Diritti dei migranti e antirazzismo

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Governo Meloni e immigrazione, un anno di (contro)riforme

Articolo originariamente pubblicato sul blog  “Delegati e lavoratori indipendenti Pisa”

Ripubblicato sul sito della rivista “L’Interferenza”

Il governo presieduto da Giorgia Meloni si è distinto per il suo particolare “attivismo” nel campo dell’immigrazione: in poco più di un anno abbiamo assistito a una vera e propria “pioggia” di provvedimenti, tutti caratterizzati da una visione repressiva e securitaria.

Alle origini di questa frenetica quanto disordinata attività normativa vi è il cosiddetto “decreto Cutro” (decreto n. 20/2023), emanato all’indomani del naufragio nel quale hanno perso la vita, al largo delle coste calabresi, 94 persone (di cui 35 minori). Con il pretesto di contrastare i cosiddetti “scafisti”, il decreto ha imposto una stretta al diritto di asilo. In particolare, è stata sostanzialmente abrogata la cosiddetta “protezione speciale”, cioè il permesso di soggiorno rilasciato a coloro che, pur non avendo i requisiti per ottenere il vero e proprio status di rifugiato, dovrebbero comunque essere accolti in Italia per «motivi umanitari».

Si è così consolidata una visione restrittiva dell’asilo – per la verità condivisa per molti aspetti anche dai precedenti governi di centro-sinistra – secondo cui la protezione va garantita solo in casi di gravi ed esplicite persecuzioni: un’idea molto lontana dal dettato costituzionale, che imporrebbe invece di accogliere qualunque straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» (art. 10 Cost.).

Il decreto Cutro ha poi trasformato in profondità il sistema di accoglienza. In particolare, ha proibito l’accesso dei richiedenti asilo alle strutture della cosiddetta «rete Sai», cioè all’insieme dei centri residenziali per rifugiati gestiti dai Comuni. Con le nuove regole, coloro che sono ancora in attesa di una decisione sulla loro domanda di asilo possono entrare solo nei Cas, i centri emergenziali gestiti dalle Prefetture (che offrono sistemazioni precarie, e che non sono attrezzati per assistere gli stranieri nei percorsi di inserimento lavorativo e sociale). Così, con l’aumento degli sbarchi verificatosi in Estate, si è creato il paradosso di strutture Cas piene fino all’inverosimile, e di centri Sai dove invece erano ancora disponibili dei posti: posti che però non potevano essere occupati dai migranti appena arrivati nel nostro Paese…

Il decreto Cutro, peraltro, ha previsto una ulteriore precarizzazione dell’accoglienza: la norma ha cancellato infatti alcuni servizi essenziali (corsi di italiano, orientamento legale, assistenza psicologica) in precedenza forniti nei Cas, e ha introdotto nuovi centri di carattere «emergenziale», diversi dai Sai e dai Cas, da allestire con procedure accellerate in deroga al Codice degli Appalti. Non è ben chiaro come funzioneranno questi nuovi centri, ma tutto lascia pensare che si tratterà di tendopoli e tenso-strutture collocate ai margini delle aree urbane: una ulteriore ghettizzazione dei migranti, che già oggi sono sistemati troppo spesso in strutture fatiscenti e isolate.

Pochi mesi dopo, nel Giugno 2023, il governo Meloni ha siglato un Memorandum di Intesa con la Tunisia per il «contrasto all’immigrazione irregolare». Sulla falsariga di analoghi accordi stipulati dai governi precedenti (in particolare con la Libia), il Memorandum prevede un contributo finanziario di 150 milioni di euro da erogare al Paese nordafricano per il potenziamento della sua guardia costiera, incaricata di impedire le partenze. L’iniziativa rafforza un regime – quello del Presidente Kais Saied – che ha incarcerato oppositori politici e dissidenti, che ha colpito l’autonomia della magistratura, e che è responsabile di gravissime violenze contro i migranti subsahariani.

Di fronte al (prevedibile) aumento degli sbarchi, e alla conclamata inefficacia delle norme adottate per fermarli, il Governo ha alzato ulteriormente la posta. Con un ennesimo decreto legge, emanato il 19 Settembre (n. 124/2023), è stato previsto il prolungamento fino a 18 mesi dei tempi di detenzione nei Cpr (centri per il rimpatrio): una misura crudele e per di più del tutto inutile, perché è noto ormai che la possibilità di rimpatriare un migrante irregolare non dipende dai tempi di trattenimento. Del resto, l’estensione a 18 mesi del periodo massimo di detenzione era già stata introdotta dai Governi Berlusconi, e non aveva prodotto alcun risultato in termini di rimpatri. Lo stesso decreto del 19 Settembre ha poi previsto un piano straordinario per la costruzione di nuovi Cpr, e ha affidato al Genio militare (!!) e a Difesa Servizi S.p.A. il compito di dare attuazione a tale piano. L’idea è quella di moltiplicare i centri per il rimpatrio, costruendone almeno uno in ogni Regione.

Negli stessi giorni (il 14 Settembre), il Governo ha emanato poi un altro provvedimento, attuativo del “decreto Cutro”. La norma stabilisce che i richiedenti asilo appena arrivati alla frontiera potranno evitare il trattenimento nei Cpr se presenteranno una garanzia finanziaria di 5mila euro. Tale garanzia finanziaria dovrà essere pagata in un’unica soluzione, mediante fideiussione bancaria, e non potrà essere versata da terze persone (ad esempio dai familiari dei migranti). Si tratta di un provvedimento che sta a metà strada tra il sadico e il grottesco: non si capisce bene come uno straniero che ha appena affrontato il lungo viaggio nel Mediterraneo, privo di risorse e di mezzi, possa disporre di 5mila euro; né risulta che nei centri di accoglienza alle frontiere vi siano sportelli bancari dove effettuare una fideiussione. Qualcuno, tra il serio e il faceto, ha fatto notare tra l’altro che sono proprio i trafficanti – soprattutto in Libia – a estorcere denaro ai richiedenti asilo: e un governo che si comporta come un trafficante di esseri umani non è un bello spettacolo da vedere…

Passa meno di un mese e l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni riparte alla carica. Con un ulteriore decreto legge (decreto 5 ottobre 2023, n. 133), si interviene stavolta sui cosiddetti “minori stranieri non accompagnati”, cioè sui ragazzi minorenni (quasi tutti nella fascia di età 16-18 anni) che viaggiano senza genitori. Il nuovo decreto prevede che, in caso di eccezionali afflussi di migranti sul territorio nazionale, l’età dei minori appena sbarcati possa essere stabilita mediante rilievi antropometrici o radiografici. Tali rilievi sono notoriamente inefficaci: nel 2017, una commissione di inchiesta parlamentare aveva appurato che gli esami medici possono avere un notevole margine di errore, fino a 2 anni. L’obiettivo del governo sembra essere quello di “trasformare” con un colpo di bacchetta magica molti ragazzi minorenni (che secondo le convenzioni internazionali hanno diritto a un trattamento particolare) in altrettanti migranti adulti, da allontanare più agevolmente.

Nel frattempo i giudici del Tribunale di Catania, in alcune loro recenti decisioni, hanno rifiutato di convalidare il trattenimento dei richiedenti asilo e ne hanno disposto l’immediato rilascio: ciò perché le disposizioni del decreto Cutro, e quelle relative alla “garanzia finanziaria”, sono in evidente contrasto con le norme europee. Di fronte alle prevedibili polemiche – il Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha sbrigativamente etichettato le decisioni dei giudici come “sentenze politiche” – persino un magistrato non particolarmente “amico dei migranti” come Piercamillo Davigo ha spiegato che le norme italiane in contrasto con il diritto Ue non devono essere applicate: «può piacere o può non piacere», ha detto in un’intervista a La7, «ma non è stato il giudice a firmare il Trattato istitutivo dell’Unione Europea».

L’ultimo atto di questa «ipertrofia normativa» è l’accordo tra Italia e Albania per il contrasto all’immigrazione irregolare. Il Protocollo di Intesa firmato da Giorgia Meloni e dal presidente albanese Edi Rama prevede la costruzione, nel Paese delle Aquile, di due strutture di trattenimento – una presso il porto di Shengjin, vicino Tirana, e l’altra nel villaggio di Gjader, nell’entroterra – dove verranno portati i migranti sbarcati in Italia. I due centri saranno interamente gestiti dalle autorità italiane, e serviranno per identificare i migranti, per espletare le pratiche di asilo e per rimpatriare tutti coloro che non saranno ritenuti meritevoli di protezione.

La decisione di «esternalizzare» le procedure di asilo e di rimpatrio è particolarmente grave, e pone numerosi problemi. Secondo la legge italiana, infatti, il trattenimento dei migranti deve essere sempre autorizzato da un giudice: in che modo questo potrà avvenire nel territorio di un altro Paese? In che modo potrà essere garantito il diritto alla difesa? Come potranno i migranti far valere il loro diritto di asilo, se si troveranno fuori dal territorio italiano? Come potranno chiamare un avvocato, o rivolgersi a un’associazione di tutela?

Per il governo Meloni, evidentemente, i diritti sono solo un impiccio. Di cui liberarsi in ogni modo.

Sergio Bontempelli

 

Il decreto Cutro: formazione per operatori

 

 

 

 

Il cosiddetto “Decreto Cutro”

Giornata formativa per gli operatori e le operatrici della Cooperativa ARCA, sede di Pistoia

21 Giugno 2023

Materiali

– Il testo del decreto coordinato con la legge di conversione. Leggi

– Il testo del decreto coordinato con la legge di conversione (versione Gazzetta Ufficiale). Leggi

– Testo sinottico: le norme previgenti, raffrontate con e modifiche del decreto. Leggi

– Le slide della mia lezione. Leggi

 

Migranti, che cos’è la “protezione speciale” che il decreto Cutro vorrebbe abolire

Originariamente pubblicato in “Per un’Altra Città”, 16 Maggio 2023

Alla fine quello che molti di noi temevano è accaduto: il tristemente noto “Decreto Cutro” è stato convertito in legge: si tratta, come è stato scritto, di un provvedimento pesantissimo, che rischia di ricacciare nell’irregolarità migliaia di uomini e donne migranti, e che lede un diritto di asilo peraltro già compromesso dalle (contro)riforme degli ultimi anni. Tra le disposizioni più contestate c’è quella che ridimensiona fortemente – pur senza riuscire ad abrogarla del tutto – la cosiddetta «protezione speciale».

