Diritti dei migranti e antirazzismo

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Cosa prevede (davvero) il Patto Europeo su Immigrazione e Asilo

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa Rivista, 29 Settembre 2020

È la notizia che ha occupato le prime pagine dei giornali e i servizi di apertura dei Tg nei giorni appena passati: eppure, il contenuto effettivo del “Patto sull’Immigrazione e l’Asilo”, lanciato in pompa magna dalla Commissione Europa il 23 Settembre scorso, non è del tutto comprensibile per gran parte dell’opinione pubblica. Del resto non potrebbe essere diversamente: nella conferenza stampa di presentazione, la presidente Ursula von der Leyen e gli altri Commissari hanno squadernato un lungo elenco di slogan («procedure migliori e più rapide», «equa ripartizione della responsabilità e della solidarietà tra i Paesi Membri», «governance comune per la migrazione», ecc.), ma non sono entrati troppo nel dettaglio delle proposte. Proviamo allora a vedere più da vicino di cosa stiamo parlando.

Un Patto per gestire le emergenze Il “Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo” è un insieme di documenti elaborati dalla Commissione, che ora dovranno passare al vaglio del Consiglio e del Parlamento Europeo. In questo corposo dossier compaiono ben cinque atti normativi (in gran parte nuovi regolamenti), varie “raccomandazioni”, e alcuni testi di orientamento generale. Si tratta quindi di un vero e proprio “pacchetto” di norme e di politiche, che dovrebbe incidere in modo sostanziale sull’azione della UE in materia di flussi migratori.

E qui va notata subito una prima, evidente contraddizione. Nel lessico giornalistico (e anche politico) europeo, la parola “immigrazione” ha finito per assumere almeno tre significati diversi. Da un lato, con questo termine si indica l’arrivo, sul territorio degli Stati Membri, di cittadini stranieri che usufruiscono di visti (e di permessi di soggiorno) per motivi di lavoro o di ricongiungimento familiare: quelli che vengono definiti cioè – con un linguaggio forse un po’ improprio – “immigrati economici”. Dall’altro lato, si allude ai tanti stranieri che chiedono asilo politico o comunque protezione ai paesi europei, perché vittime di atti persecutori o di guerre nelle loro terre di origine. Infine, il termine immigrazione indica l’arrivo di gruppi consistenti di profughi (anch’essi, di solito, richiedenti asilo) in una specifica frontiera: nel caso italiano, per esempio, la parola “migranti” è divenuta quasi un sinonimo di “stranieri sbarcati sulle coste della Sicilia”, ed è usata sempre più spesso al posto della più cruda definizione di “clandestini”.

La differenza tra “migranti economici” e “richiedenti asilo” non è così profonda come si potrebbe pensare, ma comporta soprattutto un diverso trattamento giuridico: banalmente, il migrante “economico” deve chiedere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, mentre il richiedente asilo deve seguire il complesso iter burocratico necessario per ottenere una quache forma di protezione.

Ora, benché si presenti come un ambizioso progetto di riforma sull’immigrazione in generale, il “Patto” proposto dalla Commissione si occupa quasi esclusivamente di asilo. E concentra le sue attenzioni su quei richiedenti asilo che più turbano i sonni dei politici a livello continentale: cioè sui profughi che approdano sulle coste meridionali dell’Europa, in Italia e in Grecia, dopo aver tentato la pericolosa traversata del Mediterraneo (e dovrebbe essere chiaro, almeno ai Commissari UE, che i profughi arrivati via mare non sono gli unici richiedenti asilo che entrano sul territorio continentale…).

Non si parla dunque degli ingressi per lavoro, della disciplina del ricongiungimento familiare, del sistema dei visti di ingresso, né dei diritti dei cittadini stranieri stabilmente residenti nella Ue: tutte le attenzioni ricadono sulle procedure di asilo e sulla gestione delle frontiere “calde” (o presunte tali). Più che un “Patto sull’immigrazione e l’asilo”, siamo di fronte a un “Patto sugli sbarchi”: che serve, come qualcuno ha scritto, più ad assecondare i furori “sovranisti” che a governare un fenomeno complesso come quello dell’immigrazione.

Sorvegliare e respingere L’impianto del “Patto” è fortemente difensivo e repressivo: i migranti sono visti come un potenziale pericolo, che deve essere contenuto, canalizzato, sorvegliato e – quando possibile – respinto. Al cuore del sistema immaginato dalla Commissione vi sarebbe infatti il controllo della frontiera esterna della Ue: un controllo che verrebbe potenziato – in termini di risorse, mezzi e personale – e gestito in modo sempre più coordinato. L’obiettivo del “Patto” è quello di ridurre le presenze dei richiedenti asilo sul territorio europeo. A questo scopo, i Commissari prevedono che tutti i migranti in arrivo siano identificati e sottoposti a un rapido “screening”: nel giro di cinque giorni, le polizie di frontiera dovrebbero decidere chi è meritevole di presentare domanda di asilo, e chi invece deve considerarsi un semplice immigrato irregolare, da espellere o respingere.

E già qui, il “Patto” fa a pugni con il diritto di asilo sancito dalle convenzioni. Il potenziale rifugiato deve poter esporre i fatti e le circostanze che lo hanno spinto a chiedere protezione, ed è evidente che questo non è possibile in un tempo così ridotto (cinque giorni), e nella situazione di fragilità in cui si trova il migrante appena sbarcato. Un altro obiettivo prioritario, per la Commissione, è quello di garantire l’efficienza e la celerità dei rimpatri. A questo scopo viene istituita una nuova figura, il Coordinatore europeo per i rimpatri, che dovrebbe orientare e coordinare le politiche di espulsione dell’Unione Europea. Non mancano i consueti riferimenti alla cooperazione con i paesi di origine, un classico della retorica di Bruxelles.

