soddisfacenti».

Nell’Estate 2005, intanto, si moltiplicano gli sbarchi sull’isola di Lampedusa: già all’inizio di Giugno, le cronache segnalano che il locale CPT – che ha una capienza massima di 190 persone – è arrivato ad ospitarne quasi 600. La RAS (Rete Antirazzista Siciliana) – un cartello di associazioni impegnate per i diritti dei migranti – lancia un appello “Per un’Estate di lotta in Sicilia”, e organizza un campeggio-presidio a Licata nonchè una presenza a Lampedusa per monitorare le attività del CPT. L’iniziativa della RAS, preceduta da alcuni video-inchiesta sui rimpatri illegali dall’isola, prodotti tra il 2004 e il 2005 (e che tra l’altro avevano sollecitato, nella Primavera 2005, una dura presa di posizione del Parlamento Europeo contro l’Italia), riesce a catalizzare l’attenzione dei mass-media sul CPT di Lampedusa.

Il 15 Settembre approda sull’isola una delegazione di europarlamentari di tutti gli schieramenti politici, nell’ambito di un giro di verifiche informative sulla detenzione dei migranti programmato dal Parlamento UE: i delegati trovano nel centro – ripulito e “svuotato” per l’occasione – appena 11 migranti. L’operazione di “ripulitura”, effettuata per nascondere ai parlamentari la realtà del centro, viene accuratamente documentata da una troupe televisiva de La7, che alla vicenda dedicherà un’apposita trasmissione di inchiesta il 22 Ottobre.

Il 6 Ottobre 2005, il giornalista Fabrizio Gatti pubblica uno sconcertante reportage proprio sul CPT di Lampedusa. Come già aveva fatto in Via Corelli a Milano, il cronista si finge clandestino, si dà persino un nome di fantasia (Bilal, di etnia curda) e si fa internare nel centro. Il racconto dell’esperienza vissuta è drammatico. «Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi», minaccia un’operatrice del centro, mentre un suo collega le chiede «ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?». «Centinaia di immigrati», prosegue ancora il racconto, «sono seduti sull’asfalto in fila […]. Due rigagnoli di liquido violaceo escono da una porta a destra, […] il liquame puzza di urina e fogna. “Seduti”, urla uno dei carabinieri, […]. “Ma qui in fondo è una schifezza”, dice il collega […]. “Il maresciallo ha detto di farli sedere. Sit down”, grida più forte il primo e sorprende un immigrato alle spalle, frustandolo sulle orecchie con i suoi guanti in pelle. […] Per evitare botte bisogna rassegnarsi e bagnarsi». «I gabinetti», narra ancora Fabrizio Gatti, «sono un’esperienza indimenticabile. […] Docce con gli scarichi intasati, quaranta lavandini, e otto turche di cui tre stracolme fino all’orlo di un impasto cremoso […]. Dai rubinetti esce acqua salata. Non ci sono porte, non c’è elettricità, non c’è privacy. Si fa tutto davanti a tutti. […] E non c’è nemmeno carta igienica: bisogna usare le mani. Lì dentro è meglio andarci di notte perché di giorno il livello dei liquami sul pavimento è più alto dello spessore delle ciabatte e bisogna affondarci i piedi».

Mobilitazioni, inchieste e denunce sulla realtà dei CPT non restano senza conseguenze: a partire dall’Estate 2005, l’istituto della detenzione/trattenimento amministrativo è oggetto di diffuse critiche, non più limitate all’associazionismo e ai movimenti, ma estese anche ad ambiti politici e istituzionali.

Il documento delle Regioni (2005)

Il 7 Giugno 2005, il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, di Rifondazione Comunista, lancia in un articolo sul Manifesto una campagna contro i CPT, definiti piccole Guantanamo italiane. Vendola chiama a raccolta i Presidenti delle altre Regioni, quattordici dei quali – tutti del centro-sinistra – si ritrovano l’11 Luglio a Bari nel Forum Nazionale Mare Aperto. Nel documento conclusivo approvato dal Forum si chiede il superamento dei CPT e l’apertura di una nuova stagione riformatrice in materia di politiche migratorie.

Il documento suscita gli strali delle aree più moderate del centro-sinistra ancora all’opposizione. L’ex Ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, padre della legge che per prima ha istituito i Centri di Permanenza Temporaea, continua a sostenere un approccio repressivo. In un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 3 Luglio 2005, Napolitano difende la necessità dei CPT, pur criticandone la gestione da parte del nuovo Governo. «Non c’è alcuna alternativa a uno strumento del genere», spiega in modo perentorio il futuro Capo dello Stato, «tant’è che non c’è alcuna proposta, se non quella irresponsabile di chiuderli senza sostituirli con nulla».

Il programma dell’Unione e il “superamento” dei CPT (2005-2006)

All’interno del centro-sinistra, che nel frattempo sta preparando la campagna elettorale, prevalgono però le tesi di Vendola. La coalizione di forze politiche che si è data il nome di “Unione” – e che comprende sia forze “moderate” come DS e Margherita, sia partiti più “radicali” come Rifondazione Comunista o i Verdi – pubblica all’inizio del 2006 un articolato programma di Governo che, sulla questione dei CPT, recepisce sostanzialmente le indicazioni dei governatori regionali.

Il documento parte proprio dalla crisi delle politiche migratorie repressive, e si interroga sul loro fallimento: perché, nonostante l’inasprirsi delle norme in materia di ingresso e soggiorno, è aumentata la presenza clandestina nel nostro paese? Perché le espulsioni non hanno funzionato? Perché i CPT non sono riusciti ad allontanare i migranti “indesiderati”?

Ad alimentare la clandestinità – argomenta l’Unione – non sono state leggi “lassiste”, ma al contrario normative troppo rigide, che hanno reso impossibile l’ingresso e il soggiorno regolare. Una volta che tutti o quasi i migranti siano costretti alla clandestinità, la repressione perde efficacia: rimpatriare centinaia di migliaia di persone diventa impossibile, sia dal punto di vista economico che da quello logistico. L’Unione, dunque, non ha dubbi: è necessario «ridurre il fenomeno dell’irregolarità a dimensioni fisiologiche, quindi gestibili».

A questo scopo, bisognerà anzitutto prevedere meccanismi realistici di ingresso: per esempio attraverso un visto per ricerca di lavoro, che non obblighi gli aspiranti immigrati a munirsi di un contratto di lavoro o di uno sponsor prima della loro partenza. Sarà necessario poi alleggerire le procedure di rinnovo dei permessi, nonché consentire una qualche forma di regolarizzazione ai migranti clandestini già presenti in Italia, che lavorino al nero. Così ridotta numericamente, l’immigrazione irregolare potrà essere realmente contrastata. La Bossi-Fini, dicono i partiti del centro-sinistra, ha previsto un solo mezzo per il trattamento dell’irregolarità: quello dell’espulsione indifferenziata, uguale per tutti, con accompagnamento alla frontiera e divieto di reingresso per dieci anni. Per gli immigrati privi di documenti, dei quali non è possibile ricostruire l’identità e il paese di provenienza, la legge ha poi disposto il trattenimento nei CPT. È efficace questo insieme di strumenti? O non è troppo rigido, incapace di adattarsi al caso singolo?