Ma cos’è esattamente la protezione speciale? Alcuni organi di stampa hanno cercato di spiegarlo, ma l’argomento è molto tecnico, e si ha l’impressione che gli stessi giornalisti facciano fatica a comprenderlo. Proviamo dunque a vederci più chiaro.

Le tipologie di protezione

La prima cosa da sapere è che nel linguaggio giuridico si chiama «protezione» il diritto a non essere espulsi e a rimanere legalmente in Italia: in prima approssimazione possiamo dire quindi che abbiamo a che fare con una specifica tipologia di permesso di soggiorno. Tuttavia, a differenza dei permessi di soggiorno «classici» – quelli, per intenderci, rilasciati per motivi di lavoro o di studio – la «protezione speciale» è pensata per tutelare i migranti che fuggono da violenze, abusi e violazioni subìte nelle loro terre di origine: insieme alle altre forme di «protezione», su cui ci soffermeremo tra un attimo, serve per garantire il diritto di asilo.

E qui le parole sono importanti. Abbiamo detto «diritto di asilo» e non semplicemente «asilo» perché, secondo le norme internazionali, l’Italia è obbligata ad accogliere gli stranieri vittime di persecuzioni o abusi. Un diritto è tale proprio perché ad esso corrisponde un dovere a carico dello Stato: non è dunque possibile limitare o comprimere l’asilo in nome di un’astratta «salvaguardia dei confini», come sembra pensare il Governo in carica.

Ma torniamo al nostro ragionamento. Lo straniero che, arrivato in Italia, intenda chiedere protezione al nostro Paese, può presentare una formale domanda di asilo. La domanda viene valutata dalla cosiddetta «Commissione Territoriale», che è l’organismo competente a decidere su queste materie. Esaminata la domanda, la Commissione può rifiutarla del tutto (e in questo caso l’interessato deve allontanarsi dall’Italia, salvo che non faccia ricorso al tribunale), oppure può riconoscere una delle tre «protezioni» previste dalla legge: lo status di rifugiato, la protezione «sussidiaria» o – appunto – la protezione «speciale».

Ed eccoci arrivati al dunque: cerchiamo di capire cosa sono esattamente queste tre forme di protezione, che come abbiamo visto corrispondono ad altrettanti permessi di soggiorno. La prima, lo status di rifugiato, è riconosciuta allo straniero che ha un «fondato timore di persecuzione», e che per questo non può o non vuole tornare al suo Paese di origine. La seconda, la «sussidiaria», viene accordata a chi fugge da guerre e conflitti armati, oppure a chi – in caso di rimpatrio – potrebbe subire una condanna a morte o una qualche forma di tortura.

Se queste formulazioni vi sembrano un po’ vaghe, generiche o addirittura confuse, non avete tutti i torti: da tempo giuristi, studiosi e magistrati si interrogano sul loro significato, senza arrivare a conclusioni univoche. Cosa si intende, ad esempio, con la parola «persecuzione»? Come si distingue la persecuzione da una generica ostilità, o da un controllo poliziesco più «occhiuto» del normale? Essere perseguitati significa necessariamente subire una qualche violenza, o può essere sufficiente una minaccia, un’intimidazione, un avvertimento? E ancora: perché la tortura – che a rigor di logica dovrebbe essere la forma più estrema di persecuzione – viene inserita nella protezione sussidiaria e non nello status di rifugiato? Le risposte a queste domande non si trovano direttamente nei testi normativi: sono i giuristi, i magistrati e i membri delle Commissioni che devono interpretare le leggi, conferendo un significato univoco a formulazioni ambigue o comunque problematiche.

L’asilo costituzionale e la «terza protezione»

I lettori più attenti avranno notato che in questo discorso manca qualcosa: e quel «qualcosa» è la Carta Costituzionale, vero e proprio «elefante nel tinello» di tutto il ragionamento sulla protezione. Come si sa, l’articolo 10 comma 3 della nostra legge fondamentale stabilisce che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica».

In queste poche e semplici parole si delinea un concetto di asilo assai più ampio di quello definito dalle norme sulla «protezione». Non si parla (solo) di persecuzioni, torture, condanne a morte o pericoli derivanti da situazioni di conflitto armato; non si allude (solo) a una minaccia che incomba su un individuo, e che lo costringa a fuggire. Si prevede invece una tutela molto più estesa, da garantire a tutti coloro che non hanno la fortuna di vivere in Paesi democratici e rispettosi delle libertà fondamentali.

Per comprendere la differenza tra questo «asilo costituzionale» e lo «status di rifugiato» è utile rileggere una sentenza del Tribunale di Catania, risalente all’ormai lontano 2004 e riguardante un cittadino iracheno appartenente alla minoranza curda. Nel suo Paese l’uomo aveva lavorato come guardia carceraria in un istituto di pena, ed era stato accusato (ingiustamente) di complicità nell’evasione di alcuni detenuti: era perciò fuggito, si era rifugiato in Italia e aveva chiesto asilo, sostenendo di essere perseguitato dal regime di Saddam Hussein. Il Tribunale osservò che, dopo l’invasione dell’Iraq da parte della coalizione a guida americana, l’amministrazione facente capo a Saddam si era quasi completamente dissolta, e non poteva perciò «perseguitare» nessuno: di conseguenza, l’uomo non ottenne lo status di rifugiato. I giudici decisero però di riconoscere l’asilo «costituzionale», perché in Iraq le potenze occupanti non garantivano i diritti della popolazione civile, e non erano in grado di mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica. Morale della favola: senza l’articolo 10 della nostra Carta, quel cittadino iracheno non avrebbe mai ottenuto il permesso di soggiorno.

Attorno alla metà degli anni Duemila, proprio per dare attuazione al dettato costituzionale, le amministrazioni cominciarono a usare una norma semi-nascosta del Testo Unico sull’immigrazione, cioè della legge che regolava (e regola tuttora) l’ingresso e la permanenza degli stranieri in Italia. L’articolo 5 comma 6 del Testo Unico consentiva di rilasciare un permesso di soggiorno quando ricorrevano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali»: il riferimento era dunque alla Costituzione ma anche agli accordi multilaterali firmati dall’Italia, in primis la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

Nacque così una terza forma di protezione – la cosiddetta «protezione umanitaria»che andò ad aggiungersi allo status di rifugiato e alla «sussidiaria». E la Corte di Cassazione – in una sua storica sentenza del 2012 – invitò i giudici a non accordare più l’asilo sulla base dell’articolo 10 della Costituzione, perché – dissero gli ermellini – «il diritto di asilo [previsto dall’art. 10, ndr.] è oggi (…) interamente attuato (…) dalla esaustiva normativa [vigente]». Cioè perché esisteva una terza forma di protezione, chiamata ad attuare il dettato costituzionale.

La metto, la tolgo, la rimetto: l’altalena della protezione umanitaria

Con l’arrivo di Salvini al Ministero dell’Interno la protezione umanitaria divenne però il bersaglio di mille polemiche. Il nuovo inquilino del Viminale, dimostrando una crassa ignoranza sulla materia, protestò per i «troppi» migranti che accedevano a questo permesso (come se un diritto fondamentale potesse essere limitato a un «numero massimo» di beneficiari). Gli alti funzionari ministeriali, per assecondare i furori del loro comandante, scrissero – in una serie di slide illustrative di involontaria e irresistibile comicità – che si era «determinata una situazione paradossale, [con] un altissimo numero di permessi di soggiorno per cosiddetti (sic!) motivi umanitari, comprensivi delle più svariate ipotesi».

Sulla base di questi presupposti, nel 2018 il decreto Salvini abolì la norma del Testo Unico, e al suo posto introdusse una nuova forma di protezione, chiamata «protezione speciale», che poteva essere riconosciuta solo in presenza di circostanze ben precise e limitate. In particolare, poteva ottenere il permesso di soggiorno chi avesse gravi motivi di salute, chi provenisse da Paesi dove si erano verificate calamità naturali (terremoti, alluvioni ecc.), o ancora chi, in caso di rimpatrio, corresse il pericolo di subire forme di tortura o di persecuzione (e qui la norma era confusionaria e incoerente, perché faceva riferimento a fattispecie già ricomprese nelle altre forme di protezione).

Dopo la (temporanea) uscita di scena del leader della Lega, la nuova Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese abrogò il decreto Salvini e reintrodusse la «vecchia» protezione umanitaria, aggiungendovi però un ulteriore e importante tassello: il permesso di soggiorno poteva essere rilasciato ora non solo per ottemperare agli «obblighi costituzionali o internazionali», come era scritto nella storica norma del Testo Unico, ma anche quando «l’allontanamento [dello straniero dall’Italia] [poteva comportare] una violazione del diritto alla vita privata e familiare».

Qui la legge faceva riferimento alla posizione assunta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: nella sentenza «Hamidovic contro Italia» del 2012, i giudici di Strasburgo avevano condannato il nostro Paese per aver espulso una donna rom che viveva da anni sul territorio assieme al marito e ai figli piccoli. Secondo la Corte, era illegittimo allontanare dai suoi affetti familiari una cittadina straniera, anche se quest’ultima non aveva il permesso di soggiorno ed era irregolare.

Il decreto Cutro ha davvero abrogato la «protezione speciale»?