La “solidarietà” Infine, vale la pena soffermarsi brevemente sul dispositivo immaginato dalla Commissione per fronteggiare le cosiddette “crisi migratorie” (termine che indica, in modo evidentemente drammatizzato, i periodi in cui si registrano arrivi numericamente più consistenti del solito). La parola chiave più usata è “solidarietà”: non quella che si deve – si dovrebbe – ai profughi in fuga da regimi autoritari e contesti bellici, ma quella che i paesi europei dovrebbero attivare per condividere “il carico”, “il peso” dei profughi. Ancora una volta, i migranti sono visti come un problema, un pericolo o un ingombro di cui disfarsi.

Come sappiamo, attorno al tema della cosiddetta “solidarietà europea” si sono scatenati i questi anni i conflitti tra i diversi “sovranismi”. L’Italia ha sempre lamentato di essere “rimasta sola” a fronteggiare gli sbarchi e gli arrivi dei richiedenti asilo (quando in realtà, sol per fare un esempio, la Germania ha un numero annuale di domande di asilo superiore a quello italiano). Gli altri paesi, spesso usando il famoso Regolamento Dublino, hanno rifiutato di accogliere i profughi arrivati sulle coste della Sicilia. Le diverse ipotesi di “redistribuzione” hanno sempre incontrato resistenze e ostilità.

Il coniglio nel cilindro e i suoi paradossi Per uscire da questa impasse, la Commissione sembra aver trovato il coniglio nel cilindro: la “sponsorship dei rimpatri”. In pratica, uno Stato Membro che non voglia accogliere i richiedenti asilo sbarcati in un altro paese può “dare una mano” a quel paese organizzando il rimpatrio delle persone a cui è stato negato l’asilo. Come ben sintetizza Francesca Spinelli in un articolo uscito in questi giorni su Internazionale, ciò significa ad esempio che «l’Ungheria si ritroverebbe a gestire il rimpatrio di una persona dall’Italia». Non solo: come spiega ancora Francesca Spinelli, «lo stato membro avrebbe anche il diritto di scegliere “le nazionalità di cui desidera sostenere il rimpatrio”. Quindi l’Ungheria potrebbe dire all’Italia che le sta bene rimpatriare gli iracheni, ma non gli afgani».

Che misure del genere possano effettivamente funzionare, è lecito dubitarne. Certo è che hanno ben poco a che fare con il diritto di asilo, così come era stato pensato e scritto nella Convenzione di Ginevra.

(Sergio Bontempelli)

La sanatoria che (forse) verrà

Originariamente pubblicato su Africa – Corriere delle Migrazioni

In mezzo a mille cattive notizie, l’anno 2020 sembra cominciare almeno con un buon auspicio: il 15 gennaio, rispondendo a un’interrogazione del deputato radicale Riccardo Magi, la ministra dell’Interno ha spiegato alla Camera che «l’intenzione del governo è quella di valutare le questioni poste dall’ordine del giorno approvato il 23 dicembre scorso».
Per chi abbia seguito il dibattito di questi mesi il riferimento è chiaro: il 23 dicembre scorso la Camera aveva approvato un ordine del giorno che parlava esplicitamente di una regolarizzazione degli immigrati presenti in Italia senza documenti. Le parole di Lamorgese significano che il governo sta valutando l’ipotesi di una «sanatoria». Non è ancora una buona notizia, ma è appunto un buon auspicio [qui il resoconto integrale della discussione].

Un provvedimento ancora da costruire. In effetti, sono moltissimi gli stranieri che sperano in una prossima regolarizzazione. Nel dibattito pubblico si parla quasi esclusivamente di quei migranti che, con l’abolizione dei permessi umanitari, si sono visti rifiutare la domanda di asilo (il permesso umanitario era appunto una delle più diffuse tipologie di asilo): ma la platea dei potenziali beneficiari è assai più ampia.
Con la crisi economica, per esempio, molti lavoratori stranieri regolari sono stati licenziati, non sono riusciti a trovare un nuovo impiego e di conseguenza non hanno potuto rinnovare i loro permessi di soggiorno. Ci sono poi gli immigrati giunti in Italia con un semplice visto turistico, che hanno trovato un impiego ma non hanno potuto mettersi in regola (le leggi vietano la trasformazione di un visto turistico in un permesso per lavoro).
L’elenco potrebbe continuare a lungo: con le norme in vigore è assai difficile – e spesso addirittura impossibile – entrare in Italia o rimanerci legalmente, e perciò il numero di irregolari è cospicuo, anche se difficile da quantificare (le stime in questo campo, è bene ricordarlo, non hanno alcuna affidabilità).

Già in queste ore, dunque, l’annuncio di Lamorgese sta suscitando speranze e attese: come si potrà accedere a questa nuova regolarizzazione? Quali requisiti saranno necessari? Chi potrà fare la richiesta e ottenere il sospirato permesso di soggiorno? È bene sapere che a queste domande non è possibile dare una risposta: la regolarizzazione non c’è, perché non è stata approvata nessuna legge, e dunque non vi sono «requisiti» da soddisfare.

L’ordine del giorno approvato dalla Camera il 23 dicembre formula due possibili proposte. Una prima ipotesi è quella di mettere in regola gli stranieri che già lavorano «al nero», a patto che siano gli stessi datori di lavoro ad autodenunciarsi (cioè a dichiarare di aver assunto un immigrato). Una seconda ipotesi è quella di concedere un permesso di soggiorno allo straniero qualora un’azienda (o una famiglia nel caso dei domestici) sia disposta ad assumerlo. I datori di lavoro dovrebbero pagare un contributo di 200 euro per ogni lavoratore regolarizzato. Si tratta, beninteso, soltanto di ipotesi, che potrebbero anche cambiare nel corso del tempo, ma che ci consentono almeno di avanzare una prima riflessione.