Secondo le forze politiche del centro-sinistra, l’immigrato senza passaporto ha tutto l’interesse a non rivelare la sua identità: una volta che la polizia abbia individuato il suo paese di origine, infatti, potrà rispedirlo a casa, e per lui scatterà il divieto di reingresso per dieci anni. Il programma propone allora di differenziare il divieto di reingresso a seconda dei casi: più anni a chi non collabori alle procedure di identificazione, un tempo minore per chi rivela i propri dati anagrafici e il proprio paese di provenienza. In questo modo, i CPT non saranno più necessari: i pochi stranieri che decideranno di non collaborare alla loro espulsione potranno essere, eventualmente, oggetto di misure di sorveglianza disposte dal Magistrato. «L’adozione di queste norme», conclude il documento, «comporta il superamento dei Centri di Permanenza Temporanea».

La formula del “superamento” dei CPT – già utilizzata, come abbiamo visto, dai governatori delle Regioni – finirà per provocare polemiche ed interpretazioni contrastanti. Così, per esempio, secondo il responsabile per l’immigrazione dell’ARCI Filippo Miraglia, «il superamento di cui si parla è un superamento che verrà consentito da una riforma delle politiche sull’immigrazione in generale: considerato che oggi in Italia c’è un’immigrazione irregolare che non sceglie di esserlo, ma lo è perché la legge obbliga ad esserlo, modificando la legge ed eliminando quasi del tutto le cause dell’irregolarità, anche i provvedimenti di espulsione diminuirebbero moltissimo, e a quel punto si renderebbe meno difficile un cambio di decisione anche sui Cpt». Diversa è l’interpretazione di alcune aree dei movimenti antirazzisti, legate ai centri sociali o alle reti disobbedienti, secondo le quali la formula del superamento coprirebbe la scarsa volontà di chiudere i CPT. Così, secondo il Centro Sociale Laboratorio Zeta di Palermo (uno dei principali animatori della Rete Antirazzista Siciliana), la proposta di incentivare la collaborazione dei migranti alle procedure di identificazione sarebbe «pericolosa e paradossale», perchè «introdurrebbe una distinzione nel trattamento dei migranti, considerati “buoni” o “cattivi” sulla base della loro collaborazione alla propria espulsione: tutto ciò non equivale naturalmente alla chiusura dei C.P.T.».

Dal volume di Marco Rovelli al “Libro Bianco”: ancora denunce (2006)

Intanto proseguono le denunce e le inchieste sulle violazioni dei diritti umani nei centri di permanenza temporanea.

Nel Febbraio 2006, Amnesty International pubblica il dossier Invisibili, nel quale si denuncia la presenza, nei CPT italiani, di minori stranieri (che secondo le normative internazionali e la stessa legge italiana non possono essere espulsi nè trattenuti). Nel Giugno dello stesso anno, il giovane cantante Marco Rovelli pubblica per la BUR il libro Lager italiani. Introdotto da Erri De Luca, e commentato da una postfazione di Moni Ovadia, il volume narra, in forma di racconto, le storie – raccolte dalla viva voce dei protagonisti – di migranti che a causa della loro condizione di clandestinità si sono trovati a permanere, in condizioni di reclusione, all’interno dei CPT. Rovelli sostiene nel libro che questi centri sono definibili come lager – laddove il termine lager rimanda al concetto di “campo” inteso come spazio dove il diritto è sospeso, destinato a coloro che sono privati dei diritti derivanti dalla cittadinanza. Dalle storie raccontate risulta come il soggetto recluso venga spesso sottoposto a vere e proprie forme di tortura, psicologica e fisica, senza alcun controllo di legalità [su Lager italiani vedi anche la recensione del sito Peacereporter].

Nell’Estate 2006, il Comitato Diritti Umani, organismo composto da parlamentari ed esponenti della società civile, pubblica un Libro Bianco sui CPT in Italia, risultato di ripetute visite ai centri di permanenza temporanea ed ai centri di identificazione sparsi nel territorio italiano. Il Libro Bianco rileva, tra l’altro, la totale assenza di un effettivo controllo giurisdizionale sulla detenzione amministrativa (affidata all’ampia discrezionalità dei prefetti e delle autorità di polizia); la sistematica violazione delle leggi in materia di immigrazione da parte delle autorità; l’erosione del diritto di asilo; la chiusura dei CPTA al mondo esterno (stampa, organizzazioni umanitarie, amministratori locali, avvocati e persino rappresentanti delle Nazioni Unite); l’utilizzo dei CPT come un indebito prolungamento di detenzione ai fini del riconoscimento di stranieri che sono stati in carcere anche per diversi anni; la violazione dei più basilari principi di trasparenza della pubblica amministrazione nella gestione dei CPTA [vedi anche la conferenza stampa di presentazione del Libro Bianco].

Dall’insediamento del governo Prodi alla Commissione De Mistura (2006-2007)

Nel frattempo l’Unione di Centro-Sinistra, che nel suo programma propone il superamento dei CPT, vince le elezioni politiche del 9 e 10 Aprile 2006, e nel mese di Maggio insedia il nuovo governo guidato da Romano Prodi: i ministri competenti in materia di immigrazione sono Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista (alla Solidarietà Sociale) e Giuliano Amato (agli Interni). Sin dalle prime settimane dopo l’insediamento del governo si registrano rilevanti dissensi tra i due ministri proprio sul tema dei CPT. Mentre Paolo Ferrero, sul Manifesto del 23 Maggio, ribadisce l’obiettivo del superamento, il suo collega Amato – in una intervista concessa a La Stampa nel mese di Agosto – si dichiara esplicitamente contrario a chiudere i centri, sulla base di un ragionamento che parte dalla necessità di limitare i flussi migratori: «Devo tenere conto», spiega l’inquilino del Viminale, «di una limitata capacità di assorbire l’immigrazione da parte della nostra società, una soglia che non posso superare per non provocare il demone della reazione negativa, che non a caso ha una sua rappresentanza politica. Devo stare attento a non scatenare la tigre». Poche righe dopo, il pensiero di Amato si fa più esplicito: «Ammetto che nella maggioranza c’è chi rivendica la chiusura dei Ctp. Ma confido nell’ampia possibilità di ragionare con questa posizione».

Per comporre il dissenso interno al Governo e alla maggioranza che lo sostiene, il Viminale decide di costituire una commissione di studio, a cui è conferito il compito di elaborare proposte sulle politiche relative ai CPT: della commissione, presieduta dall’ambasciatore ONU Staffan De Mistura, entrano a far parte funzionari ministeriali, ma anche esponenti della società civile e dell’associazionismo. Dopo alcuni mesi di lavoro, la Commissione presenta, il 31 Gennaio 2007, gli esiti della propria ricerca. Vale la pena soffermarvisi, anche perchè si tratta delle informazioni più recenti, tra quelle attualmente disponibili: la Commissione fornisce sia dati stastici sui centri visitati, sia considerazioni critiche sul loro funzionamento.