Il resto è cronaca di oggi: il decreto Cutro ha cercato di abolire, o comunque di ridimensionare fortemente, l’istituto della «protezione speciale», così come era stato delineato dalla riforma Lamorgese. In primo luogo, è stata abolita la convertibilità dei permessi per protezione, cioè la facoltà di trasformarli in permessi «normali» per lavoro o per studio. In secondo luogo, è stata modificata la norma istitutiva della protezione. Al Senato, Maurizio Gasparri ha addirittura proposto di cancellare del tutto il riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali»: poi, a quanto pare, è intervenuto Mattarella per ricordare che la Costituzione e i trattati internazionali si applicano lo stesso, anche quando la legge non lo dice. Povero Gasparri: nessuno lo aveva informato di come funziona uno Stato di diritto, e lui era all’oscuro di tutto…

Il riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali» è dunque rimasto in piedi – e questa è senz’altro una buona notizia – ma la norma sul «diritto alla vita privata e familiare» è stata cancellata. E tuttavia, così come la Costituzione si applica sempre e comunque, anche se la legge non lo specifica, allo stesso modo la Convenzione Europea sui diritti dell’uomo si applica sempre e comunque, anche se la legge non lo dice. Come hanno detto i giudici di Strasburgo, l’Italia è in ogni caso obbligata a tutelare la vita privata e familiare degli stranieri, anche riconoscendo loro un permesso di soggiorno. Nei prossimi mesi si apre dunque lo spazio per un’ampia battaglia politica e giuridica: dobbiamo ribadire che la protezione speciale non è stata affatto abolita, semplicemente perché il Parlamento non aveva e non ha il potere di abolirla. E dunque, come si diceva tanti anni fa, al lavoro, alla lotta!

Sergio Bontempelli

Sbarchi e respingimenti: due o tre cose da sapere

Originariamente pubblicato «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», n. 190, 8 Marzo 2023

Naufraghi in mareQuando i frequentatori del sito leggeranno questo articolo, gli echi della tragedia di Cutro (il naufragio in cui sono morte decine di persone, tra cui numerosi bambini) si saranno probabilmente spenti. L’informazione, si sa, funziona secondo la logica dell’emergenza: le notizie nuove “divorano” quelle vecchie in pochi giorni, e il flusso incessante di novità non lascia il tempo per pensare, capire, approfondire.

E però, se vogliamo evitare il ripetersi di tragedie di questo tipo, dobbiamo fermarci un attimo e porci qualche domanda: il naufragio di Cutro è stato solo il frutto di una fatalità, o quelle vite si potevano salvare? Cosa non ci è stato ancora raccontato, di quella vicenda e di tante altre analoghe che si sono verificate nel corso degli anni? E cosa possiamo fare noi, semplici cittadini e cittadine, per fermare la strage silenziosa che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero d’acqua?

Il caso degli albanesi

Chi ha qualche capello bianco in testa ricorderà che, negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, i naufragi avvenivano soprattutto nel Canale di Otranto, in quel piccolo braccio di mare che separa l’Albania dalle coste della Puglia: erano gli albanesi che cercavano di arrivare in Italia a bordo di imbarcazioni precarie e fragili. E proprio per i migranti del Paese delle Aquile furono coniate le espressioni che ancora oggi fanno parte del lessico giornalistico sulle migrazioni: “carrette del mare”, “disperati”, “clandestini”, “scafisti”, “trafficanti”, ecc.

Secondo una stima del giornalista Gabriele Del Grande, tra il 1991 e il 2010 ben 696 tra uomini, donne e bambini persero la vita nel tentativo di attraversare il Canale di Otranto. Poi, improvvisamente, nessuno ha più parlato dell’Albania: le stragi in mare – purtroppo – non sono cessate, ma sono avvenute per lo più al largo della Sicilia, e hanno coinvolto i migranti che partivano dal Nord Africa. E gli albanesi, che fine hanno fatto?

La risposta è semplice, e – come vedremo tra un attimo – molto istruttiva: il 24 Novembre 2010 l’Unione Europea ha emanato il Regolamento n. 1091, che ha disposto l’abrogazione dei “visti di breve durata” per due Paesi balcanici, la Bosnia-Erzegovina e l’Albania. Da quel momento, tutti gli albanesi sono stati autorizzati a entrare in territorio Ue (e dunque anche in Italia) senza richiedere un visto all’Ambasciata, e dunque senza doversi sottoporre ai complicatissimi meccanismi amministrativi che caratterizzano la procedura di rilascio di un visto. In Italia, come in tutta Europa, la legge garantisce alle rappresentanze diplomatiche un’ampia discrezionalità in materia: il che significa che ottenere un semplice visto turistico è spesso impossibile. Grazie al nuovo Regolamento Ue, gli albanesi sono stati “liberati” da questi ingranaggi burocratici, e hanno potuto venire in Italia a bordo di normalissimi traghetti di linea, senza più rischiare la vita in mare.

Ciò non significa – beninteso – che le frontiere siano state completamente aperte: la normativa Ue si è limitata a liberalizzare gli ingressi “di breve durata”, quelli dei turisti e dei visitatori occasionali; gli albanesi che intendono arrivare per lavoro, o che comunque vogliono trasferirsi nel nostro paese, sono ancora sottoposti al regime restrittivo dei visti. E infatti molti entrano in Italia per turismo, e poi rimangono da irregolari (perché la legge non consente il rilascio di un permesso di soggiorno a chi è entrato “per breve durata”). Intanto, però, sono cessati i naufragi: ed è già un risultato importante.

È davvero impossibile aprire le frontiere?

Ci si potrebbe chiedere allora perché non aprire le frontiere anche ai migranti che provengono dal Medio Oriente e dall’Africa sub-sahariana, come si è fatto per gli albanesi. Quando si pone questa domanda, arriva quasi sempre il profluvio di obiezioni di senso comune: «sono poveri, se li lasciamo entrare verranno qui in massa», «non abbiamo le risorse per accoglierli tutti», «ci sarà un’invasione», e così via. Ma le cose stanno davvero così?

Anche l’Albania è un paese povero: il reddito medio lordo si aggira sui 500 euro al mese, più di 600mila persone (quasi un quarto dell’intera popolazione) sono sotto la soglia di povertà, il 35% dei cittadini vive in condizioni di “grave deprivazione materiale”. Se davvero l’immigrazione fosse il prodotto meccanico delle difficoltà economiche e dell’indigenza, l’apertura delle frontiere con il piccolo paese balcanico avrebbe dovuto provocare una “marea” di nuovi arrivi. E invece il numero di immigrati albanesi residenti in Italia è addirittura diminuito: dai 480mila del 2010 ai 390mila del 2021 [fonti: Idos, Dossier Immigrazione 2011, pag. 93; Dossier 2022, pag. 107]. Anche i (pochissimi) dati sull’immigrazione irregolare smentiscono le obiezioni “allarmistiche”: gli albanesi “sans papier” espulsi dall’Italia sono poco più di un migliaio l’anno, una cifra irrisoria.

Insomma, aprire le frontiere non provoca alcuna “invasione”. Questo ci dicono i dati.

La questione dell’asilo

La vicenda di Cutro chiama poi in causa la questione del diritto di asilo. Come noto, l’Italia garantisce un permesso di soggiorno a chiunque abbia un «fondato timore di persecuzione» (come recita la Convenzione di Ginevra) o a chi fugga da guerre, dittature e situazioni di emergenza umanitaria. Da sempre gli esponenti della destra al governo ripetono che il diritto di asilo è sacro inviolabile; e tuttavia, a questa frasetta rituale non mancano mai di aggiungere il classico «ma», come nel noto adagio «io non sono razzista, ma…»: «ma» i migranti che sbarcano in Sicilia non sono veri rifugiati, «ma» non fuggono davvero dalle guerre, «ma» non sono realmente perseguitati, e così via.

Potremmo discutere a lungo di cosa sia un “vero” rifugiato, e delle procedure con cui in Italia le autorità competenti riconoscono (e spesso rifiutano) il diritto di asilo: è un ragionamento che ci porterebbe lontano, e non abbiamo il tempo di dilungarci.

Ci interessa qui evidenziare un punto decisivo, di cui poco si è parlato nel dibattito di questi giorni. Secondo la legge italiana (decreto legislativo 25/2008, art. 3 comma 2), le uniche autorità competenti a ricevere una domanda di asilo sono la polizia di frontiera e la Questura. E qui bisogna fare attenzione, perché il diavolo si nasconde nei dettagli: la legge menziona la polizia di frontiera e la Questura, cioè due entità che si trovano solo ed esclusivamente sul suolo italiano. Significa che, per chiedere asilo, lo straniero perseguitato deve trovarsi già in Italia. E se si trova già in Italia vuol dire che ha già varcato il confine: dovrebbe cioè essere entrato con uno di quei famosi “visti” che, come abbiamo visto, sono spesso impossibili da ottenere.

Ecco allora l’inghippo. Un potenziale rifugiato che voglia chiedere protezione al nostro paese non può far altro che varcare illegalmente la frontiera: la legge italiana lo costringe a entrare da “clandestino”, per poi regolarizzarsi come richiedente asilo. Per questo tanti cittadini stranieri in fuga dai loro paesi intraprendono viaggi pericolosi, e qualche volta mortali.

La soluzione sarebbe semplice: basterebbe garantire la possibilità di presentare la domanda di asilo all’Ambasciata italiana nel paese di origine; l’Ambasciata dovrebbe poi rilasciare un visto, con il quale lo straniero potrebbe entrare regolarmente in Italia. E in fondo anche questa è una storia antica: nel 1973, dopo il golpe di Pinochet, tanti dissidenti e attivisti democratici riuscirono a salvarsi chiedendo asilo all’Ambasciata del nostro paese a Santiago.

Si tratta insomma di introdurre un visto specifico, che consenta un ingresso finalizzato alla presentazione di una domanda di asilo. Non dobbiamo inventare nulla, perché una simile procedura è già contemplata dall’articolo 25 del Codice Europeo dei Visti. Nel linguaggio tecnico-giuridico, la possibilità di richiedere protezione rivolgendosi all’Ambasciata si chiama «corridoio umanitario».
Come si vede, la tragedia di Cutro poteva, certo, essere evitata. Non solo accelerando i soccorsi, che invece sono arrivati drammaticamente (e forse colpevolmente) in ritardo: ma anche introducendo un minimo di razionalità e di umanità nel nostro diritto dell’immigrazione.

Sergio Bontempelli

Il decreto Lamorgese, un Giano bifronte

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

In questi giorni il Governo ha varato un provvedimento che dovrebbe superare i decreti Salvini. Si tratta però di un testo contraddittorio, con alcune norme di rottura col passato, e altre che mantengono, e in qualche caso peggiorano, le contro-riforme dell’ex Ministro leghista. Ecco il decreto spiegato punto per punto

È davvero difficile dare un giudizio sul nuovo provvedimento che, nelle intenzioni, vorrebbe superare e abrogare i decreti Salvini su immigrazione e “sicurezza”. Siamo di fronte infatti a un testo assai complesso, il cui segno è tutt’altro che univoco: e in cui norme fortemente innovative – di autentica rottura con il passato – convivono con disposizioni che mantengono in vigore, e in qualche caso addirittura peggiorano, l’impianto repressivo e restrittivo delle politiche migratorie.