È necessaria una soluzione di compromesso. Non è un mistero che il clima politico sia complessivamente ostile a un provvedimento di regolarizzazione. Proprio in queste ore, giornali e partiti della destra si stanno scatenando contro quella che già chiamano la «maxi-sanatoria» (!), e c’è da scommettere che anche all’interno della maggioranza i pareri siano per lo più negativi. La stessa ministra Lamorgese è apparsa assai cauta, e si è limitata a dire che il governo «sta valutando»: come a dire che anche a Palazzo Chigi ci sono riserve e perplessità.
In un clima così ostile, è fin troppo ovvio che ottenere una regolarizzazione è – e resta – un obiettivo difficile. Ancor più difficile è far approvare un provvedimento che consenta davvero l’emersione di migliaia di cittadini stranieri irregolari: il rischio è che, in mezzo a mille «veti» e «paletti», si arrivi a una legge che non serve a nulla. Non sarebbe la prima volta che accade una cosa del genere.
Da questo punto di vista, chi – come l’onorevole Magi – ha avuto il coraggio di avviare una trattativa, si trova di fronte a un compito delicatissimo. Si tratta, in sostanza, di «far pesare» nel dibattito politico le molte voci della società civile – Chiese, associazioni, sindacati, ma anche piccole e medie imprese e importanti settori produttivi – che chiedono politiche più realistiche in materia di lavoratori stranieri; al contempo, si tratta di arrivare a un compromesso accettabile, perché è ovvio che in questo clima politico non è pensabile di ottenere la «regolarizzazione perfetta» (ammesso poi che esista, una regolarizzazione perfetta…). Vediamo di spiegarci con un paio di esempi.

Una prima trappola: l’autodenuncia del datore di lavoro. Come abbiamo visto, l’ordine del giorno del 23 dicembre propone di regolarizzare gli stranieri sulla base di una «autodenuncia» dei datori di lavoro: è una procedura che conosciamo bene, perché ha caratterizzato tutte le «sanatorie» degli scorsi anni, a partire dalla Bossi-Fini del 2002. Significa, in sostanza, che non è l’immigrato che chiede di regolarizzarsi: solo il datore di lavoro può presentare una domanda di «emersione».
Nelle scorse sanatorie, molte aziende si rifiutarono però di denunciare i loro rapporti di lavoro al nero, anche per la paura di possibili conseguenze legali. Nel provvedimento del 2012, per dire, se la procedura non andava a buon fine (se cioè la domanda non veniva accettata), il datore di lavoro poteva essere denunciato per aver assunto un irregolare: questo rischio indusse molti a non presentare la domanda, e la sanatoria si rivelò un vero e proprio “flop”.
L’ideale sarebbe garantire agli stessi migranti il diritto di richiedere la regolarizzazione: sarebbe la procedura più logica, e anche quella più garantista. Se ciò non fosse possibile – se cioè un provvedimento di questo genere incontrasse troppe resistenze –, sarebbe meglio approvare la seconda ipotesi avanzata dall’ordine del giorno del 23 dicembre: quella di regolarizzare gli immigrati non in base a un rapporto di lavoro già esistente, ma a fronte di una proposta di assunzione.

La seconda trappola: la «tassa» sulla regolarizzazione. Un secondo punto riguarda la «tassa» di 200 euro per accedere alla procedura. Sembra evidente che una misura di questo genere sia stata proposta soprattutto per vincere le prevedibili resistenze delle burocrazie ministeriali (e di una parte del mondo politico): in questo modo, infatti, il provvedimento di regolarizzazione avrebbe il non trascurabile effetto di garantire cospicui introiti per lo Stato.
Anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il sole: quasi tutte le sanatorie degli anni passate prevedevano una qualche forma di «contributo» a carico dei richiedenti. E proprio dall’esperienza degli scorsi decenni abbiamo imparato una cosa: benché in teoria fossero i datori di lavoro a dover sborsare il contributo, all’atto pratico l’onere è ricaduto quasi sempre sulle spalle dei migranti. Il meccanismo, prevedibilissimo, consisteva in una sorta di scambio: io, datore di lavoro, accetto benevolmente (si fa per dire…) di presentare la domanda di regolarizzazione in tuo favore, ma tu in cambio paghi il contributo al posto mio.
Tener conto di questo meccanismo è importante, perché è necessario evitare che i migranti si indebitino (e magari finiscano nelle mani di strozzini e usurai) per accedere alla procedura. L’ideale sarebbe di non prevedere nessun contributo monetario: in fin dei conti – secondo alcune stime – anche senza la «tassa» la regolarizzazione porterebbe nelle casse dello Stato la bellezza di 1 miliardo di nuove entrate fiscali e di 3 miliardi di maggiori contributi previdenziali.
Infine, si dovrebbe evitare lo stillicidio di requisiti «ostativi» (che impediscono cioè di accedere alla procedura di regolarizzazione). In alcune sanatorie precedenti, ad esempio, si cercò di introdurre la regola per cui uno straniero destinatario di espulsione non poteva presentare la domanda: il che è una contraddizione in termini, perché qualsiasi irregolare può essere vittima di una espulsione.
Insomma, sarebbe necessario un provvedimento realistico, che consenta effettivamente l’emersione degli irregolari. La strada è difficile, ma una porta si è aperta.

(Sergio Bontempelli)

Per approfondire leggi anche:

L’ordine del giorno approvato alla Camera il 23 Dicembre 2019

Il testo dell’interrogazione alla Camera dell’on. Riccardo Magi, Radicali Italiani

La discussione alla Camera, 15 Gennaio 2020 (vedi anche estratto sulla regolarizzazione)

 

Fortezza Europa: storia e paradossi

Originariamente pubblicato sul sito Corriere delle Migrazioni – Africa, 9 Dicembre 2019

Fortezza Europa. Breve storia delle politiche migratorie continentali (Helicon) è l’ultimo libro di Sergio Bontempelli, attivista e studioso del fenomeno migratorio nonché collaboratore di Corriere delle Migrazioni e Left.
Il volume affronta la storia delle politiche migratorie in Europa, dal dopoguerra ai giorni nostri. Si tratta di un lavoro di ricerca che offre diversi spunti di riflessione e, come scrive l’autore nelle conclusioni: «Una ricerca storica si rivolge al passato anche per capire il presente e immaginare un futuro possibile».