Cominciamo dai dati statistici. Al momento della rilevazione effettuata dalla Commissione (cioè tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007), esistevano in Italia 14 centri di permanenza temporanea, con una capienza totale di 1.940 posti. Calcolando una rotazione di 60 giorni per ciascun “ospite”, il sistema dei CPT è in grado di accogliere nell’arco di un anno, 11.742 persone, a fronte di una presenza di stranieri irregolari in Italia che la commissione stima attorno alle 300.000 unità: «si crea quindi», spiega il rapporto, «una situazione paradossale, in cui a fronte di un certo numero di irregolari presente sul territorio ed un certo numero di posti disponibili nei CPT è la casualità a determinare i trattenimenti nonché i conseguenti accompagnamenti alla frontiera» [pag. 5].
Nel periodo 2005 – 2006, risultano tradotti nei vari cpt un totale di circa 25 mila stranieri, a circa 22 mila (88%) dei quali è stato convalidato il trattenimento dal giudice entro i termini di legge. Dei trattenuti, oltre 6 mila e 500 (30%) risultano già identificati all’ingresso: «il trattenimento», argomenta la commissione, «si spiega quindi con motivazioni di ordine organizzativo [reperimento del passaporto o del mezzo di trasporto] […] e non identificativo» [pag. 12].
Un dato interessante riguarda le nazionalità presenti nei CPT. I rumeni sono la nazionalità più rappresentata: il 31% dei trattenuti nei centri, quando i rumeni regolarmente soggiornanti in Italia sono il 12% degli stranieri [pag. 15]. Seguono i marocchini (12% di trattenuti nei CPT, contro il 10% delle presenze regolari); a distanza, nigeriani, palestinesi e tunisini (4% di trattenuti per ciascuna nazionalità), quindi i moldavi (2,9%) e gli iracheni (2,8%) [pag. 12]. Quanto ai motivi del trattenimento, la commissione rileva un’alta presenza di ex detenuti (17%), con tre CPT che superano il 45%: Lamezia Terme (58%), Gorizia (49%), Bologna (47%).
La ricerca della Commissione si sofferma anche sull’efficacia dei CPT, cioè sulla reale capacità di rimpatriare gli stranieri trattenuti: «emerge», si legge nel Rapporto De Mistura, «una situazione diversificata da Centro a Centro […]: per i 6 CPTA per i quali è stata possibile un’elaborazione, si passa complessivamente dal 52% di Modena al 73% di Ragusa. Degli altri 7 CPT, 2 non hanno fornito dati e 5 evidenziano incongruità tra parziali e totali». «In sostanza», conclude la commissione, «su ogni 10 trattenuti in media 6 vengono successivamente espulsi con accompagnamento alla frontiera, […] e in molti casi non si dà luogo all’espulsione perché non si riesce a procedere all’identificazione» [pag. 13].

Quanto ai rilievi critici, la commissione De Mistura trova, nei CPT visitati, numerose situazioni improprie, tra le quali il rapporto cita espressamente: la presenza di circa il 30% di cittadini stranieri che risultano già identificati all’atto dell’ingresso nel centro e nei cui confronti «il trattenimento risulta finalizzato al solo conseguimento dei titoli di viaggio [cioè del passaporto, ndr]»; la presenza rilevante di ex-regolari, persone il cui permesso di soggiorno non è stato più rinnovato, e che hanno alle spalle periodi anche molto lunghi (superiori al decennio) di presenza continuativa in Italia; la presenza di numerosi richiedenti asilo «che non avevano adeguato accesso a servizi di orientamento», nonché di donne vittime di tratta, malati e minori stranieri; la presenza cospicua di migranti che «non vengono comunque mai rimpatriati e per i quali il trattenimento risulta del tutto inutile e produce un circolo vizioso» [che vengono cioè liberati in Italia ma, essendo clandestini, finiscono nuovamente nei CPT]; la presenza rilevante di ex detenuti «nei cui confronti sarebbe stato possibile e necessario procedere all’accertamento dell’identità durante il periodo di esecuzione della pena» [pagg. 20-22].

Sulla base di queste considerazioni, la Commissione De Mistura formula alcune proposte finalizzate a “superare” i CPT «attraverso un processo di svuotamento di tutte le categorie di persone per le quali non c’è esigenza di trattenimento». Si tratta in particolare, secondo il rapporto, di escludere dai CPT i cittadini rumeni (entrati nell’Unione Europea e divenuti perciò inespellibili), gli ex-detenuti (che possono essere identificati durante il periodo di detenzione, in modo da evitare la “doppia pena” carcere+centro di permanenza), alcune categorie sociali deboli come i minori, le vittime di tratta o i richiedenti asilo, nonchè le colf e le assistenti familiari [le cosiddette badanti] e gli ex-regolari, per i quali e le quali si deve ipotizzare una vera e propria regolarizzazione. Inoltre, la Commissione propone, per ridurre il ricorso al trattenimento nei CPT, l’istituzione di una forma di rimpatrio concordato e assistito, cioè di un sistema finalizzato a «favorire il rientro in patria dello straniero irregolare in cambio di un sostegno economico per realizzare nel suo paese […] un suo progetto di vita» [pag. 27].

L’insieme di questi provvedimenti, sostiene la Commissione De Mistura, non consente tout court di chiudere i CPT, perchè resterà comunque una “categoria residuale” di immigrati irregolari per i quali sarà necessaria l’identificazione finalizzata al rimpatrio: ma tale categoria sarà, appunto, residuale, numericamente irrisoria e più facilmente gestibile.

Le proposte della Commissione suscitano, nel variegato mondo che negli anni si era opposto all’istituzione dei CPT, reazioni contrastanti. Così, da una parte l’ARCI esprime soddisfazione per aver visto raccolte molte delle sue proposte, l’ASGI (l’associazione di studi giuridici sull’immigrazione) formula un giudizio critico ma sostanzialmente positivo sul lavoro della “De Mistura”, mentre la responsabile immigrazione di Rifondazione Comunista Roberta Fantozzi invita a tradurre i “passi avanti” proposti dalla Commissione in atti normativi di riforma. Sull’altro versante, invece, il portale Melting Pot – uno dei più importanti strumenti di comunicazione e informazione sui fenomeni migratori – lamenta il bizantinismo della formula superamento dei CPT, e contesta la proposta finale della Commissione, che in sostanza – secondo la redazione del sito – propone di mantenere i CPT (sia pure per un numero ristretto di persone).