È dunque difficile, si diceva, dare un giudizio univoco. A una lettura attenta del testo, sembrano decisamente eccessivi gli entusiasmi di Luigi Manconi, secondo il quale da oggi, per il legislatore,«i migranti e i profughi tornano ad essere persone in carne ed ossa». Ma altrettanto fuori luogo appaiono le affermazioni di chi equipara il provvedimento a un “decreto Salvini tris”.

Se proprio volessimo dare una definizione sintetica, potremmo parlare piuttosto di un decreto «dottor Jekill e Mister Hyde», o di un Giano bifronte: con delle parti molto avanzate e altre che, invece, si muovono nel solco tracciato da Salvini. Come se il testo fosse opera di due diverse “manine”, a ciascuna delle quali è stato dato il compito di scrivere una parte diversa del decreto.

Proviamo allora a ripercorrere le principali novità: chi voglia approfondire le disposizioni di dettaglio può scaricare il testo sinottico, che mette a confronto le norme previgenti con le modifiche introdotte dal decreto.

Gestione delle frontiere: l’eredità di Salvini

Decreto Lamorgese e norme vigenti: leggi il quadro sinottico delle modifiche inttrodotte dal decreto

La parte forse peggiore del provvedimento è quella che riguarda la gestione delle frontiere: qui l’impostazione della norma, come vedremo tra un attimo, è in assoluta continuità con i decreti Salvini, e più in generale con le politiche migratorie restrittive e repressive degli ultimi anni. Per comprendere questo punto, sarà bene riassumere molto schematicamente le previsioni del decreto Salvini.

Le norme varate dall’allora Ministro leghista hanno ridisegnato tutta la procedura di gestione degli arrivi alla frontiera. È stato anzitutto previsto, per la prima volta in Italia, il trattenimento dei richiedenti asilo «a scopo identificativo»: i migranti che sbarcano sulle coste e che chiedono asilo possono cioè essere rinchiusi per trenta giorni in un «centro» (sia esso un hotspot, un centro per il rimpatrio o un hub: i nomi sono diversi, ma si tratta sempre di luoghi detentivi), se ciò è ritenuto necessario per stabilire l’identità o la nazionalità degli interessati.

Dato che tutte o quasi tutte le persone che giungono in Italia via mare non hanno un passaporto in tasca, una disposizione di questo genere può riguardare la totalità dei migranti in arrivo: in pratica, il trattenimento / detenzione diventa potenzialmente lo strumento ordinario di gestione degli «sbarchi».

Per coloro che chiedono asilo alla frontiera il decreto Salvini prevede inoltre una «procedura accellerata»: in pratica, le Commissioni – gli organismi incaricati di stabilire chi ha effettivamente il diritto di restare in Italia come rifugiato – sono obbligate a decidere sui singoli casi nel giro di pochi giorni o di poche ore; le audizioni si trasformano così in colloqui frettolosi, e i richiedenti non sono messi in condizione di far valere adeguatamente le loro ragioni.

Lo svilimento del diritto di asilo nei decreti Salvini: leggi il dossier di Chiara Favilli su Questione Giustizia

Infine, il decreto Salvini ha introdotto anche nell’ordinamento italiano la nozione di «paese di origine sicuro». Per capire il significato di questa strana espressione, bisogna ricordare che secondo la Convenzione di Ginevra l’asilo si fonda sull’esame della specifica situazione individuale dello straniero. Mentre, prima della Seconda Guerra Mondiale, l’asilo veniva concesso sulla base della semplice nazionalità (gli armeni, ad esempio, erano considerati rifugiati, mentre gli ebrei in fuga dalla Germania nazista non avevano un diritto alla protezione), con le nuove regole dettate a Ginevra le autorità dovevano valutare le domande caso per caso: potevano quindi respingere anche persone provenienti da paesi dittatoriali (se non avevano un fondato timore di persecuzione per se stesse) e, all’inverso, potevano accogliere anche stranieri provenienti da paesi democratici (se rischiavano effettivamente di essere perseguitati: perché non sempre i paesi formalmente democratici sono tali anche nei fatti…).

Il decreto Salvini sovverte questa impostazione, e introduce una lista di paesi «sicuri», cioè «sicuramente democratici», «sicuramente garantisti», «sicuramente rispettosi dei diritti umani» ecc.: paesi in cui, secondo il legislatore italiano, non possono verificarsi persecuzioni (o quasi). Il richiedente asilo che provenga da uno di questi paesi è dunque considerato «quasi sicuramente bugiardo»: e non dovrà avere lo status di rifugiato, a meno che non porti prove decisive della sua persecuzione. Nel decreto Salvini, i richiedenti che arrivano dai paesi «sicuri» sono sottoposti a procedure sommarie, che nei fatti compromettono il loro diritto alla protezione.

Le norme «Mr. Hyde»: frontiere blindate

Il decreto Lamorgese lascia inalterata questa impostazione dei decreti Salvini: restano dunque in vigore le norme relative al trattenimento in frontiera, alle procedure accellerate e al trattamento dei richiedenti che provengono da paesi di origine «sicuri».

Le modifiche introdotte dal provvedimento Lamorgese non sono sostanziali. A volte si tratta di piccoli miglioramenti: come quando si riduce il tempo massimo di trattenimento nei «centri per il rimpatrio» dagli attuali 180 giorni (6 mesi) a 120 giorni (4 mesi). Altre volte si interviene sulla qualità tecnica del testo normativo. Così, sempre per fare un esempio, si introduce una distinzione netta tra «esame prioritario» di una domanda di asilo (che avviene in sostanza quando la Commissione esamina quella domanda prima delle altre) e «procedura accellerata» (in cui la Commissione deve decidere in tempi brevi e senza un reale confronto con il richiedente): il decreto Salvini aveva fatto un po’ di confusione tra le due cose, che ora col nuovo provvedimento sono ben distinte e destinate a categorie diverse. Altre volte ancora, le norme salviniane vengono addirittura inasprite, come quando si prevede il giudizio direttissimo contro i migranti che hanno partecipato a rivolte e proteste all’interno dei Centri per il Rimpatrio.

Persino sui temi tanto dibattuti del soccorso in mare, della «chiusura dei porti» e della criminalizzazione delle Ong il testo Lamorgese non inverte la rotta rispetto all’impostazione Salvini. Rimane ad esempio il principio per cui è possibile vietare l’ingresso in acque italiane a navi non militari. Scompare la multa «astronomica» di un milione di euro, le ammende potranno variare da 10mila a 50mila euro e dovranno essere decise da un giudice: resta però, sia pure attenuata, la criminalizzazione delle Ong impegnate nelle attività di soccorso.

Fatti e mistificazioni sui soccorsi in mare: leggi l’articolo di Fulvio Vassallo Paleologo

Ma soprattutto si prevede che le operazioni di salvataggio «siano immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera, ed effettuate nel rispetto delle indicazione della competente autorità per la ricerca e il soccorso in mare». E questa dicitura apre alla possibilità che le Ong siano obbligate a far riferimento alla Guardia Costiera Libica: un fatto molto grave.

A guardar bene, siamo di fronte alla riconferma dell’impostazione salviniana: frontiere chiuse, trattamento detentivo o semi-detentivo dei migranti che tentano di attraversarle, e forti restrizioni al diritto di asilo.

Il problema non è che il decreto Lamorgese è «troppo timido», «poco coraggioso», «non ancora sufficiente», come pure è stato scritto: no, il dramma è che questa parte del nuovo decreto è pienamente interna alla filosofia punitiva di Salvini. Che è cosa molto più grave.

Il dott. Jekill e la protezione umanitaria

E tuttavia, si diceva, il decreto reca anche le tracce di un’altra «manina», di un dott. Jekill che – al contrario del suo collega Mr. Hyde – ha notevolmente migliorato alcune norme.

Il primo punto da sottolineare riguarda la reintroduzione della cosiddetta «protezione umanitaria» (ora ribattezzata «protezione speciale»). Affinché il lettore ci segua, sarà opportuno ricapitolare brevemente di cosa si tratta.

Prima del decreto Salvini, le Commissioni incaricate di decidere sulle domande di asilo potevano prendere quattro diversi provvedimenti: diniego secco (la domanda di asilo non è accolta, e il richiedente non può restare in Italia, fatto salvo ovviamente il diritto di ricorso a un giudice); status di rifugiato (quando viene riconosciuto un «fondato timore di persecuzione»); status di protezione sussidiaria (quando il richiedente fugge da guerre, conflitti armati o dalla pena di morte); e, appunto, status di protezione umanitaria.

Il permesso di soggiorno per «protezione umanitaria» veniva rilasciato quando la Commissione verificava la presenza – così recitava la legge – di «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». La norma era volutamente generica, perché alludeva a tutte quelle situazioni in cui il rilascio di un permesso di soggiorno si rendeva necessario per tutelare i diritti fondamentali di una persona.

Solo per fare alcuni esempi, poteva ottenere questo status chi avesse gravi problemi di salute, chi si trovasse in condizioni di vulnerabilità o chi avesse subito violenze e abusi (sia nel paese di origine che nei paesi di transito, come la Libia). Alcuni giudici, in sede di ricorso, avevano riconosciuto la protezione umanitaria anche ai richiedenti asilo che, ormai da tempo residenti in Italia, avevano maturato un loro radicamento sociale: un lavoro, una famiglia, una rete stabile di relazioni.

Il permesso di soggiorno per vita privata e familiare in Francia: leggi l’articolo sulla rivista «Plein Droit» (in francese)

La protezione umanitaria serviva infine per garantire la piena applicazione del dettato costituzionale. Nella nostra Carta fondamentale, infatti, il diritto di asilo è molto più ampio rispetto a quello definito dalla Convenzione di Ginevra, perché non richiede necessariamente una persecuzione individuale: secondo l’articolo 10 della Carta, ha diritto di asilo «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana».