Il libro si apre con due storie di vita, un confronto tra vecchie e nuove migrazioni. Quanto un’operazione del genere può agevolare il “racconto” del fenomeno migratorio?
«Il confronto tra le storie rappresenta, diciamo così, un escamotage narrativo. Da un lato quella di Urbano Ciacci, emigrante italiano ed ex minatore, trasferitosi in Belgio alla fine degli anni Quaranta, per lavorare nella (tristemente nota) miniera di Marcinelle; dall’altro la vicenda di Irina, una domestica moldava che arriva in Italia nel 2005, per lavorare nella casa di un anziano. Raccontare queste storie è stato utile per mostrare come siano cambiate le politiche migratorie in Europa. Nell’immediato dopoguerra, gli emigranti (italiani e non) erano esplicitamente richiesti dai Paesi di destinazione, perché rappresentavano una manodopera indispensabile per le fabbriche. I Paesi europei più industrializzati incoraggiarono il loro arrivo, sollecitandoli ad emigrare: Urbano Ciacci racconta di aver visto sui muri della sua città un manifesto, stampato dagli imprenditori minerari del Belgio, che invitava gli italiani a partire, promettendo buoni salari e viaggi gratuiti fino alle località di destinazione. Per Irina le cose vanno diversamente: negli anni più vicini a noi, l’immigrazione è stata fortemente ostacolata dalle autorità, e i migranti sono arrivati spesso in modo irregolare, o comunque eludendo controlli e divieti».

Gli  emigranti italiani però non ebbero una buona accoglienza in Belgio, così come negli altri Paesi di destinazione.
«Oggi siamo abituati a collocare le politiche migratorie nelle categorie un po’ riduttive dell’accoglienza e del rifiuto. Qui siamo di fronte a vicende molto più complesse. Urbano non venne affatto “accolto” dal Belgio: i minatori italiani reclutati nelle miniere della Vallonia subirono vessazioni di ogni tipo, e furono oggetto di forti ostilità, non troppo diverse da quelle che oggi le burocrazie del nostro Paese (e purtroppo anche molti cittadini italiani) manifestano nei confronti dei migranti. Allora i migranti eravamo noi, e anche noi siamo stati oggetto di razzismo e di disprezzo.
Gli italiani, insomma, non furono “accolti”: semplicemente, c’era bisogno di loro, e le politiche migratorie furono pensate per incoraggiare il loro arrivo».

Le politiche migratorie dei Paesi europei hanno avuto, e hanno, tanti punti in comune. Il principale sembra essere la volontà di chiudere le frontiere. A cosa è dovuto questo accanimento?
«Questo è in effetti un punto decisivo. Nel libro, cerco di spiegare che le politiche restrittive – chiudere le frontiere, vietare o limitare i nuovi ingressi, impedire la regolarizzazione di chi non ha il permesso di soggiorno, e così via – sono state adottate da tutti i Paesi europei sin dagli anni Settanta, dunque ben prima che esistesse l’Unione Europea come la conosciamo oggi: ben prima, cioè, che esistessero direttive, regolamenti e norme valide per tutti i Paesi membri della Ue.
Viene dunque naturale chiedersi perché vi sia stata questa volontà così diffusa, pervicace e persistente di chiudere le frontiere. Ed è una domanda a cui è difficile dare risposte semplici, univoche. Sicuramente un attore che ha contribuito moltissimo a questa straordinaria “convergenza” delle politiche migratorie è stato quella che potremmo chiamare la “burocrazia dell’immigrazione”, cioè l’insieme degli apparati amministrativi e di polizia, chiamati a gestire le presenze degli stranieri. Noi tendiamo a pensare che le politiche migratorie siano fatte dai partiti, dai governi o dai parlamenti: in realtà, molto spesso sono gli apparati ministeriali, i funzionari, a orientare le scelte degli attori politici. In Italia, per esempio, parliamo spesso della legge Bossi-Fini o dei decreti Salvini come se fossero questi atti normativi ad aver costruito le politiche migratorie. Se però guardiamo le cose più da vicino, ci accorgiamo che molti cambiamenti sono dovuti a circolari ministeriali, o magari alle prassi dei singoli uffici, delle questure, delle prefetture, e così via. Anche su scala europea accadono cose simili: gli apparati burocratici sono stati decisivi nell’orientare le politiche».

Qui il fenomeno migratorio viene analizzato partendo dalle normative che hanno governato, o cercano di governare, i flussi migratori. Che quadro ne emerge?
«L’elemento forse più curioso è il fallimento delle politiche migratorie restrittive. I muri e le frontiere, semplicemente, non funzionano, e non hanno funzionato quasi mai. Nel libro faccio alcuni esempi. Negli anni Sessanta, il Regno Unito cercò di limitare i flussi migratori provenienti dalle ex colonie caraibiche, indiane e africane: eppure, gli immigrati caraibici, indiani e africani continuarono ad arrivare, mentre gli irlandesi (che avevano libero accesso al territorio britannico) diminuirono di numero. Negli anni Settanta successe una cosa simile nell’Europa continentale: Francia, Olanda, Belgio e Germania Federale chiusero le frontiere, ma i migranti continuarono ad arrivare. Gli anni Novanta, infine, sono il decennio in cui vi è stata la maggiore rigidità, ma anche l’epoca dei flussi migratori più cospicui.
Le norme restrittive, potremmo dire, non producono un’automatica riduzione dei flussi e, all’inverso, le frontiere aperte non generano necessariamente movimenti migratori “incontrollabili” e “insostenibili”».