Dopo la De Mistura: dalla proposta di legge Amato-Ferrero alla restaurazione

Il 24 Aprile 2007, il Governo presenta alla stampa il disegno di legge Amato-Ferrero, che dovrebbe abrogare la Bossi-Fini sostituendola con una nuova normativa in materia di immigrazione [sulla Amato-Ferrero leggi anche: testo del disegno di legge; brochure informativa a cura del Ministero dell’Interno]. Il disegno di legge recepisce gran parte delle proposte della De Mistura, mentre alle Camere risultano depositati due disegni di legge – uno dei Comunisti Italiani e l’altro di Rifondazione Comunista – che perseguono in maniera ancor più decisa l’obiettivo del superamento dei CPT.

Intanto, però, cambia il clima culturale e politico nel paese. L’emergenza-sicurezza, agitata da stampa e televisioni a partire da Maggio 2007, modifica profondamente l’agenda politica di partiti e uomini di governo. La riforma delle politiche dell’immigrazione lascia il posto, man mano che passano i mesi, all’esigenza di misure sempre più repressive. Così, la questione del superamento dei CPT sembra tramontare, ed anzi nel decreto-sicurezza approvato il 1 Novembre 2007 si estende la misura del trattenimento persino ad alcune categorie di cittadini comunitari.

I dati della Relazione sulla criminalità in Italia (2007)

Gli ultimi dati disponibili sul funzionamento dei CPT provengono dalla Relazione sulla Criminalità in Italia, presentata dal Ministero dell’Interno il 20 Giugno 2007. Nella Relazione vengono pubblicati alcuni dati (che riporto nella tabella qui sotto) sul rendimento dei CPT, cioè sulla loro effettiva capacità di allontanare i migranti “indesiderati”. A fronte di un rendimento calante delle espulsioni in generale (dopo l’approvazione della Bossi-Fini la capacità di rimpatriare davvero gli stranieri colpiti da decreto di espulsione è minore di anno in anno), l’efficacia dello strumento specifico dei CPT mostra un andamento oscillante. Mentre ai tempi della legge Turco-Napolitano lo Stato riusciva a rimpatriare circa un terzo dei migranti trattenuti nei “centri”, con l’approvazione della Bossi-Fini gli espulsi salgono alla metà. La punta massima di efficacia viene raggiunta nel 2005, quando circa due terzi degli stranieri transitati nei CPT erano stati espulsi; nel 2006, però, il rendimento dei centri è tornato a scendere, con meno del 60% dei trattenuti allontanati.

Rendimento dei CPT
Fonte: Ministero dell’Interno, Rapporto sulla criminalità in Italia, 2007
Anni 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006
Transitati nei CPT 9.768 14.993 17.469 13.863 16.465 16.055 12.842
Di cui espulsi 3.134 4.437 6.372 7.021 8.939 11.081 7.350
% espulsi su transitati 32,08% 29,59% 36,47% 50,64% 54,29% 69,01% 57,23%

 

Sergio Bontempelli, Maggio 2008

Country Music, Veltrusconi, violenza sulle donne

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Chissà se i «filoamericani» Walter Veltroni e Silvio Berlusconi conoscono questa canzone dell’americanissima Martina McBride, intitolata «Independence Day»: riguarda le violenze contro le donne ma, a differenza di quanto fanno i seguaci nostrani (e maldestri) delle stelle e striscie, non chiama in causa l’«unica matrice rumena» degli stupratori. Non usa nemmeno una formula equivalente, più adatta al contesto migratorio statunitense (che so? una cosa del tipo «unica matrice latinoamericana delle violenze», o similia…). Più sobriamente, chiama le cose col loro nome: perchè il «bruto» del video originale (a proposito, consiglio a tutti di guardarlo, si trova in questa pagina di youtube) non è straniero, non è clandestino, non è rumeno e nemmeno zingaro, ma è un americanissimo marito. Così come, qui da noi, sono gli italianissimi mariti, parenti, fidanzati e amanti i principali responsabili delle violenze sulle donne (come dimostrano tutti i dati disponibili). Checchè ne dicano Veltroni e Berlusconi…

La canzone, pubblicata nell’album The Way That I Am, del 1993, diventa presto un vero e proprio classico del country moderno, e vince numerosi premi (aggiudicandosi tra l’altro il titolo di «video musicale dell’anno 2004» al Country Music Association Awards). E proprio guardando il video originale – anche senza affannarsi a tradurre il testo della canzone dall’inglese – si può ricostruire la vicenda raccontata dalla McBride: è la storia delle continue violenze che un marito infligge alla moglie, raccontata dal punto di vista della figlia di otto anni. Durante uno dei tanti litigi tra i genitori, la bambina esce di casa e va per strada, a seguire i festeggiamenti per la Festa Nazionale dell’Indipendenza (l’Independence Day che dà il titolo alla canzone). Qui, i gesti dei clown – che mimano una rissa a calci e pugni – richiamano alla mente della bambina quanto sta accadendo a casa in quello stesso istante. Ed è formidabile l’accostamento tra la festa nazionale americana e le violenze domestiche che accadono ogni giorno nella «patria della libertà»: una vera e propria lezione a chi – nei paesi sudditi come il nostro – blatera di «unica matrice straniera» delle medesime violenze.

La canzone, in effetti, squarcia un velo di omertà diffuso a suo tempo nel mondo della musica country, e nella cultura americana più in generale: tanto da diventare – come scrive il blog Country Universe, non senza un po’ di enfasi forse eccessiva – una sorta di «inno» (anthem) della cultura popolare. La conclusione della storia è tragica. La moglie, esasperata dai continui soprusi, compie un gesto disperato: incendia la propria abitazione, provocando la morte sua e del marito. La bambina, che nella scena dei clown ha presagito quanto stava per accadere, si precipita a casa ma trova, tra le macerie ancora fumanti, solo i pompieri che cercano di spegnere l’incendio. Gli ultimi fotogrammi del video ritraggono la bambina in lacrime dentro una macchina della polizia.

Dopo la McBride – che nel frattempo diventa portavoce di numerose associazioni impegnate nella lotta alla violenza domestica – altre country e folk singer si cimentano sulle stesse tematiche: negli ultimi quindici anni, anzi, la violenza sulle donne diventa uno dei filoni principali – assieme a quello della pace e della guerra – della musica country «politicamente impegnata» (un genere molto più diffuso di quanto lo stereotipo del country-cowboy lascerebbe intendere).

Due anni dopo la pubblicazione di Independence Day, Faith Hill scrive A Man’s Home Is His Castle («la casa di un uomo è il suo castello»), una ballata struggente e amara, che riprende in qualche modo il tono rassegnato del pezzo della McBride. Vale la pena ascoltarla (il testo si trova qui):

Ugualmente «impegnato», ma di tono ben più irrivente e provocatorio, è il pezzo delle Dixie Chicks Goodbye Earl, pubblicato nel 1999, che tra l’altro apre il loro bellissimo live del 2003 (Top of the World Live). Anche in questo caso, per capirne la storia basta vedere il video originale (il testo si trova qui):

Wanda e Mary Ann si conoscono a scuola, diventano amiche, studiano insieme e si frequentano ogni giorno. Alla fine del liceo, Mary Ann decide di allontanarsi dalla città in cui vivono. Wanda, rimasta sola, si guarda intorno e «tutto quel che trova» – nel piccolo e provinciale luogo di ambientazione della vicenda – è Earl: un uomo corpulento, rozzo, dai modi bruschi, che sin dal giorno del matrimonio comincia a picchiare la nuova moglie fino a mandarla in Ospedale, in terapia intensiva. Fin qui, la drammaticità della storia richiama Independence Day. Ma la vicenda cambia subito tono: perchè nella piccola cittadina di provincia piomba l’amica, Mary Ann, che propone all’antica compagna di scuola l’omicidio del marito. Che infatti viene prima avvelenato, poi gettato ormai cadavere in un fosso.