La protezione umanitaria era stata abolita dal primo dei decreti Salvini, sulla base della (risibile) motivazione secondo cui la norma avrebbe avuto «contorni indefiniti» (così il Ministero dell’Interno nelle sue slide illustrative: una perla tutta da leggere…). Da tempo si parlava della possibile reintroduzione di questo istituto, e il decreto Lamorgese in effetti lo reintroduce. La disposizione dice che il permesso umanitario deve essere rilasciato quando ciò si renda necessario per garantire «il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano»: che è grosso modo la stessa formulazione della «vecchia» norma.

Ma il decreto Lamorgese va oltre, e prevede il rilascio di un permesso di soggiorno anche nei casi in cui «esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare». Si tratta di una novità nell’ordinamento italiano: è una norma che fa riferimento al famoso articolo 8 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU), che impone agli Stati il rispetto, per l’appunto, della vita privata e familiare delle persone. Di solito, nei paesi europei, l’art. 8 CEDU non è stato utilizzato per legittimare il diritto di soggiorno degli stranieri: a farlo è stata solo la Francia, con la legge Chevènement del 1998, che ha introdotto un vero e proprio permesso di soggiorno per «vita privata e familiare».

L’Italia si allinea a quella riforma transalpina, e ciò configura una protezione umanitaria più ampia di quella previgente: un passo avanti decisamente innovativo e inaspettato.

Un altro dott. Jekill: la conversione dei permessi di soggiorno

La convertibilità dei permessi di soggiorno dovrebbe essere uno dei pilastri di una nuova politica migratoria

C’è un altro «dottor Jekill» che ha messo mano alla riforma, e che ha partorito una norma di grande interesse: il decreto Lamorgese prevede infatti la possibilità di trasformare vari permessi di soggiorno di natura «provvisoria» (o ritenuta tale dal legislatore) in permessi di soggiorno per lavoro.

Diventano così «convertibili» i permessi per protezione speciale (la nuova protezione umanitaria prevista dal decreto), ma anche i permessi per calamità naturale nel paese di origine(ideati da Salvini), e quelli per attività sportiva, per lavoro artistico, per residenza elettiva o per motivi religiosi (su questi ultimi gravava un parere negativo del Consiglio di Stato).

Soprattutto, viene prevista la conversione del permesso per «assistenza minori», che è un documento rilasciato su autorizzazione del Tribunale per i Minorenni ai genitori irregolari di bambini presenti in Italia. In questi anni, molte coppie con bambini hanno chiesto e ottenuto questo permesso di soggiorno: hanno così avuto la possibilità di lavorare, di inserirsi, di costruire una vita nel nostro paese. Poi, però, alla scadenza del permesso di soggiorno, si sono trovati di nuovo irregolari, perché non era possibile «convertire»il loro documento, anche avendo già un contratto di lavoro.

I più fortunati hanno presentato una nuova domanda al Tribunale per i Minorenni, e hanno ottenuto una nuova autorizzazione e un nuovo permesso: ma hanno dovuto aspettare lunghi mesi prima di ricevere la risposta (e spesso hanno perso il lavoro, perché nel periodo di attesa sono rimasti senza documenti di soggiorno, in una condizione paradossale di semiregolarità). Tutti gli altri, i meno fortunati, sono tornati ad essere irregolari. Ora, col decreto Lamorgese, il permesso per assistenza minori diventa finalmente convertibile.

La questione della «convertibilità» dei permessi è decisiva, perché uno dei modi in cui si diventa irregolari è proprio questo: si entra in Italia regolarmente, o si riesce in qualche modo a regolarizzarsi, ma poi si torna ad essere «clandestini» per un cavillo burocratico, perché la legge non consente di rinnovare il soggiorno.

Ecco, su questo punto potremmo dire davvero che il decreto Lamorgese è «timido», «poco coraggioso»: che insomma va nella direzione giusta, ma in modo ancora troppo cauto e circospetto. Perché la convertibilità dei permessi di soggiorno dovrebbe essere uno dei pilastri di una nuova politica migratoria.

Perché non pensare ad esempio di rendere «convertibili» anche i visti turistici? Oggi, chi entra in Italia per motivi di turismo può restare solo tre mesi, e alla scadenza di questo periodo di tempo non ha alcuna possibilità di rimanere sul territorio: anche se ha trovato un lavoro, anche se è in grado di mantenersi autonomamente, è costretto a fare le valigie, solo perché il visto turistico non si può trasformare in permesso di soggiorno per lavoro. È esattamente in questo modo che le nostre politiche migratorie fabbricano i «clandestini», che poi si vogliono espellere.

E perché non rendere convertibili almeno una parte dei permessi per richiesta di asilo? Un richiedente asilo che soggiorna in Italia da tre o quattro anni non potrebbe avere il diritto di avere un «normale» permesso per lavoro, se è stato regolarmente assunto?

Accoglienza e residenza

Positive (anche se in qualche modo più «scontate») sono le disposizioni che riguardano l’accoglienza e il diritto di residenza per i richiedenti asilo.

Sull’accoglienza si torna sostanzialmente alla situazione «pre-Salvini», con i centri Cas – gestiti dalle Prefetture – destinati ad accogliere i richiedenti asilo appena arrivati, e le strutture ex-Sprar gestite dai Comuni pensate per la seconda accoglienza e per i percorsi di inserimento sociale. Lo Sprar viene ora ribattezzato Sai, Sistema di accoglienza e integrazione, ma la sostanza non cambia.

Preoccupa solo la «clausola di invarianza finanziaria» introdotta dall’articolo 11 del decreto: secondo la quale tutte le nuove norme devono essere attuate «mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente». In pratica, lo Stato modifica e riforma, ma non mette un soldo in più: ed è difficile pensare a una riforma seria del sistema di accoglienza se non si prevede uno stanziamento di risorse aggiuntive.

Infine, viene abolita l’odiosa norma del decreto Salvini che, nelle intenzioni del Ministro leghista, doveva impedire ai richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe. Qualcuno – come Emilio Santoro – aveva già spiegato che quella norma non poteva impedire di riconoscere la residenza a nessuno; poi la Corte Costituzionale l’aveva abrogata. Oggi, finalmente, quella disposizione viene in via definitiva consegnata al passato.

Sergio Bontempelli

Verso la regolarizzazione: una proposta concreta

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

Si è riaperto in questi giorni il dibattito sulla “sanatoria” degli immigrati. Vogliamo contribuire a questo dibattito con una nostra proposta tecnica: un possibile testo di legge, fondato sulla regolarizzazione di chi è qui senza documenti, sull’abrogazione dei decreti Salvini e sulla reintroduzione della protezione umanitaria

Il dibattito sulla regolarizzazione dei migranti senza permesso di soggiorno, che sembrava essersi arenato nei mesi scorsi, si è riacceso nelle ultime settimane, complice anche la drammatica carenza di manodopera che sta colpendo settori produttivi come l’agricoltura.

Pochi giorni fa, il Corriere della Sera ha pubblicato una bozza di provvedimento, su cui i Ministri del governo Conte II stanno ancora discutendo. Si tratta di un testo che, se approvato, limiterebbe la regolarizzazione solo ad alcuni comparti produttivi (agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura). A poter presentare le domande, inoltre, sarebbero solo e soltanto i datori di lavoro: un meccanismo pericoloso, quest’ultimo, già utilizzato in altre sanatorie, che rischia di alimentare situazioni di sfruttamento e di ricatto.

Noi continuiamo a pensare che sia possibile una regolarizzazione non strettamente vincolata al lavoro, che consenta l’emersione diretta degli stranieri coinvolti: un meccanismo che potrebbe sfociare nel rilascio di un permesso di soggiorno per “attesa occupazione”.

Al contempo, in vista di un più ampio dibattito su una riforma complessiva delle politiche migratorie, è quanto mai urgente abolire i decreti Salvini, che hanno stravolto il diritto fondamentale all’asilo previsto dalla Costituzione italiana.

Ci siamo già soffermati su queste proposte in un post pubblicato sul nostro sito alcuni giorni fa. Qui di seguito proviamo a trasformarle in un vero e proprio articolato di legge: è un nostro contributo tecnico-politico al dibattito in corso.

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Art. 1. Permesso di soggiorno per motivi umanitari

1. Al decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) All’articolo 1, comma 1, alle parole «della qualifica di beneficiario di prote­zione internazionale» sono aggiunte le parole «e umanitaria»;

b) Il Capo IV è rubricato «Protezione sussidiaria e umanitaria»;

c) Dopo l’articolo 15 è aggiunto il seguente articolo 15 bis:

«Articolo 15-bis. La Commissione territoriale di cui all’articolo 27, primo comma, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, riconosce la prote­zione umanitaria quando non sussistono i presupposti per il riconoscimen­to della protezione internazionale, ma vi sono fondati motivi di ritenere che lo straniero interessato:

  • Non può godere nel suo paese di un effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, come prescritto dall’articolo 10 della stessa;
  • ha subito gravi violazioni dei suoi diritti fondamentali nel paese di origine o nei paesi che ha attraversato prima di arrivare in Italia;
  • ha intrapreso il viaggio per arrivare in Italia quando era ancora mi­norenne;
  • Abita in Italia da tempo, e ha maturato legami affettivi, familiari e sociali tali da rendere irragionevole e impraticabile un suo ritorno al paese di origine;
  • Abita in Italia da tempo, e si è stabilmente inserito nel mercato del lavoro»

d) All’articolo 16, comma 1, dopo le parole «lo status di protezione sussidia­ria», sono aggiunte le parole «e quello di protezione umanitaria»

e) All’articolo 16, comma 1, la lettera d-bis è sostituita dalla seguente: «costitui­sca un pericolo concreto ed attuale per l’ordine e la sicurezza pubblica, desumi­bile da circostanze di fatto che devono essere indicate nel provvedimento di re­voca»

f) All’articolo 23 è aggiunto i seguenti commi 3 e 4:

«3. Ai titolari dello status di protezione umanitaria è rilasciato un per­messo di soggiorno per protezione umanitaria, della durata di due anni. Tale permesso di soggiorno consente l’accesso al lavoro e allo studio ed è convertibile in un permesso per motivi di lavoro, sussistendone i requisiti.