(Amalia Chiovaro)

Perché non è vero che in Italia un terzo dei reati è “straniero”

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa

No, l’Italia non è un paese «sempre più insicuro», come vorrebbero farci credere tanti commentatori: le statistiche dicono il contrario: i reati sono in costante calo da almeno dieci anni. È quanto ha spiegato il Capo della Polizia Franco Gabrielli, intervenendo al Festival delle Città tenutosi a Roma nei giorni scorsi (qui il video del suo intervento). Ma Gabrielli ha aggiunto una precisazione importante, destinata a scatenare accese polemiche: se è vero che i reati nel loro insieme diminuiscono, gli stranieri sembrano avere un ruolo crescente nelle dinamiche criminali. E dunque, come di consueto, il dibatito sull’insicurezza rimanda al tema dell’immigrazione.
I dati sembrerebbero in effetti inequivoci: «Nel 2016», dice Gabrielli, «su 893mila persone denunciate ed arrestate, il 29,2% erano stranieri; nel 2017 gli stranieri sono aumentati al 29,8%; nel 2018 sono arrivati al 32%».
Il Capo della Polizia è attento a misurare le parole, e cita dati difficilmente contestabili: tra le persone «denunciate e arrestate» la percentuale di stranieri è in aumento. Ma questo non giustifca affatto i titoli dei giornali: «Calo dei reati, uno su tre commesso da stranieri» (Il Messaggero), «Meno reati, ma sempre più stranieri a commetterli» (Corriere della Sera) «I dati non mentono, straniero un reato su tre» (Il Giornale).

Attenzione: Gabrielli non ha detto che un reato su tre è commesso da stranieri. Ha solo spiegato che un denunciato su tre è straniero. Sono due cose molto diverse. Sembra una sottigliezza, e invece la differenza è davvero enorme: cerchiamo di spiegarla con un esempio.
Esco di casa al mattino, e incontro un mio vecchio conoscente, che chiamerò per comodità Filippo. Il vecchio conoscente  è ritiene di avere un conto in sospeso con me per questioni di lavoro, e quando mi vede passare mi aggredisce con un pugno. Tramortito, col naso sanguinante, torno a casa, e trovo che il mio appartamento è stato svaligiato (si vede che è la mia giornata sfortunata…). A questo punto devo andare dai carabinieri per sporgere due distinte denunce: la prima sarà completa di nome e cognome dell’aggressore; la seconda, quella relativa al furto in appartamento, sarà presentata «contro ignoti», perché ovviamente non ho idea di chi abbia preso la simpatica iniziativa di rubare a casa mia.
Le statistiche criminali – quelle che ci dicono che i reati sono in calo – sono costruite proprio sulle denunce, e le denunce si possono presentare contro un «autore noto» o contro «ignoti».
E proprio qui sta il punto: per motivi facilmente intuibili, la maggior parte dei «reati» registrati
nelle statistiche (cioè delle denunce presentate all’Autorità Giudiziaria) si riferisce
ad autore ignoto: ce lo dice il sito dell’Istat, nella sezione «Giustizia penale – Delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria». Più dell’80% dei crimini sono commessi da ignoti, e la percentuale sale molto nel caso dei reati che – con un’espressione un po’ balorda, che non ha nulla di scientifco – vengono definiti «di forte allarme sociale»: furti (più del 95%), borseggi (97%), scippi (93%), furti di auto e ciclomotori (più del 97%), solo per fare qualche esempio.
Quando Gabrielli dice che «un denunciato su tre è straniero», parla evidentemente dei reati ad autore noto. Facciamo l’esempio del furto: nel 95% dei casi vengono presentate denunce contro ignoti, e di questa quota così ampia non possiamo sapere quanti sono gli italiani e quanti i non italiani. Nel restante 5% si fa nome e cognome del ladro, e in un terzo dei casi il ladro è straniero: signifca, se la matematica non è un’opinione, che gli stranieri sono «autori» dell’1,66% dei reati complessivi. Chi dice che «un terzo dei reati è commesso da stranieri» suppone arbitrariamente che quel 5% sia un «campione rappresentativo» del restante 95%, ma non c’è alcuna prova che le cose stiano davvero così.
Tutto questo signifca che non possiamo conoscere a priori l’effetiva percentuale di stranieri sul totale dei reati commessi: è un numero che rimane oscuro, e che presumibilmente resterà tale anche in futuro.
Sappiamo con certezza però che l’immigrazione è molto cresciuta negli ultimi trent’anni, e che nello stesso periodo di tempo non si è registrato un aumento della criminalità. È un buon indizio del fatto che l’immigrazione non contribuisce all’aumento dei reati: ma attenzione, è solo un indizio, non una prova statistica.

Sergio Bontempelli

Il principio giuridico che “disinnesca” Salvini

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa

Sono note le polemiche di questi giorni, a proposito del “decreto Salvini” ora convertito in legge: alcuni Sindaci – prima quello di Palermo Leoluca Orlando, poi quello di Napoli Luigi De Magistris, e in seguito tanti altri – hanno duramente contestato le nuove norme, minacciando di non applicarle. Il Presidente della Regione Toscana si è unito alla protesta, e ha annunciato un ricorso alla Corte Costituzionale.

Su cosa si basano le polemiche di questi giorni?

Sotto accusa – in particolare – l’articolo 13 della legge, che impedirebbe ai richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe e di prendere la residenza. E qui bisogna fare attenzione, perché non sempre i giornali hanno riportato correttamente la notizia: le nuove norme, infatti, non impediscono l’iscrizione anagrafica a tutti i migranti, ma solo a coloro che hanno chiesto asilo e non hanno ancora ottenuto una risposta da parte delle autorità competenti. Quanti si siano già visti riconoscere l’asilo, o abbiano permessi di soggiorno di altro tipo (ad esempio per lavoro o per studio), non sono toccati dalla legge Salvini.

Negli ultimi giorni, il dibattito si è ulteriormente allargato, e a scendere in campo sono stati giuristi, esperti e tecnici del diritto. Alcuni tra loro – ed è la posizione che vogliamo evidenziare qui – sostengono che le nuove norme non impediscono in realtà l’iscrizione anagrafica: i Comuni, quindi, possono tranquillamente dare la residenza ai richiedenti asilo, senza fare nessun atto di “disobbedienza civile”, rimanendo nell’alveo della più rigorosa legalità. Ma cjhi sono questi giuristi? Forse sostenitori del Ministro dell’Interno, intervenuti per difendere la nuova legge dalle accuse di incostituzionalità?