L’omicidio non provoca alcun rimorso nelle due ragazze: che, anzi, nella scena finale del video si ritrovano a ballare nel centro del paese, e costringono alle danze persino il cadavere di Earl. Al clima di festa cittadina, allegro e scanzonato, fa da contraltare non solo il «morto che balla», ma anche la maglietta col teschio indossata da Martie Maguire (la violinista del gruppo).

Un finale un po’ crudo, forse: ma raccontato, con le immagini, in modo irriverente, scanzonato, provocatorio, volutamente scherzoso. Alla fin fine, si tratta pur sempre di una canzone. Sarà sempre meglio che invocare l’esercito contro improbabili «bruti» rumeni, o zingari…

Chi sono i rom rumeni? Un dossier

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Chi sono davvero i Rom di Romania? Perchè vengono in Italia? Cosa cercano nel nostro paese, e perchè abbandonano il loro? Ci vorrebbe un libro intero per rispondere a queste domande. Qui di seguito, un piccolo dossier per capire questi nuovi flussi migratori, al di là di facili stereotipi.

Chi sono i Rom rumeni? La stampa quotidiana e le televisioni ci hanno abituati a parlare comunemente di questo fenomeno migratorio, ma non ci aiutano a capirlo: così, quando si discute di «rom rumeni», a molti verranno in mente ladruncoli, spacciatori, scippatori, violentatori di donne o rapitori di bambini, e poco altro. Cerchiamo allora, per quanto possibile in un blog, di fare un po’ di chiarezza, e anche di fornire qualche dato e informazione storica.

Cominciamo con un necessario chiarimento terminologico, che a molti lettori apparirà banale. Poichè spesso si fa confusione tra Rom e rumeni, sarà bene chiarire che con la parola «rumeno» (o «romeno») si indica comunemente il cittadino della Romania, mentre il termine «Rom» identifica una minoranza «etnico-linguistica», cioè un insieme di gruppi che parlano – o che parlavano in passato – una medesima lingua detta romanés, a sua volta articolata in numerosi dialetti. I «Rom» sono diffusi in tutti i paesi d’Europa, e hanno perciò varie nazionalità: esistono così Rom italiani – cittadini a pieno titolo del nostro paese, nati da famiglie italiane e cresciuti in Italia -, Rom spagnoli, Rom serbi e così via. In Romania, la minoranza Rom è molto numerosa: i suoi componenti sono cittadini rumeni che, oltre alla lingua nazionale del loro paese (il rumeno, appunto) parlano diversi dialetti della lingua romanés. Perciò, detto in estrema sintesi, tutti i Rom rumeni sono cittadini della Romania ma, all’inverso, non tutti i rumeni appartengono alla minoranza Rom.

La minoranza Rom: cenni storici

Nonostante abbiano un nome simile, la lingua rumena e quella romanés sono molto diverse. In Romania si parla una lingua di derivazione latina, molto vicina all’italiano, allo spagnolo e al francese, con significativi «prestiti» slavi e qualche parola di origine ungherese, albanese o turca. Il romanés, invece, deriva dalle lingue indiane e neo-indiane: gli storici ritengono che le origini del popolo Rom siano da ricercarsi proprio in India, da dove i cosiddetti «zingari» si sarebbero spostati tra l’VIII e il XII secolo, raggiungendo poi tutti i paesi d’Europa [cfr. L. Piasere, I Rom d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Bari-Roma 2004, pagg. 23 e ss.].
Il primo documento scritto che attesta la presenza di Rom nell’attuale Romania risale al 1385 [cfr. Piasere, cit., pag. 35]. Nei principati di Valacchia e di Moldavia – antenati della Romania – i Rom sono stati schiavi fino al 1856, anno in cui in Valacchia viene emanata una legge che prevede l’abolizione della schiavitù [cfr. Piasere, cit., pag. 44]: nei periodi successivi, tra XIX e XX secolo, i Rom hanno svolto prevalentemente mestieri artigianali e girovaghi, sono stati calderai, fabbri, artigiani del legno, raccoglitori di vetro ecc. [si veda, in lingua rumena, CEDIMR-SE. Centrul de Documentare si Informare despre Minoritatile din Europa de Sud-Est (CEDIMR-SE). Minoritatile din Europa de Sud-Est. Romii din România, 2001, pag. 7].

Questa collocazione sociale è una delle origini della prolungata marginalità dei Rom: in un paese prevalentemente agricolo come la Romania, i Rom hanno abbandonato le terre in cui lavoravano come schiavi, e hanno svolto mansioni itineranti, legate ad un artigianato povero e precario. Il fatto di essere una minoranza etnico-linguistica, con una propria lingua diversa da quella maggioritaria, li ha poi resi sospetti, scomodi, “fuori posto” proprio nel momento in cui, in Romania come in gran parte dei paesi europei, si affermava l’ideologia nazionalista. Le versioni più radicali di quest’ultima – sangue e suolo – porteranno, a cavallo tra le due guerre mondiali, a vere e proprie persecuzioni a sfondo razziale: nel periodo Antonescu, 25.000 Rom verranno deportati in Transnistria, e lasciati morire al freddo [cfr. Viorel Achim, Ţiganii în istoria Romăniei, Editura Enciclopedica, Bucureşti 1998, pagg. 139-148; Viorel Achim, The Roma in Romanian History, Central European University Press, Budapest 2004, pagg. 170-179].

Il primo periodo comunista

L’avvento del regime comunista sembra risollevare un po’ le sorti di questa minoranza fragile e discriminata. Nella campagna elettorale del 1946, il Blocul Partidelor Democratice (alleanza elettorale guidata dal PC) indirizza agli zingari uno speciale appello, «Fraţi romi şi surori romniţe» (fratelli Rom e sorelle romnì), che invita a votare per il Blocul, e si impegna a contrastare discriminazioni ed esclusioni contro le minoranze [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 189].

Si tratta, però, di un interesse fugace. Già nel Dicembre 1948, il Comitato Centrale del Partito Comunista ormai al potere (che in questo periodo si chiama PMR, Partidul Muncitoresc Român, cioè «Partito Rumeno del Lavoro») dedica una speciale sessione di dibattito al problema delle minoranze etniche: la risoluzione finale dell’Ufficio Politico, mentre attribuisce nuovi poteri a minoranze nazionali come quella ungherese, ignora completamente l’esistenza dei Rom [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pagg. 189-190].