4. Il permesso di soggiorno di cui al comma 3 può essere richiesto anche al Questore, al di fuori della procedura di protezione internazionale».

Art. 2. Abrogazione delle norme in materia di domande manifestamente infondate e di procedure accelerate

1. Al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti mo­dificazioni:

a) L’articolo 2-bis è abrogato

b) All’articolo 9, il comma 2-bis è abrogato

c) All’articolo 10, comma 1, le parole da «L’ufficio di polizia informa il richie­dente» a «può essere rigettata ai sensi dell’articolo 9, comma 2-bis» sono abroga­te;

d) All’articolo 10, comma 2, la lettera d-bis) è abrogata

e) All’articolo 28, comma 1, lettera c-ter) è abrogata

f) L’articolo 28-bis è abrogato;

g) L’articolo 28-ter è abrogato;

h) All’articolo 32, comma 1, la lettera b-bis) è abrogata.

Art. 3. Norme per fronteggiare l’emergenza Covid-19

1. All’articolo 35 comma 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo la lettera e), è aggiunta la seguente lettera f): «L’accesso al Medico di Assistenza Primaria e al Medico di Continuità Assistenziale».

2. Fino al 31 Dicembre 2020, l’accesso alle prestazioni di cui all’articolo 35 com­ma 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 è garantito anche ai cittadini stranieri soggiornanti con un visto di breve durata, nonché ai cittadini degli Sta­ti Membri dell’Unione Europea che non siano autorizzati all’iscrizione al Servi­zio Sanitario Nazionale. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394.

3. I permessi di soggiorno in scadenza nell’anno 2020 sono prorogati fino al 31 Dicembre 2020.

4. La disposizione di cui al comma 3 si applica anche ai permessi di soggiorno che, alla data dell’entrata in vigore della presente legge, erano stati già rifiutati, revocati o annullati.

5. Fino al 31 Dicembre 2020 sono sospesi tutti i procedimenti di revoca dei per-messi di soggiorno.

6. Il termine temporale di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 può essere ulteriormente prorogato, per ragioni legate all’emergenza sanitaria da Covid-19, con decreto del Ministero dell’Interno, emanato di concerto con il Ministero della Salute.

Art. 4. Regolarizzazione

1. Il cittadino straniero dimorante sul territorio nazionale, ma privo di un tito­lo di soggiorno, può dichiarare entro il 30 Giugno 2020 la sua presenza al Que­store della provincia in cui dimora, e la sua volontà di regolarizzare il proprio status giuridico.

2. La dichiarazione di cui al comma 1 è effettuata con modalità telematiche de­finite dal Ministero dell’Interno.

3. Il Questore, verificata la sussistenza dei requisiti per l’ingresso in Italia di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, rilascia un permes­so di soggiorno per attesa occupazione.

4. Il permesso di cui al comma 3 è rilasciato in deroga ai requisiti di previa re­golarità del soggiorno, di perdita del posto di lavoro e di iscrizione ai Centri per l’Impiego di cui all’articolo 22, comma 11 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

5. Per il rinnovo o la conversione del permesso di cui al comma 3 si applicano, in quanto compatibili, le norme di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e all’articolo 37 del Decreto Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394.

6. La ricevuta della dichiarazione di cui al comma 1, unitamente al passaporto dell’interessato in corso di validità, è titolo idoneo per l’iscrizione al Servizio Sa­nitario Nazionale.

 

Il Collettivo di Adif

Migranti e Covid-19, alcune proposte

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

La condizione di irregolarità in cui vivono molti migranti è da tempo insostenibile e inaccettabile, e lo è a maggior ragione nella fase di pandemia che stiamo vivendo in queste settimane. In primo luogo, la presenza di uomini e donne «invisibili», senza diritti, compromette la coesione sociale e rende più difficile l’attuazione delle misure di profilassi. In secondo luogo, l’irregolarità alimenta i circuiti del lavoro nero, grigio e sommerso, mette a repentaglio la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolti, e genera un’imponente evasione contributiva. Infine, interi settori produttivi (come l’agricoltura) registrano serie carenze di manodopera, anche per il venir meno di quasi 1 milione di lavoratori stagionali provenienti dai paesi UE.

In una fase così straordinaria non si possono continuare a utilizzare gli strumenti ordinari di regolazione dei fenomeni migratori: tanto più che questi strumenti si sono rivelati lesivi dei diritti fondamentali, e spesso inefficaci rispetto ai loro (discutibili) scopi dichiarati.

Per questo, guardiamo con favore ai diversi appelli circolati in questi giorni (lanciati, ad esempio, da alcuni dirigenti sindacali, dai Radicali o dalla Campagna Ero Straniero) nei quali si propone una regolarizzazione degli stranieri che vivono nel nostro paese. In particolare, come Adif abbiamo aderito all’appello «Siamo Qui: Sanatoria Subito», sottoscritto da numerose associazioni, che chiede – in attesa di «un profondo ripensamento delle politiche migratorie» – l’avvio di una regolarizzazione «che abbia come unico presupposto la presenza in Italia a oggi».

Condividendo pienamente quest’ultima proposta, riteniamo utile suggerire alcune misure concrete, che potrebbero rappresentare – se attuate – un primo, tangibile risultato a beneficio degli uomini e delle donne migranti presenti in Italia, e che al contempo potrebbero «smuovere le acque» di un contesto politico e sociale in movimento. Avanziamo qui di seguito alcune proposte, che ovviamente potranno essere integrate da suggerimenti e valutazioni che cercheremo di recepire.

Moratoria su dinieghi, preavvisi di rigetto e revoche di titoli di soggiorno

Nel contesto di drammatica emergenza sanitaria che stiamo vivendo, molte Questure continuano a notificare preavvisi di rigetto, dinieghi e revoche dei permessi di soggiorno. Allo stesso modo, le Prefetture continuano a notificare i rifiuti delle richieste di protezione internazionale emessi dalle Commissioni Territoriali. Si tratta a nostro avviso di comportamenti irresponsabili e inaccettabili, lesivi – tra l’altro – dei diritti di difesa e di partecipazione al procedimento amministrativo (si ricorda che è molto difficile, nell’attuale situazione di isolamento in casa, trovare un avvocato). È dunque necessario e urgente sospendere, almeno fino al 15 Giugno prossimo, tutti i dinieghi, preavvisi di rigetto e tutte le revoche dei titoli di soggiorno: si tratterebbe di una misura coerente con le finalità del cosiddetto «decreto cura-Italia» (n. 18/2020), che all’articolo 103 prevede una proroga di tutti i permessi e di tutte le autorizzazioni in scadenza; la norma andrebbe opportunamente ampliata, o interpretata in modo estensivo.

Al tempo stesso, anche al fine di ridurre il contenzioso, si dovrebbe prevedere il riconoscimento d’ufficio di una protezione umanitaria a tutti coloro che hanno presentato istanza (anche reiterata) e che abbiano ricevuto un rifiuto, e a coloro che sono ancora in attesa di essere convocati per l’audizione in Commissione. Infine, è opportuno prorogare fino a 21 anni i permessi di soggiorno per minore età in scadenza.

Proroga visti o presenze per turismo e possibilità di conversione

Molti cittadini stranieri si trovano oggi in Italia con visti per turismo, oppure sono entrati in esenzione di visto, potendo soggiornare per un periodo massimo di tre mesi. Il citato «decreto cura-Italia» n. 18/2020 prevede all’articolo 103 che «tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti abilitativi comunque denominati, in scadenza tra il 31 Gennaio e il 15 Aprile 2020, conservano la loro validità fino al 15 Giugno 2020». Il visto turistico è da intendersi come un’autorizzazione, e rientra senz’altro in questa norma: si tratterebbe tuttavia di specificarlo, anche con circolare interpretativa. Sarebbe opportuno inoltre prevedere, almeno in questa fase di emergenza, la possibilità di convertire il soggiorno turistico (anche nei casi di esenzione del visto) in un permesso di soggiorno per inserimento stabile.

Iscrizione al Servizio Sanitario per tutti

Le Regioni non garantiscono un’adeguata assistenza sanitaria agli stranieri irregolari. Leggi il dossier Naga/Simm

È oggi quanto mai urgente garantire a tutti l’assistenza medica prevista dal Servizio Sanitario Nazionale. In teoria, anche i migranti irregolari possono accedere alle «cure urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative», come recita l’art. 35 comma 3 del Testo Unico Immigrazione; all’atto pratico, però, le Regioni non garantiscono un’effettiva assistenza a coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Come documenta una recente inchiesta condotta dal Naga e dalla Simm, in molti casi gli irregolari possono accedere solo ad ambulatori gestiti dal volontariato, o sono costretti ad andare al Pronto Soccorso: cosa, quest’ultima, che le linee guida emanate dal Ministero della Salute raccomandano esplicitamente di non fare in tempi di coronavirus. Vi sono infine i cittadini stranieri che soggiornano per motivi di turismo, che sono esclusi dall’accesso all’STP e non possono iscriversi al SSN.

In concreto, il Governo potrebbe emanare un decreto urgente che sospenda temporaneamente l’attuazione di alcune norme del Testo Unico, in particolare l’art. 34 comma 1 che subordina l’accesso al SSN alla regolarità del soggiorno. In via provvisoria, l’iscrizione al Servizio Sanitario dovrebbe essere garantita alle persone presenti a qualsiasi titolo sul territorio, indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno e dalla residenza anagrafica.

Ricordiamo che queste proposte sono attualmente il modo migliore per dare attuazione alle norme costituzionali in materia di diritti fondamentali, in particolare quelle di cui all’articolo 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo») e all’articolo 32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti»).

Negli 8 CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) attualmente in funzione risultavano presenti, alla data del 31 Marzo, 344 persone (fonte Garante per i detenuti). Pensiamo da sempre che il sistema CPR (come ogni altra forma di detenzione amministrativa) sia da abolire ma, mai come oggi, questo obiettivo si rende urgente.

L’Italia potrebbe far propria la raccomandazione del 26 Marzo scorso, con cui la Commissaria per i diritti umani al Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic invitava a chiudere le strutture di detenzione e a bloccare qualsiasi nuovo ingresso. La circolare della Ministra dell’Interno Lamorgese, anch’essa del 26 Marzo, non segue affatto tali indicazioni, e prevede misure in molti casi impraticabili e insufficienti (tra cui l’isolamento di alcuni detenuti). La “sospensione” della libertà di circolazione nell’area Schengen rende ancor più priva di senso la detenzione amministrativa.