Ecco, qui c’è un vero e proprio colpo di scena: questi esperti non solo non hanno alcun rapporto di amicizia con Salvini, ma sono anzi strenui avversari del governo giallo-verde. I loro nomi – Emilio Santoro o Sabino Cassese – forse diranno poco ai lettori di Africa, ma sono notissimi a chi si occupa di diritto dell’immigrazione. E la loro proposta non intende affatto depotenziare la protesta dei Sindaci: al contrario, vuole sostenerla, rafforzarla e munirla di nuove armi (giuridiche, si intende). E allora sarà bene entrare nel dettaglio.

Applicare la legge senza violare la Costituzione

Nel suo parere inviato all’ANCI, Emilio Santoro parte dal testo della legge. Il famoso articolo 13 – spiega il giurista, docente all’Università di Firenze – non dice affatto che i richiedenti asilo non possono avere la residenza: si limita ad affermare che il loro permesso di soggiorno non è un documento valido per l’iscrizione anagrafica. Sono due cose diverse.

Anche se nella legge Salvini c’è scritto che il permesso per richiesta asilo non consente di iscriversi all’anagrafe, il diritto è qualcosa di più complesso della semplice lettura dei testi normativi. Le norme non vanno solo lette e capite, come si fa con un romanzo o un articolo di giornale: vanno anche interpretate e applicate in modo risultare coerenti con la Costituzione. E la Costituzione dice che la residenza è un diritto inviolabile: ogni individuo, si legge nell’articolo 16 della nostra Carta, «può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio». Questo principio di libera circolazione voluto dai Costituenti si applica ai cittadini italiani, ma anche agli stranieri regolari: se ne deduce che i richiedenti asilo – che hanno in tasca un permesso di soggiorno, e sono dunque in regola con le norme sull’immigrazione – devono avere la residenza.

Già, ma se la legge Salvini sembra dire l’esatto contrario, che si fa? Come si risolve la contraddizione? E qui viene il punto: per quanto possa sembrare strano, quando una legge è in contrasto con il dettato costituzionale, bisogna cercare di interpretarla in modo “creativo”, anche a costo di forzare un po’ il significato delle parole. Anche a costo di diventare “azzeccagarbugli”, come diceva il Manzoni che abbiamo letto a scuola.

Questa “interpretazione creativa” si chiama in termini tecnici “presunzione di conformità”, ed è un metodo elaborato dalla Corte Costituzionale. La proposta di Emilio Santoro, insomma, non è affatto un modo un po’ furbesco di aggirare la legge, come potrebbe sembrare a un primo sguardo.

In concreto, cosa significa tutto ciò?

In termini concreti, dove conduce tutto questo ragionamento? Santoro spiega che, con il decreto Minniti, era stata prevista una “procedura semplificata” per la residenza ai richiedenti asilo: in estrema sintesi, le pratiche per l’iscrizione anagrafica venivano avviate non dai singoli migranti, ma direttamente dalle cooperative che gestivano i centri di accoglienza.

Per interpretare correttamente la legge Salvini, secondo il giurista fiorentino, bisogna partire proprio da qui. Quando l’articolo 13 dice che il permesso per richiesta asilo non è un documento valido per l’anagrafe, il senso è proprio questo: il particolare permesso di soggiorno di questi migranti non autorizza gli uffici comunali ad applicare la “procedura semplificata” del decreto Minniti.

Di conseguenza, i richiedenti asilo prenderanno la residenza come la prendono da sempre tutti gli altri cittadini: andando direttamente in Comune e richiedendola agli uffici competenti, senza più avvalersi della mediazione di operatori e cooperative.

Di sicuro questa interpretazione non rispecchia i desideri del Ministro Salvini: è però coerente con il metodo della “presunzione di conformità” di cui abbiamo appena parlato. Spetta alla Consulta decidere se dichiarare anticostituzionale l’articolo 13. Nel frattempo, è possibile applicarlo in modo da non ledere i diritti di persone in carne e ossa.

Sergio Bontempelli

 

Diritto di asilo sotto attacco. Intervista a Sergio Bontempelli

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa, 16 Novembre 2018

Da pochi giorni è uscito Un rifugio precario – Breve storia del diritto di asilo in Europa  (Helicon), di Sergio Bontempelli, firma ricorrente di Corriere delle Migrazioni, attivista e studioso, ormai da diversi anni, del fenomeno migratorio. A detta dell’autore, si tratta di un volume senza  pretese, ma la quantità di note e cenni bibliografici rivelano subito quanto lavoro ci sia dietro.

Il libro arriva in un momento di grande complessità, per quanto concerne i diritti umani, e certamente si presta ad essere uno strumento valido per leggere le sfide del presente.

Come nasce l’idea di tracciare la storia del diritto d’asilo in Europa?

«Non sono uno storico di mestiere, ma un attivista, un volontario e un operatore sociale. L’idea di scrivere questo piccolo libro non risponde a un’istanza intellettuale ma nasce da una urgenza tutta politica. Oggi, infatti, il diritto di asilo è sotto attacco, i rifugiati sono oggetto di una delle più furibonde campagne di delegittimazione degli ultimi decenni. Sta passando l’idea che i migranti che attraversano il Mediterraneo non siano “veri profughi”, ma appunto “falsi rifugiati”. Ecco, mi interessava provare a tracciare una storia di questa idea del “falso rifugiato”. Far vedere che non nasce oggi, ma la ritroviamo sin dalle origini del dibattito sull’asilo: ciò significa che non è lo specchio della realtà che vediamo attorno a noi, ma della diffidenza che è dentro di noi. Quando diciamo che i migranti sbarcati in Sicilia sono “falsi profughi”, pensiamo di dire qualcosa sui migranti, ma in realtà stiamo dando voce a uno stereotipo nato un secolo fa».

Addirittura?