La politica del regime, in effetti, si rifiuterà sempre di riconoscere i Rom come una vera e propria minoranza etnica. Gli ţigani (zingari) saranno trattati piuttosto come un problema sociale, in ragione della loro povertà e della precarietà dei loro mestieri: essi verranno esclusi – certo – dai benefici delle nazionalità minoritarie, ma, al contempo, finiranno per usufruire delle numerose opportunità di ascesa sociale garantite ai più poveri. Gli studi storici sottolineano in particolare che, nel primo periodo del regime comunista, molti Rom diventano Sindaci, quadri di partito, funzionari dei servizi segreti, ufficiali dell’esercito, dirigenti di polizia: scompaiono, insomma, in quanto Rom, ma acquisiscono ruoli e prestigio in quanto individui [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 190].

L’era Ceaucescu e la sedentarizzazione forzata

Nel secondo periodo di vita del regime comunista – che possiamo far coincidere, grosso modo, con l’era Ceaucescu – la Romania cerca di avviare una vera e propria assimilazione forzata dei Rom, in particolare di coloro che praticano ancora mestieri girovaghi e ambulanti, e che sono per questo definiti nomazi (nomadi). I provvedimenti non si discostano molto da quelli che, più o meno nello stesso periodo, sono presi negli altri paesi socialisti. Dopo un primo esperimento promosso dalla Polonia nel 1952, infatti, è l’URSS di Krusciov a fornire le «linee guida» delle politiche contro il vagabondaggio: con un decreto del 1956, lo stato sovietico vieta la vita «nomade», prevede cinque anni di lavori forzati per chi resiste, e al contempo garantisce casa, lavoro, assistenza sanitaria e inserimento scolastico per le famiglie che si «adeguano» [cfr. Piasere, cit., pagg. 60-61].
Questa sedentarizzazione forzata produce, in Romania, i suoi effetti: «le autorità locali», spiega Viorel Achim, «vengono obbligate a mettere a disposizione alloggi, e ad assicurare posti di lavoro. Nelle province con una numerosa presenza di nomadi (Mures, Alba ecc.), una parte delle famiglie vengono trasferite in altre province o addirittura in altre zone del paese, spesso nei grandi centri urbani. L’intera operazione viene diretta a livello centrale, ma messa in pratica dalle autorità locali e dalla milizia. Scompaiono così dal paesaggio rumeno le carovane di zingari che percorrono i villaggi» [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 191; la traduzione è mia].

Avviata già dalla fine degli anni ’60, questa politica di sedentarizzazione raggiunge il suo culmine nel 1977, quando il Comitato Centrale del Partito Comunista promuove un programma speciale di integrazione sociale dei Rom (i cui dettagli non verranno mai resi pubblici). Nel 1977, il censimento registra la presenza di circa 65.000 zingari nomadi, e di quasi 230.000 cittadini di etnia Rom, equivalenti all’1,76% della popolazione: un dato che gli storici ritengono largamente sottostimato, essendo il numero reale valutabile in circa un milione [per questi dati cfr. cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 191; CEDIM – SE, cit., pag. 11].

I Rom alla fine del periodo comunista: tra meticciato e marginalità sociale

Dobbiamo ora fermarci per un attimo, e valutare le conseguenze delle politiche messe in pratica dal regime: ciò consentirà di capire in che modo la minoranza Rom arriva all’appuntamento del crollo del comunismo, e come le condizioni sociali in cui i Rom si troveranno a vivere contribuiranno, negli anni Novanta, all’avvio dei processi migratori.

Un primo fenomeno degno di nota è l’inserimento massiccio dei Rom nel mercato del lavoro, sia agricolo che industriale: le comunità girovaghe dedite a mestieri artigianali tendono a scomparire, e i loro membri diventano sempre più operai, lavoratori agricoli, ferrovieri, impiegati, persino dirigenti di partito o quadri dell’esercito. Questo fenomeno agevola processi di meticciato, perchè i Rom – sempre meno separati dal resto della popolazione – cominciano a convivere con gli «altri rumeni» (o con le «altre rumene»), e con loro lavorano, vivono, si sposano, mettono su famiglia, fanno figli. Si tratta di una dinamica di straordinaria importanza, e che pure viene sottovalutata spesso soprattutto dai resoconti giornalistici: gran parte dei Rom comincia a parlare il rumeno come prima lingua, in tanti perdono l’uso del romanés, molte comunità si mescolano, il confine che separa gli «zingari» dai «rumeni» si fa via via meno rigido (ma, è opportuno ricordarlo, nessun confine «etnico» è mai stato tale). Oggi, le tracce di questi potenti processi di meticciato – avviati ben prima del periodo comunista, ma agevolati dalle politiche di assimilazione e di integrazione – sono ben visibili nei gruppi emigrati in Italia. Chi conosce anche superficialmente i «campi» sulle rive dei fiumi, le «baraccopoli» delle grandi città, sa benissimo che vi si trovano popolazioni dall’identità incerta e mobile: molti si definiscono «Rom», altri parlano di se stessi come di «rumeni», altri ancora utilizzano termini dialettali che alludono proprio all’esser «meticci», mescolati, misti.

Un secondo fenomeno degno di nota riguarda la perdurante emarginazione sociale dei Rom: un’emarginazione che rimanda, come abbiamo visto, alla «storia profonda» della Romania, al suo essere paese rurale, e poi anche industriale, con una minoranza Rom dedita a mestieri poveri legati all’artigianato e all’ambulantato. Le politiche di assimilazione forzata, l’inserimento degli «zingari» nel lavoro agricolo o di fabbrica, otterranno successi solo parziali: il regime, infatti, avvierà questi interventi in un momento di grave crisi economica, e non riuscirà a mobilitare tutte le risorse necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati. Così, se nel 1977 circa un terzo dei Rom risultano disoccupati, nel 1983 i senza lavoro saranno ancora cresciuti [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 196].

Infine, un terzo fenomeno degno di nota attiene alla sfera, per così dire, «ideologica» e simbolica. Il regime comunista ha fatto del nazionalismo uno degli assi portanti delle proprie politiche «identitarie»: prima che dittatura del proletariato e socialismo realizzato, l’élite dirigente ha pensato alla Romania contemporanea come ad una «nazione», erede di un lungo percorso storico che dal periodo dacio-romano porta alla costruzione di uno stato moderno su basi «etniche». Ed è in particolare tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 che Ceaucescu promuove una intensissima campagna ideologica nazionalista, riprendendo persino temi propri del tradizionalismo rumeno di estrema destra [cfr. Lucian Boia, La Roumanie. Un pays à la frontière de l’Europe, Les Belles Lettres, Parigi 2003, pagg. 35 e ss.]. Come è facile intuire, in un clima di rinnovato nazionalismo, dove si esalta la presunta «omogeneità etnica» della Romania, le minoranze etnico-linguistiche diventano oggetto di sospetti e diffidenze.