Da ultimo la chiusura biunivoca delle frontiere impedisce di rimpatriare gli irregolari, e rende quindi del tutto irrealistiche – oltre che illegittime per violazione dell’art. 15 della Direttiva 115/2008 – le misure di espulsione e il connesso trattenimento nei Cpr.

Per tale ragione si impone la necessità di sospendere anche formalmente tutte le espulsioni, e di chiudere tutti i CPR, garantendo sistemazione in accoglienza volontaria alle persone ad oggi trattenute. Chiediamo alle istituzioni che si utilizzi questo periodo di chiusura per rivedere radicalmente il tema delle espulsioni, le ragioni e le modalità con cui queste sono state finora, pressoché illegittimamente, eseguite.

Riesame delle domande di asilo, reintroduzione della protezione umanitaria

Oggi che è scoppiata anche in Italia la pandemia da COVID-19 e che le prospettive di ritorno nei paesi di origine sono comunque azzerate, a fronte della situazione di emergenza sanitaria che si vive nei CAS, più che nei centri SIPROIMI – ex SPRAR, e della chiusura di tutte le frontiere anche per le operazioni di rimpatrio forzato, chiediamo con forza provvedimenti amministrativi di riesame delle decisioni di diniego ed il rilascio a tutti i richiedenti di un permesso di soggiorno provvisorio, convertibile alla scadenza in un permesso per ricerca lavoro.

Occorre accelerare al massimo le procedure istruttorie ancora aperte, senza procedere ad ulteriori audizioni, per riconoscere a tutti coloro che sono arrivati in Italia in condizioni di minore età un permesso di soggiorno per integrazione sociale e per eliminare gli effetti perversi dell’applicazione retroattiva della legge n. 132 del 2018. Occorre anche una modifica legislativa che reintroduca l’istituto della protezione umanitaria, in attuazione di una previsione costituzionale (art. 10 Cost.), con la conseguente abrogazione, per la parte che la riguarda, della legge n. 132 del 2018. Occorre, infine, sospendere anche formalmente i trasferimenti previsti dal Regolamento Dublino.

Una regolarizzazione per «ricerca di lavoro»

Si propone una regolarizzazione non immediatamente vincolata ad un rapporto di lavoro, né ad un’offerta di impiego (requisiti che difficilmente possono venir soddisfatti in un periodo di pandemia): una regolarizzazione «per ricerca di lavoro», dunque, il cui esito potrebbe essere il rilascio del permesso di soggiorno «per attesa occupazione» di cui all’articolo 22 comma 11 del Testo Unico Immigrazione. In considerazione della straordinaria situazione economica e sanitaria, non sarebbero richiesti – ai fini del rilascio di tale documento – i due requisiti indicati nel Testo Unico: la previa titolarità del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, e la perdita del posto di lavoro.

Come previsto dalla legge, il permesso così rilasciato avrebbe validità di un anno (eventualmente rinnovabile ai sensi della Circolare del Ministero dell’Interno prot. n. 0040579 del 03-10-2016), e dovrebbe – alla scadenza – poter essere convertito in altro permesso, qualora lo straniero ne abbia i requisiti.

Le domande di regolarizzazione dovrebbero essere inviate in forma telematica, mediante il Portale Nulla-Osta, il sito Cupa Project, o con altro strumento. La ricevuta dell’istanza, unitamente al passaporto, potrebbe valere come titolo di soggiorno provvisorio, valido anche per svolgere attività lavorativa ed ottenere la residenza anagrafica.

Adif- Associazione Diritti e Frontiere

9 Aprile 2020

Il principio giuridico che “disinnesca” Salvini

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa

Sono note le polemiche di questi giorni, a proposito del “decreto Salvini” ora convertito in legge: alcuni Sindaci – prima quello di Palermo Leoluca Orlando, poi quello di Napoli Luigi De Magistris, e in seguito tanti altri – hanno duramente contestato le nuove norme, minacciando di non applicarle. Il Presidente della Regione Toscana si è unito alla protesta, e ha annunciato un ricorso alla Corte Costituzionale.

Su cosa si basano le polemiche di questi giorni?

Sotto accusa – in particolare – l’articolo 13 della legge, che impedirebbe ai richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe e di prendere la residenza. E qui bisogna fare attenzione, perché non sempre i giornali hanno riportato correttamente la notizia: le nuove norme, infatti, non impediscono l’iscrizione anagrafica a tutti i migranti, ma solo a coloro che hanno chiesto asilo e non hanno ancora ottenuto una risposta da parte delle autorità competenti. Quanti si siano già visti riconoscere l’asilo, o abbiano permessi di soggiorno di altro tipo (ad esempio per lavoro o per studio), non sono toccati dalla legge Salvini.

Negli ultimi giorni, il dibattito si è ulteriormente allargato, e a scendere in campo sono stati giuristi, esperti e tecnici del diritto. Alcuni tra loro – ed è la posizione che vogliamo evidenziare qui – sostengono che le nuove norme non impediscono in realtà l’iscrizione anagrafica: i Comuni, quindi, possono tranquillamente dare la residenza ai richiedenti asilo, senza fare nessun atto di “disobbedienza civile”, rimanendo nell’alveo della più rigorosa legalità. Ma cjhi sono questi giuristi? Forse sostenitori del Ministro dell’Interno, intervenuti per difendere la nuova legge dalle accuse di incostituzionalità?

Ecco, qui c’è un vero e proprio colpo di scena: questi esperti non solo non hanno alcun rapporto di amicizia con Salvini, ma sono anzi strenui avversari del governo giallo-verde. I loro nomi – Emilio Santoro o Sabino Cassese – forse diranno poco ai lettori di Africa, ma sono notissimi a chi si occupa di diritto dell’immigrazione. E la loro proposta non intende affatto depotenziare la protesta dei Sindaci: al contrario, vuole sostenerla, rafforzarla e munirla di nuove armi (giuridiche, si intende). E allora sarà bene entrare nel dettaglio.

Applicare la legge senza violare la Costituzione

Nel suo parere inviato all’ANCI, Emilio Santoro parte dal testo della legge. Il famoso articolo 13 – spiega il giurista, docente all’Università di Firenze – non dice affatto che i richiedenti asilo non possono avere la residenza: si limita ad affermare che il loro permesso di soggiorno non è un documento valido per l’iscrizione anagrafica. Sono due cose diverse.

Anche se nella legge Salvini c’è scritto che il permesso per richiesta asilo non consente di iscriversi all’anagrafe, il diritto è qualcosa di più complesso della semplice lettura dei testi normativi. Le norme non vanno solo lette e capite, come si fa con un romanzo o un articolo di giornale: vanno anche interpretate e applicate in modo risultare coerenti con la Costituzione. E la Costituzione dice che la residenza è un diritto inviolabile: ogni individuo, si legge nell’articolo 16 della nostra Carta, «può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio». Questo principio di libera circolazione voluto dai Costituenti si applica ai cittadini italiani, ma anche agli stranieri regolari: se ne deduce che i richiedenti asilo – che hanno in tasca un permesso di soggiorno, e sono dunque in regola con le norme sull’immigrazione – devono avere la residenza.

Già, ma se la legge Salvini sembra dire l’esatto contrario, che si fa? Come si risolve la contraddizione? E qui viene il punto: per quanto possa sembrare strano, quando una legge è in contrasto con il dettato costituzionale, bisogna cercare di interpretarla in modo “creativo”, anche a costo di forzare un po’ il significato delle parole. Anche a costo di diventare “azzeccagarbugli”, come diceva il Manzoni che abbiamo letto a scuola.

Questa “interpretazione creativa” si chiama in termini tecnici “presunzione di conformità”, ed è un metodo elaborato dalla Corte Costituzionale. La proposta di Emilio Santoro, insomma, non è affatto un modo un po’ furbesco di aggirare la legge, come potrebbe sembrare a un primo sguardo.

In concreto, cosa significa tutto ciò?

In termini concreti, dove conduce tutto questo ragionamento? Santoro spiega che, con il decreto Minniti, era stata prevista una “procedura semplificata” per la residenza ai richiedenti asilo: in estrema sintesi, le pratiche per l’iscrizione anagrafica venivano avviate non dai singoli migranti, ma direttamente dalle cooperative che gestivano i centri di accoglienza.

Per interpretare correttamente la legge Salvini, secondo il giurista fiorentino, bisogna partire proprio da qui. Quando l’articolo 13 dice che il permesso per richiesta asilo non è un documento valido per l’anagrafe, il senso è proprio questo: il particolare permesso di soggiorno di questi migranti non autorizza gli uffici comunali ad applicare la “procedura semplificata” del decreto Minniti.

Di conseguenza, i richiedenti asilo prenderanno la residenza come la prendono da sempre tutti gli altri cittadini: andando direttamente in Comune e richiedendola agli uffici competenti, senza più avvalersi della mediazione di operatori e cooperative.

Di sicuro questa interpretazione non rispecchia i desideri del Ministro Salvini: è però coerente con il metodo della “presunzione di conformità” di cui abbiamo appena parlato. Spetta alla Consulta decidere se dichiarare anticostituzionale l’articolo 13. Nel frattempo, è possibile applicarlo in modo da non ledere i diritti di persone in carne e ossa.

Sergio Bontempelli

 

Diritto di asilo sotto attacco. Intervista a Sergio Bontempelli

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa, 16 Novembre 2018

Da pochi giorni è uscito Un rifugio precario – Breve storia del diritto di asilo in Europa  (Helicon), di Sergio Bontempelli, firma ricorrente di Corriere delle Migrazioni, attivista e studioso, ormai da diversi anni, del fenomeno migratorio. A detta dell’autore, si tratta di un volume senza  pretese, ma la quantità di note e cenni bibliografici rivelano subito quanto lavoro ci sia dietro.

Il libro arriva in un momento di grande complessità, per quanto concerne i diritti umani, e certamente si presta ad essere uno strumento valido per leggere le sfide del presente.

