Articolo scritto dal collettivo redazionale, pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere, 2 Ottobre 2016
All’indomani del Convegno Internazionale “Il secolo dei rifugiati ambientali”, il collettivo redazionale di Adif – Associazione Diritti e Frontiere, ha pubblicato sul proprio sito web questo articolo, risultato di una riflessione collettiva
Il convegno su Il Secolo dei Rifugiati Ambientali?, organizzato dall’europarlamentare on. Barbara Spinelli con il contributo, tra gli altri, della nostra associazione, ha segnato una piccola ma significativa “pietra miliare” nel dibattito politico italiano. Finora, infatti, il tema dei “rifugiati ambientali” è stato ampiamente discusso a livello internazionale ed europeo [si veda, per un primo inquadramento, qui e qui], ma ha ricevuto scarsa e sporadica attenzione nel nostro paese.
L’appuntamento di Milano ha rappresentato da questo punto di vista una positiva inversione di tendenza, perché – forse per la prima volta qui da noi – attivisti, ricercatori, studiosi e policy-makers hanno potuto confrontarsi su un tema di drammatica attualità: si è fatto, potremmo dire, un passo avanti nella doverosa sprovincializzazione del dibattito sui fenomeni migratori.
Il tema dei rifugiati ambientali è tuttavia straordinariamente complesso, non privo di ambiguità e di questioni non risolte: così, come era prevedibile, dalla sala del Palazzo Reale sono uscite preziose indicazioni politiche, ma anche e soprattutto domande, temi da approfondire, interrogativi su cui ragionare, nodi ancora da sciogliere. Proviamo dunque a ripercorrere, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni punti su cui continuare a discutere, a partire dai tanti stimoli venuti dal convegno.
Umano, troppo umano: disuguaglianze globali e cambiamenti climatici
Recenti stime dicono che il numero dei rifugiati ambientali nel 2015 ha superato quello dei profughi di guerra: il fenomeno riguarda soprattutto i cosiddetti internally displaced persons o “sfollati interni” – cioè coloro che fuggono da case, villaggi e città senza varcare i confini del proprio paese – ma naturalmente coinvolge anche migranti e rifugiati “internazionali”. Già oggi, dunque, le migrazioni forzate nascono non tanto e non solo dalle guerre, dai conflitti e dalle persecuzioni politiche, quanto e soprattutto dai cambiamenti climatici e dalle loro conseguenze nei territori interessati.
I cambiamenti climatici, però, sono fenomeni assai poco naturali. Certo, la piena di un fiume, un’alluvione o una stagione all’insegna della siccità sono eventi che appartengono alla natura, ma il mutamento globale delle condizioni climatiche è dovuto essenzialmente all’azione dell’uomo. L’alterazione dell’ecosistema, in particolare, è l’esito ultimo di un modello di sviluppo fondato sulle disuguaglianze, sull’appropriazione indebita di risorse, sullo sfruttamento irresponsabile del pianeta e delle sue ricchezze.
I rifugiati ambientali, dunque, non sono vittime di un destino “cinico e baro”: sono, invece, il prodotto di un rapporto ineguale tra “Nord” e “Sud” del mondo. E non è un caso se proprio dal “Sud” – dai paesi che con eufemismo poco brillante chiamiamo “in via di sviluppo” – vengono gran parte dei flussi legati, direttamente o indirettamente, alle catastrofi ambientali.
Ecco dunque il primo, fondamentale tema emerso dal convegno: intervenire sulle migrazioni forzate indotte dal climate change significa contestare un modello economico neo-liberista e neo-coloniale, che depreda i tanti Sud del mondo e, al contempo, mette e repentaglio il fragile equilibrio tra la specie umana e le risorse del pianeta. Mai come oggi la giustizia sociale è indissociabile dalla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
Climate change e migrazioni: una relazione complessa
La relazione tra cambiamenti climatici e migrazioni è però straordinariamente complessa, e il convegno di Milano ha avuto il merito di mettere in evidenza questa complessità. Occorre diffidare di catene troppo lineari di causa / effetto: quelle per cui ogni catastrofe ambientale sarebbe il prodotto del climate change, e produrrebbe a sua volta, inevitabilmente, profughi e migranti forzati.
Come hanno sottolineato molti esperti al convegno di Milano, le cose non sono così semplici. Da un lato, infatti, è impossibile attribuire in modo univoco il singolo evento ai cambiamenti climatici del pianeta: siccità, uragani, inondazioni e alluvioni sono sempre esistite, quel che cambia è “soltanto” (si fa per dire) la loro frequenza su scala globale.
Dall’altro lato, il climate change non produce solo eventi catastrofici – come uragani o alluvioni, appunto – ma anche fenomeni di più lungo periodo (si pensi alla progressiva desertificazione di intere aree del mondo). In questi casi, la rarefazione delle risorse disponibili alimenta e rafforza diseguaglianze, conflitti armati, guerre, che a loro volta producono migrazioni forzate.
Il rapporto tra mutamenti climatici e flussi di profughi è dunque indiretto, non lineare. Ciò rende difficile istituire la categoria giuridica dei “rifugiati ambientali”, perché non è sempre possibile stabilire una relazione immediata di causa/effetto tra fenomeni ambientali e migrazioni.
Ripensare la differenza tra migrazioni “economiche” e “forzate”
La redazione