Il post-comunismo

I Rom, dunque, giungono all’appuntamento della caduta del regime in condizioni di relativa marginalità sociale: non sono più – o sono sempre meno – un corpo separato dal resto della società, non girano più da decenni in carovane “nomadi”, esercitano sempre meno i mestieri ambulanti tradizionali, ma sono comunque poveri e percepiti come “diversi”.

Nel 1991 viene approvata la cosiddetta «Legge del Fondo Fondiario», che smantella le grandi imprese agricole di Stato e restituisce ai “legittimi proprietari” la terra espropriata nell’epoca comunista. I terreni agricoli vengono assegnati, per lo più in piccoli lotti, ai discendenti di coloro che l’avevano posseduta prima della collettivizzazione: così, molte famiglie rumene diventano proprietarie di piccoli terreni, con i quali riescono ad avviare una minima economia di sussistenza [«Legea Fondului Funciar n°18/1991» (Legge del Fondo Fondiario n. 18/1991). Una utilissima ricostruzione, in lingua italiana, delle vicende che hanno portato all’approvazione di questa riforma si trova in Gloria Zagaglioni, Le peculiarità del mondo rurale romeno e le sfide dello sviluppo: tra transizione post-comunista e allargamento dell’Unione Europea, tesi di laurea, Università di Bologna Anno Accademico 2003-2004].

Questa legge, però, penalizza gravemente la minoranza Rom, che storicamente non ha mai posseduto terreni, e che dunque ora non può beneficiare della «restituzione» [Cfr. Ina Zoon, On the Margins. Roma and Public Services in Romania, Bulgaria and Macedonia, Open Society Institute, New York 2001, pag. 123; Dena Ringold, Mitchell A. Orenstein e Erika Wilkens, Roma in an expanding Europe. Breaking the poverty circle, World Bank, Washington 2003, pagg. 97 e ss.; UNITED NATIONS DEVELOPMENT PROGRAMME, Avoiding the dependency trap. Roma in Central and Eastern Europe, UNDP, Bratislava 2002, pag. 15].
Tra l’altro molti Rom erano impiegati proprio nelle imprese agricole statalizzate dell’epoca Ceaucescu: la chiusura di queste aziende provoca un’ondata di licenziamenti, e un incremento della disoccupazione soprattutto nelle minoranze etniche più fragili e discriminate.

Nel 1993, una équipe di ricercatori dell’Università di Bucarest e dell’«Institutul de Cercetare a Calităţii Vieţii» (Istituto di Ricerca sulla Qualità della Vita), pubblica i risultati di un importante studio sulla condizione dei Rom di Romania [cfr. Elena e Cătălin Zamfir (a cura di), Ţigani între ignorare şi îngrijorare, Editura Alternative, Bucureşti 1993]. Ne emerge un quadro sconfortante. Il 79,4% dei Rom risulta completamente disoccupato (58% tra gli uomini e 88% tra le donne), il reddito medio di una famiglia Rom è assai più basso della media nazionale, e molti giovani, che non trovano lavoro, restano a lungo nelle famiglie di origine.
Al contempo, la ricerca dimostra che i processi di meticciato, di mescolanza sono largamente compiuti. Così, per esempio, solo il 40,9% delle persone che si definiscono «Rom» parla il romanés come lingua madre, e solo il 3,9% svolge mestieri e professioni tradizionali legati alla «cultura Rom». Lo studio osserva che dietro l’etichetta generica di «zingari» si raccolgono popolazioni assai diverse, per molte delle quali è difficile tracciare un confine rigido con i rumeni non-Rom.

Nonostante questo, però, i gruppi che l’immaginario collettivo continua a vedere come «zingari tout court» sono non solo percepiti come radicalmente diversi dai «rumeni», ma fatti oggetto di crescenti sentimenti razzisti e xenofobi. «Dopo la caduta del regime comunista in Romania», scrive per esempio la Rete di Urgenza contro il Razzismo in un documentato dossier pubblicato nel 1998, «vi fu, in particolare nella prima metà degli anni ’90, un’esplosione di violenza razzista nei confronti delle comunità Rom. In decine di villaggi rumeni folle inferocite assaltarono e incendiarono le case dei Rom, distrussero le loro proprietà e li cacciarono dai villaggi, impedendo loro di ritornare; durante queste violenze collettive alcuni Rom vennero assassinati. Esemplare in questo senso, e ormai tristemente famosa, è la sommossa di Hadareni, avvenuta nel 1993, durante la quale tre Rom furono uccisi, 19 case bruciate e 5 distrutte» [cfr. anche European Roma Rights Center, Sudden Rage at Dawn.Violence against Roma In Romania, Country Reports Series, No. 2., ERRC, Budapest 1996]. Ad alimentare le violenze a sfondo razziale interviene anche il clima di rinnovato nazionalismo che caratterizza la Romania all’indomani della transizione post-comunista. In particolare, già dagli anni ’90 emerge nel panorama politico-elettorale una nuova forza politica, il PRM – Partidul de Romania Mare («Partito della Grande Romania») guidato da Corneliu Vadim Tudor. Si tratta di una formazione ultranazionalista, che ripropone il mito della «purezza etnica» contro le minoranze del paese (quella Rom e quella, ben più forte e organizzata, degli ungheresi). Gli osservatori internazionali definiscono il PRM di «estrema destra», ma in realtà Tudor riprende anche i miti nazionalisti propri dell’ultima fase del regime comunista [cfr. L. Boia, cit., pag. 214].

L’emigrazione verso l’Italia

L’insieme di questi fenomeni, qui descritti in modo necessariamente sommario, favorisce l’emigrazione di molti Rom. In una primissima fase (attorno alla metà degli anni ’90), gli arrivi riguardano soprattutto comunità discriminate, oggetto di persecuzioni e di violenze, che fuggono dalla Romania e che, non di rado, chiedono asilo politico nel nostro paese, quasi sempre senza successo: è il caso, per esempio, del consistente gruppo segnalato a Torino nel 1997, che proviene dalla regione di Ialomita [cfr. Rete d’Urgenza, cit.; Marco Nieli, Genocidio culturale, in «Guerre e Pace», n. 106/2004]. Presto, però, le migrazioni di Rom rumeni si trasformano, investendo gruppi relativamente ben inseriti, che cercano all’estero opportunità di lavoro in modo da «compensare» il progressivo impoverimento dovuto agli effetti delle riforme agrarie. E’ il caso, soprattutto, della consistente comunità, che emigra da Craiova e dalla regione del Dolj e che si insedia nel campo nomadi «Garibaldi» di Milano, da dove nel 1996 viene trasferita alla baraccopoli di Via Barzaghi [informazioni tratte da Mauro Bottaro, Cronaca di uno sgombero annunciato, 2001, in http://www.casadellacultura.it/, link non più disponibile]. Da questo punto di vista, le migrazioni dei Rom seguono percorsi non troppo dissimili da quelle dei lavoratori rumeni: la leggenda degli zingari che verrebbero in Italia «per delinquere» – al contrario dei rumeni, che emigrerebbero «per lavorare» – è, appunto, una leggenda priva di riscontri [per una breve storia delle migrazioni rumene cfr. Sebastian Lazaroiu, Monica Alexandru, Controlling exits to gain accession. Romanian migration policy in the making, CESPI, Roma 2005].