«Sì, Il libro si apre con la storia di coloro che possiamo considerare i primi richiedenti asilo della storia contemporanea: gli ebrei che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, fuggirono dalla Russia per sottrarsi alle persecuzioni antisemite degli zar. Arrivati in Inghilterra, suscitarono i malumori e le diffidenze dell’opinione pubblica. Se si leggono i giornali di quel periodo, troviamo discorsi molto simili a quelli che sentiamo oggi in Italia: “Dobbiamo aiutarli a casa loro”, “È giusto accogliere i veri profughi, ma gli ebrei sono falsi rifugiati”, e così via… »

Quanto la burocrazia e lo status giuridico incidono sulle vite delle persone?

« Questo è uno dei fili conduttori del mio lavoro. I controlli migratori, i visti, i permessi di soggiorno, le espulsioni – tutte cose nate in tempi relativamente recenti, più o meno un secolo fa – hanno spinto gli Stati a istituire apparati burocratici specializzati: pensiamo, in Italia, agli uffici immigrazione delle Questure, alle polizie di frontiera, alle Commissioni asilo e così via. Si tratta spesso di amministrazioni opache, sospettose, ostili ai migranti e ai richiedenti asilo. Se guardiamo alla storia, queste burocrazie – formalmente create per dare attuazione alla legge – sono state assai poco inclini al rispetto delle norme, e molto attente invece ad assecondare i timori e i pregiudizi del senso comune. Nel libro faccio diversi esempi, che riguardano sia il passato che il presente. Questi apparati burocratici hanno finito per condizionare le stesse politiche migratorie dei governi e dei parlamenti».

A proposito di politiche migratorie, quali saranno gli effetti del Decreto Sicurezza e Immigrazione?

«Il decreto sicurezza di Salvini sembra proprio dettato dalle urgenze di questa “burocrazia dell’immigrazione”. Di fatto, il decreto cancella il diritto di asilo così come è stato concepito dalla Convenzione di Ginevra in poi: con le nuove norme, infatti, il migrante che chiede protezione diventa una persona sospetta, da tenere sotto controllo, da “sorvegliare e punire”. Si pensi all’abrogazione del diritto alla residenza anagrafica, all’esclusione dall’accoglienza diffusa, al probabile confinamento in luoghi di trattenimento prossimi alla frontiera. Con l’abolizione del permesso di soggiorno umanitario – una delle forme più importanti di “protezione”, cioè di asilo – si demolisce di fatto il diritto al soggiorno in Italia per molti rifugiati di fatto».

(Amalia Chiovaro)

Pisa, un marchio per non essere marchiati

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa Rivista, 6 Novembre 2018

La mensa universitaria è in pieno centro, a due passi dalla storica Piazza dei Cavalieri: gli studenti, dopo pranzo, si attardano nei bar della zona e sorseggiano i loro caffè, in attesa di tornare a lezione. Tra i tavolini all’aperto, collocati negli angusti vicoli medievali, fanno capolino spesso gli ambulanti senegalesi: vendono accendini, fazzoletti, portachiavi, ombrelli. Le reazioni degli studenti sono diverse: c’è chi si ferma a parlare, chi compra qualcosa, chi fa l’elemosina e regala qualche spicciolo. E poi c’è chi si infastidisce, e manda via in malo modo il venditore.

Siamo a Pisa, piccola città famosa per la sua “Torre Pendente”, che è giusto a due passi dalla zona universitaria: basta allontanarsi di qualche metro, costeggiando la Facoltà di Lingue, e si arriva davanti alla Torre. Qui il paesaggio umano cambia: di studenti se ne vedono pochi, di pisani “autoctoni” ancor meno. La Piazza dei Miracoli, col suo complesso monumentale, è piena fino all’inverosimile di turisti. Ci sono anche i venditori senegalesi, che però vendono merci più adatte alla clientela di questa porzione di città: bastoni da selfie, cappelli per ripararsi dal sole, magliette, souvenir della Torre.

I senegalesi sono una componente storica dell’immigrazione in Toscana, e in particolare a Pisa. I primi arrivi risalgono alla fine degli anni Ottanta: le fabbriche della provincia – soprattutto le concerie del Valdarno – avevano un disperato bisogno di manodopera, e i giovani africani trovavano facilmente un impiego. Per più di venti anni, le piccole e medie imprese del circondario hanno fatto fortuna grazie al lavoro di migliaia di operai senegalesi. Poi è arrivata la crisi, molte aziende hanno chiuso, e in tanti sono rimasti disoccupati: alcuni sono tornati in Senegal, altri hanno cercato fortuna nel Nord Italia, ma qualcuno è rimasto qui, in attesa di tempi migliori. E per sbarcare il lunario ha deciso di fare l’ambulante.

«Devo mantenere la mia famiglia, i miei figli, ma non voglio rubare né spacciare droga», ci spiega Abdul, che vende nella zona del Duomo. Ed è un discorso che si sente fare spesso dai senegalesi che abitano a Pisa: fare l’ambulante, per molti di loro, significa guadagnarsi da vivere onestamente. Senza rubare né spacciare, appunto. Il problema è che, da qualche anno a questa parte, la vendita ambulante è stata criminalizzata: le amministrazioni locali la considerano sinonimo di “degrado”, e i commercianti – soprattutto quelli nella zona turistica – si lamentano della presenza dei senegalesi vicino ai loro negozi.

Ma il tema caldo del dibattito cittadino è il commercio di oggetti contraffatti: alcuni ambulanti vendono borse e cappotti “firmati”, con le etichette false dei marchi più conosciuti e prestigiosi (Calvin Klein, Gucci etc.). Abdul, che ha scelto di non vendere questi oggetti “griffati”, ci spiega che molti suoi connazionali lo fanno perché in questo modo guadagnano di più: «I turisti non comprano né accendini né bastoni da selfie: tutti ci chiedono qualche borsa con il marchio».