Come nasce l’idea di tracciare la storia del diritto d’asilo in Europa?

«Non sono uno storico di mestiere, ma un attivista, un volontario e un operatore sociale. L’idea di scrivere questo piccolo libro non risponde a un’istanza intellettuale ma nasce da una urgenza tutta politica. Oggi, infatti, il diritto di asilo è sotto attacco, i rifugiati sono oggetto di una delle più furibonde campagne di delegittimazione degli ultimi decenni. Sta passando l’idea che i migranti che attraversano il Mediterraneo non siano “veri profughi”, ma appunto “falsi rifugiati”. Ecco, mi interessava provare a tracciare una storia di questa idea del “falso rifugiato”. Far vedere che non nasce oggi, ma la ritroviamo sin dalle origini del dibattito sull’asilo: ciò significa che non è lo specchio della realtà che vediamo attorno a noi, ma della diffidenza che è dentro di noi. Quando diciamo che i migranti sbarcati in Sicilia sono “falsi profughi”, pensiamo di dire qualcosa sui migranti, ma in realtà stiamo dando voce a uno stereotipo nato un secolo fa».

Addirittura?

«Sì, Il libro si apre con la storia di coloro che possiamo considerare i primi richiedenti asilo della storia contemporanea: gli ebrei che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, fuggirono dalla Russia per sottrarsi alle persecuzioni antisemite degli zar. Arrivati in Inghilterra, suscitarono i malumori e le diffidenze dell’opinione pubblica. Se si leggono i giornali di quel periodo, troviamo discorsi molto simili a quelli che sentiamo oggi in Italia: “Dobbiamo aiutarli a casa loro”, “È giusto accogliere i veri profughi, ma gli ebrei sono falsi rifugiati”, e così via… »

Quanto la burocrazia e lo status giuridico incidono sulle vite delle persone?

« Questo è uno dei fili conduttori del mio lavoro. I controlli migratori, i visti, i permessi di soggiorno, le espulsioni – tutte cose nate in tempi relativamente recenti, più o meno un secolo fa – hanno spinto gli Stati a istituire apparati burocratici specializzati: pensiamo, in Italia, agli uffici immigrazione delle Questure, alle polizie di frontiera, alle Commissioni asilo e così via. Si tratta spesso di amministrazioni opache, sospettose, ostili ai migranti e ai richiedenti asilo. Se guardiamo alla storia, queste burocrazie – formalmente create per dare attuazione alla legge – sono state assai poco inclini al rispetto delle norme, e molto attente invece ad assecondare i timori e i pregiudizi del senso comune. Nel libro faccio diversi esempi, che riguardano sia il passato che il presente. Questi apparati burocratici hanno finito per condizionare le stesse politiche migratorie dei governi e dei parlamenti».

A proposito di politiche migratorie, quali saranno gli effetti del Decreto Sicurezza e Immigrazione?

«Il decreto sicurezza di Salvini sembra proprio dettato dalle urgenze di questa “burocrazia dell’immigrazione”. Di fatto, il decreto cancella il diritto di asilo così come è stato concepito dalla Convenzione di Ginevra in poi: con le nuove norme, infatti, il migrante che chiede protezione diventa una persona sospetta, da tenere sotto controllo, da “sorvegliare e punire”. Si pensi all’abrogazione del diritto alla residenza anagrafica, all’esclusione dall’accoglienza diffusa, al probabile confinamento in luoghi di trattenimento prossimi alla frontiera. Con l’abolizione del permesso di soggiorno umanitario – una delle forme più importanti di “protezione”, cioè di asilo – si demolisce di fatto il diritto al soggiorno in Italia per molti rifugiati di fatto».

(Amalia Chiovaro)

Rifugiati ambientali: dopo il convegno di Milano

Articolo scritto dal collettivo redazionale, pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere, 2 Ottobre 2016

 

Il Convegno su “Il Secolo dei Rifugiati Ambientali”. Leggi gli atti

All’indomani del Convegno Internazionale “Il secolo dei rifugiati ambientali”,  il collettivo redazionale di Adif – Associazione Diritti e Frontiere, ha pubblicato sul proprio sito web questo articolo, risultato di una riflessione collettiva

Il convegno su Il Secolo dei Rifugiati Ambientali?, organizzato dall’europarlamentare on. Barbara Spinelli con il contributo, tra gli altri, della nostra associazione, ha segnato una piccola ma significativa “pietra miliare” nel dibattito politico italiano. Finora, infatti, il tema dei “rifugiati ambientali” è stato ampiamente discusso a livello internazionale ed europeo [si veda, per un primo inquadramento, qui e qui], ma ha ricevuto scarsa e sporadica attenzione nel nostro paese.

L’appuntamento di Milano ha rappresentato da questo punto di vista una positiva inversione di tendenza, perché – forse per la prima volta qui da noi – attivisti, ricercatori, studiosi e policy-makers hanno potuto confrontarsi su un tema di drammatica attualità: si è fatto, potremmo dire, un passo avanti nella doverosa sprovincializzazione del dibattito sui fenomeni migratori.

Riascolta il convegno su Radio Radicale o guarda i video su youtube: Sessione prima e Sessione seconda

Il tema dei rifugiati ambientali è tuttavia straordinariamente complesso, non privo di ambiguità e di questioni non risolte: così, come era prevedibile, dalla sala del Palazzo Reale sono uscite preziose indicazioni politiche, ma anche e soprattutto domande, temi da approfondire, interrogativi su cui ragionare, nodi ancora da sciogliere. Proviamo dunque a ripercorrere, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni punti su cui continuare a discutere, a partire dai tanti stimoli venuti dal convegno.

Umano, troppo umano: disuguaglianze globali e cambiamenti climatici

Recenti stime dicono che il numero dei rifugiati ambientali nel 2015 ha superato quello dei profughi di guerra: il fenomeno riguarda soprattutto i cosiddetti internally displaced persons o “sfollati interni” – cioè coloro che fuggono da case, villaggi e città senza varcare i confini del proprio paese – ma naturalmente coinvolge anche migranti e rifugiati “internazionali”. Già oggi, dunque, le migrazioni forzate nascono non tanto e non solo dalle guerre, dai conflitti e dalle persecuzioni politiche, quanto e soprattutto dai cambiamenti climatici e dalle loro conseguenze nei territori interessati.

I cambiamenti climatici, però, sono fenomeni assai poco naturali. Certo, la piena di un fiume, un’alluvione o una stagione all’insegna della siccità sono eventi che appartengono alla natura, ma il mutamento globale delle condizioni climatiche è dovuto essenzialmente all’azione dell’uomo. L’alterazione dell’ecosistema, in particolare, è l’esito ultimo di un modello di sviluppo fondato sulle disuguaglianze, sull’appropriazione indebita di risorse, sullo sfruttamento irresponsabile del pianeta e delle sue ricchezze.

Per approfondire. Leggi il dossier “Crisi ambientale e migrazioni forzate”, di Associazione A Sud

I rifugiati ambientali, dunque, non sono vittime di un destino “cinico e baro”: sono, invece, il prodotto di un rapporto ineguale tra “Nord” e “Sud” del mondo. E non è un caso se proprio dal “Sud” – dai paesi che con eufemismo poco brillante chiamiamo “in via di sviluppo” – vengono gran parte dei flussi legati, direttamente o indirettamente, alle catastrofi ambientali.

Ecco dunque il primo, fondamentale tema emerso dal convegno: intervenire sulle migrazioni forzate indotte dal climate change significa contestare un modello economico neo-liberista e neo-coloniale, che depreda i tanti Sud del mondo e, al contempo, mette e repentaglio il fragile equilibrio tra la specie umana e le risorse del pianeta. Mai come oggi la giustizia sociale è indissociabile dalla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Climate change e migrazioni: una relazione complessa

La relazione tra cambiamenti climatici e migrazioni è però straordinariamente complessa, e il convegno di Milano ha avuto il merito di mettere in evidenza questa complessità. Occorre diffidare di catene troppo lineari di causa / effetto: quelle per cui ogni catastrofe ambientale sarebbe il prodotto del climate change, e produrrebbe a sua volta, inevitabilmente, profughi e migranti forzati.

Come hanno sottolineato molti esperti al convegno di Milano, le cose non sono così semplici. Da un lato, infatti, è impossibile attribuire in modo univoco il singolo evento ai cambiamenti climatici del pianeta: siccità, uragani, inondazioni e alluvioni sono sempre esistite, quel che cambia è “soltanto” (si fa per dire) la loro frequenza su scala globale.

Dall’altro lato, il climate change non produce solo eventi catastrofici – come uragani o alluvioni, appunto – ma anche fenomeni di più lungo periodo (si pensi alla progressiva desertificazione di intere aree del mondo). In questi casi, la rarefazione delle risorse disponibili alimenta e rafforza diseguaglianze, conflitti armati, guerre, che a loro volta producono migrazioni forzate.

Il rapporto tra mutamenti climatici e flussi di profughi è dunque indiretto, non lineare. Ciò rende difficile istituire la categoria giuridica dei “rifugiati ambientali”, perché non è sempre possibile stabilire una relazione immediata di causa/effetto tra fenomeni ambientali e migrazioni.

Ripensare la differenza tra migrazioni “economiche” e “forzate”

Migranti economici e richiedenti asilo: una divisione che discrimina. Fulvio Vassallo Paleologo, dal sito di ADIF

E tuttavia, a guardar bene questa ambiguità non riguarda solo i “profughi ambientali”, ma tutti i rifugiati: perché anche nel caso dei richiedenti asilo “classici” non è sempre facile stabilire una relazione diretta, univoca e lineare tra persecuzione politica e migrazione. Spesso – per non dire sempre – le cose sono più complesse: l’esperienza migratoria nasce da un ampio spettro di motivazioni, in cui si intrecciano necessità e scelta, motivi economici e ragioni politiche.

Da questo punto di vista – ed è una ulteriore, preziosa indicazione che ci viene dal convegno di Milano – è proprio la distinzione tra migrante economico e rifugiato che andrebbe ripensata a fondo: questa distinzione è servita, soprattutto negli ultimi anni, a legittimare ulteriori chiusure delle frontiere, e interpretazioni sempre più restrittive del diritto di asilo.

La redazione

Per approfondire:
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