Gli arrivi nel nostro paese registrano una vera e propria «impennata» tra il 2000 e il 2001: è il periodo in cui l’Italia abolisce l’«obbligo di visto» per i cittadini rumeni, consentendo a questi ultimi di varcare la frontiera esibendo semplicemente il passaporto. Quasi tutte le inchieste condotte nelle città – Milano, Bologna, Roma – mostrano che i Rom si inseriscono facilmente nei circuiti del lavoro nero e dell’economia sommersa, e costituiscono una manodera ambita soprattutto in edilizia [cfr. per es. VAG61, La colonna senza fine. Storia dei Rom rumeni a Bologna, 2008; Giovanna Boursier, Un piazzale per casa. Gli invisibili di Roma, in «Il Manifesto», 30 Luglio 2003]. Tanto a Milano quanto a Bologna, poi, i Rom rumeni si rendono protagonisti di importanti vertenze per il diritto alla casa e al soggiorno.

Oggi, la presenza complessiva di Rom rumeni in Italia viene stimata attorno alle 50.000 unità [cfr. F. Motta e S. Geraci, Rom e Sinti a Roma: un’emergenza sempre rinnovata, in Caritas di Roma, Osservatorio Romano sulle Migrazioni. Terzo Rapporto, IDOS, Roma 2007, pag. 289]

Sergio Bontempelli, 11 Giugno 2008

«Un luogo indecente, così vicino agli ebrei»

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Una Chiesa in pieno centro, a Pisa, la cui collocazione è considerata «sconveniente» per la sua vicinanza al quartiere ebraico. Una «pescheria» che produce acque di lavorazione difficili da smaltire. Problemi ambientali ed «emergenza sicurezza», un secolo e mezzo fa…

Quella che vedete qui sopra è la bella Chiesa di Sant’Andrea a Pisa, oggi sconsacrata. Nell’Ottocento la sua collocazione era da alcuni considerata sconveniente, prossima com’era «al ricettacolo delle donne di partito» (le prostitute) e «circondata in gran parte dalle abitazioni degli israeliti». La chiesa si trovava, infatti, nel bel mezzo del quartiere ebraico della città. L’attuale Sindaco Marco Filippeschi, se fosse vissuto in quel periodo, si sarebbe prodigato a spiegarci che, certo, gli ebrei non sono criminali e usurai, però attorno a loro si crea una percezione di insicurezza, a cui bisognerà pur dare qualche risposta. E magari avrebbe provveduto a sgomberare il ghetto… Ma non divaghiamo, e restiamo ai fatti.

Il problema della Chiesa di S. Andrea emerse, attorno alla metà del XIX secolo, nell’ambito di una delle prime questioni ambientali discusse in città: quella della pescheria. Il mercato del pesce si trovava allora in Via Palestro, di fronte alla Chiesa di S. Pierino: una zona all’epoca popolare, anche un po’ malfamata, eppure vicinissima al Lungarno, alla «vista magnifica» che incantava i turisti e inorgogliva gli intellettuali «locali» [cfr. Emilio Tolaini, Pisa. La città e la storia, ETS, Pisa 2007, pag. 208]. A due passi dalla pescheria, d’altra parte, c’erano i macelli pubblici e il mercato della frutta e della verdura: un connubio esplosivo dal punto di vista ambientale. Come spiega Emilio Tolaini, «le acque di lavorazione della carne, del pesce e delle verdure ponevano seri problemi di smaltimento che il decrepito sistema di scoli non era in grado di assicurare, aggravando la situazione ambientale di una zona fitta di vicoli, di edilizia molto densa, sviluppata in altezza, per lo più fatisciente, occupata dalla parte più povera della popolazione, quindi con sacche di delinquenza e di prostituzione» [E. Tolaini, cit., pag. 208].

La questione della pescheria, oggetto di dibattito sin dal ‘700, emerse con forza nel 1837, quando le autorità locali decisero di trasferire le attività di lavorazione e di vendita del pesce in una zona più consona, attigua all’attuale Tribunale. Il progetto del 1837 prevedeva in particolare il trasferimento della pescheria nella Chiesa di S. Andrea, la quale sarebbe stata chiusa al culto, con una motivazione che oggi sembra incredibile: la Chiesa era mal situata, perchè troppo vicina alle prostitute e al quartiere degli ebrei [Lucia Nuti, Pisa, progetto e città 1814-1865, Pacini Editore, Pisa 1986, pagg. 148-150]. In preparazione dei lavori, la Chiesa fu sconsacrata, furono preparati i progetti per la demolizione e per la costruzione, al suo posto, della nuova pescheria.

Gli abitanti della zona, però, opposero resistenza: la Chiesa, secondo loro, non andava demolita, e nel corso del 1839 si moltiplicarono petizioni e proteste per la sua ripartura al culto. Spinta dalle pressioni, la Magistratura (oggi si direbbe l’Amministrazione Comunale) cambiò idea, e predispose un progetto che spostava la pescheria a pochi metri dalla sua collocazione originaria, senza utilizzare la Chiesa di S. Andrea [L. Nuti, cit., pag. 150]. Ma in questo modo suscitò le proteste di segno opposto della Camera di soprintendentenza comunitativa (un organo granducale di controllo), che lamentava l’atteggiamento ondivago delle autorità locali: la Magistratura pisana rispose con una dettagliata relazione del suo ingegnere, nella quale si dimostrava che «S. Andrea, collocata nel punto più basso della zona, una volta trasformata in pescheria avrebbe avuto gravi problemi di fognatura, mentre il nuovo progetto elaborato avrebbe assicurato all’edificio aria e ventilazione sufficienti: tutte ragioni che consigliavano la restituzione della Chiesa ai parrocchiani» [L. Nuti, cit., pag. 150].

Intanto, nel 1845, la Chiesa di Sant’Andrea riaprì al culto, e l’Arcivescovo locale chiese l’allontanamento delle prostitute dalla zona. Ma l’anno dopo, il 14 Agosto del 1846, una forte scossa di terremoto colpì gravemente il quartiere, lesionando alcuni fabbricati tra i quali la stessa pescheria. Questa venne trasferita provvisoriamente in Piazza S. Paolo, in attesa di una sistemazione definitiva.

Negli anni ’50, però, della pescheria si parlò sempre meno. Il quartiere fu oggetto di un ambizioso intervento urbanistico, che prevedeva lo sventramento del vecchio tessuto medievale e la costruzione di una nuova strada di collegamento tra Piazza S. Caterina e i Lungarni: l’attuale Via Cavour. Ma questa è un’altra storia.

Sergio Bontempelli, 6 Giugno 2008

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