Country Music, Veltrusconi, violenza sulle donne

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Chissà se i «filoamericani» Walter Veltroni e Silvio Berlusconi conoscono questa canzone dell’americanissima Martina McBride, intitolata «Independence Day»: riguarda le violenze contro le donne ma, a differenza di quanto fanno i seguaci nostrani (e maldestri) delle stelle e striscie, non chiama in causa l’«unica matrice rumena» degli stupratori. Non usa nemmeno una formula equivalente, più adatta al contesto migratorio statunitense (che so? una cosa del tipo «unica matrice latinoamericana delle violenze», o similia…). Più sobriamente, chiama le cose col loro nome: perchè il «bruto» del video originale (a proposito, consiglio a tutti di guardarlo, si trova in questa pagina di youtube) non è straniero, non è clandestino, non è rumeno e nemmeno zingaro, ma è un americanissimo marito. Così come, qui da noi, sono gli italianissimi mariti, parenti, fidanzati e amanti i principali responsabili delle violenze sulle donne (come dimostrano tutti i dati disponibili). Checchè ne dicano Veltroni e Berlusconi…

La canzone, pubblicata nell’album The Way That I Am, del 1993, diventa presto un vero e proprio classico del country moderno, e vince numerosi premi (aggiudicandosi tra l’altro il titolo di «video musicale dell’anno 2004» al Country Music Association Awards). E proprio guardando il video originale – anche senza affannarsi a tradurre il testo della canzone dall’inglese – si può ricostruire la vicenda raccontata dalla McBride: è la storia delle continue violenze che un marito infligge alla moglie, raccontata dal punto di vista della figlia di otto anni. Durante uno dei tanti litigi tra i genitori, la bambina esce di casa e va per strada, a seguire i festeggiamenti per la Festa Nazionale dell’Indipendenza (l’Independence Day che dà il titolo alla canzone). Qui, i gesti dei clown – che mimano una rissa a calci e pugni – richiamano alla mente della bambina quanto sta accadendo a casa in quello stesso istante. Ed è formidabile l’accostamento tra la festa nazionale americana e le violenze domestiche che accadono ogni giorno nella «patria della libertà»: una vera e propria lezione a chi – nei paesi sudditi come il nostro – blatera di «unica matrice straniera» delle medesime violenze.

La canzone, in effetti, squarcia un velo di omertà diffuso a suo tempo nel mondo della musica country, e nella cultura americana più in generale: tanto da diventare – come scrive il blog Country Universe, non senza un po’ di enfasi forse eccessiva – una sorta di «inno» (anthem) della cultura popolare. La conclusione della storia è tragica. La moglie, esasperata dai continui soprusi, compie un gesto disperato: incendia la propria abitazione, provocando la morte sua e del marito. La bambina, che nella scena dei clown ha presagito quanto stava per accadere, si precipita a casa ma trova, tra le macerie ancora fumanti, solo i pompieri che cercano di spegnere l’incendio. Gli ultimi fotogrammi del video ritraggono la bambina in lacrime dentro una macchina della polizia.

Dopo la McBride – che nel frattempo diventa portavoce di numerose associazioni impegnate nella lotta alla violenza domestica – altre country e folk singer si cimentano sulle stesse tematiche: negli ultimi quindici anni, anzi, la violenza sulle donne diventa uno dei filoni principali – assieme a quello della pace e della guerra – della musica country «politicamente impegnata» (un genere molto più diffuso di quanto lo stereotipo del country-cowboy lascerebbe intendere).

Due anni dopo la pubblicazione di Independence Day, Faith Hill scrive A Man’s Home Is His Castle («la casa di un uomo è il suo castello»), una ballata struggente e amara, che riprende in qualche modo il tono rassegnato del pezzo della McBride. Vale la pena ascoltarla (il testo si trova qui):

Ugualmente «impegnato», ma di tono ben più irrivente e provocatorio, è il pezzo delle Dixie Chicks Goodbye Earl, pubblicato nel 1999, che tra l’altro apre il loro bellissimo live del 2003 (Top of the World Live). Anche in questo caso, per capirne la storia basta vedere il video originale (il testo si trova qui):

Wanda e Mary Ann si conoscono a scuola, diventano amiche, studiano insieme e si frequentano ogni giorno. Alla fine del liceo, Mary Ann decide di allontanarsi dalla città in cui vivono. Wanda, rimasta sola, si guarda intorno e «tutto quel che trova» – nel piccolo e provinciale luogo di ambientazione della vicenda – è Earl: un uomo corpulento, rozzo, dai modi bruschi, che sin dal giorno del matrimonio comincia a picchiare la nuova moglie fino a mandarla in Ospedale, in terapia intensiva. Fin qui, la drammaticità della storia richiama Independence Day. Ma la vicenda cambia subito tono: perchè nella piccola cittadina di provincia piomba l’amica, Mary Ann, che propone all’antica compagna di scuola l’omicidio del marito. Che infatti viene prima avvelenato, poi gettato ormai cadavere in un fosso.

L’omicidio non provoca alcun rimorso nelle due ragazze: che, anzi, nella scena finale del video si ritrovano a ballare nel centro del paese, e costringono alle danze persino il cadavere di Earl. Al clima di festa cittadina, allegro e scanzonato, fa da contraltare non solo il «morto che balla», ma anche la maglietta col teschio indossata da Martie Maguire (la violinista del gruppo).

Un finale un po’ crudo, forse: ma raccontato, con le immagini, in modo irriverente, scanzonato, provocatorio, volutamente scherzoso. Alla fin fine, si tratta pur sempre di una canzone. Sarà sempre meglio che invocare l’esercito contro improbabili «bruti» rumeni, o zingari…