La vendita di oggetti contraffatti è una violazione delle norme in materia di diritto d’autore (un reato simile, per capirci, a quello che si compie scaricando illegalmente film o pezzi musicali), ed è punito con sanzioni penali severissime, tra cui la revoca del permesso di soggiorno. Così, da qualche anno alcuni senegalesi si chiedono come poter continuare a vendere e a sopravvivere, senza correre rischi così alti.

È da questa riflessione collettiva che è nata l’idea di produrre un proprio marchio, un “brand” dei “senegalesi di Pisa”, da applicare alle borse e ai capi di abbigliamento venduti per le strade della città: un’idea che prende spunto da un’analoga iniziativa avviata a Salerno, sempre dalle comunità senegalesi. L’obiettivo è quello di creare curiosità attorno al nuovo marchio, così da spingere i turisti e i passanti a comprare i relativi prodotti, rinunciando ai brand più prestigiosi.

Il progetto è ancora in fase di definizione, ma i senegalesi sono ottimisti. «Sarà un modo per evitare la diffusione di oggetti contraffatti», scrivono in un comunicato firmato dalla loro associazione di riferimento, Senegal Mbolo, e da due associazioni cittadine di solidarietà, Africa Insieme e Rebeldia. «Invece di commercializzare borse, occhiali e vestiti “di marca”, venderemo borse, occhiali e vestiti caratterizzati dal nostro marchio. Sarà l’unico marchio che nasce dalle strade e dalle piazze di Pisa: un vanto per la città, un suo prodotto tipico e originale. Si chiamerà ABUSIF, ma sarà abusivo solo di nome».

(Sergio Bontempelli)

“Africa Insieme”, 30 anni di impegno e solidarietà a Pisa

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa Rivista, 16 Ottobre 2018

Africa Insieme è una piccola associazione di volontariato che, sul territorio di Pisa, si occupa dei diritti dei cittadini stranieri, degli immigrati e dei rifugiati: gestisce uno sportello di tutela legale, organizza corsi di formazione per operatori, promuove dibattiti pubblici ed eventi dedicati al mondo dei migranti. È insomma e per fortuna un’associazione come tante sul territorio nazionale. Ma proprio in questi giorni Africa Insieme compie trent’anni. Ed è per sottolineare e festeggiare il suo lungo e per molti versi pioneristico impegno che ne parliamo qui.

Nell’ormai lontano 1988, quando è nata, in Italia si parlava ancora molto poco di immigrazione. Il Muro di Berlino non era ancora caduto, gli albanesi non attraversavano ancora il Canale di Otranto – come avrebbero fatto per tutti gli anni Novanta –, i rumeni erano governati da Ceaucescu e non potevano (né forse volevano) varcare i confini del loro paese. Il Mar Mediterraneo non era attraversato dalle tante imbarcazioni che oggi portano in Europa richiedenti asilo e rifugiati di origine africana.

Eppure l’Italia era già terra di immigrazione: proprio negli anni Ottanta cominciarono ad arrivare i primi lavoratori stranieri, dal Marocco, dalla Tunisia, ma anche dal Senegal e in generale dall’Africa sub-sahariana. I giornali ne parlavano poco, e non c’era un vero e proprio dibattito pubblico sulle politiche dell’immigrazione così come lo conosciamo oggi. Sulla stampa quotidiana, gli articoli in tema erano relegati quasi sempre alle pagine dell’economia, e venivano letti per lo più da sindacalisti, imprenditori e studiosi del mondo del lavoro: l’immigrazione era un tema «da specialisti».

Eppure, gli immigrati arrivavano, e andavano a lavorare nei campi del Sud Italia o nelle fabbriche del Centro-Nord. Avevano spesso problemi col permesso di soggiorno, e all’epoca era difficile trovare avvocati o consulenti che conoscessero le norme sull’immigrazione. Africa Insieme nacque per garantire i diritti dei nuovi arrivati, che spesso rimanevano «invischiati» nelle maglie di una normativa complicata, incoerente, contraddittoria, a volte inutilmente farraginosa e ostile.

I fondatori dell’associazione provenivano soprattutto dall’Arci, dalla Chiesa Valdese (che a Pisa è sempre stata una presenza storica del volontariato cittadino), dalla Fgci (l’organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano) e c’era poi un nutrito gruppo di giovani attivisti senegalesi. Africa Insieme – come il Naga di Milano e Senza Confine di Roma, che risalgono più o meno agli stessi anni – era anche una delle prime associazioni in Italia a occuparsi specificamente di immigrazione: in precedenza, a sostenere i migranti erano stati soprattutto i sindacati (la Cgil in particolare) e le associazioni del mondo cattolico, Caritas in primo luogo

L’esperienza di Africa Insieme sarebbe forse durata pochi anni se l’immigrazione non avesse conquistato di lì a poco le prime pagine di tutti i giornali, locali e soprattutto nazionali. Nell’Estate 1989, nelle campagne di Villa Literno in Campania, una banda di rapinatori uccise a colpi di pistola un giovane immigrato sudafricano, fuggito dall’apartheid nel suo paese (dove Mandela era ancora in carcere) e divenuto bracciante agricolo precario nelle campagne del Sud. Fu, per l’opinione pubblica, una sorta di fulmine a ciel sereno. Il nostro paese scopriva di essere diventato terra di immigrazione. E scopriva anche che i nuovi arrivati vivevano spesso in condizioni di semi-schiavitù, sfruttati e sottopagati da padroni senza scrupoli, vittime di violenze e di razzismo.

Il 7 Ottobre 1989, una manifestazione nazionale sfilò per le vie di Roma, ricordando Jerry Masslo e chiedendo a gran voce una legge che garantisse i diritti dei migranti: nasceva così un movimento antirazzista, che nel tempo si organizzò in associazioni e gruppi di volontariato locali. Africa Insieme, nata un anno prima, aveva in qualche modo «precorso i tempi».

Sergio Bontempelli

L’Italia sarei anch’io

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Garantire la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati. Impedire che giovani venuti al mondo nel nostro Paese, cresciuti accanto a noi e con noi, siano considerati stranieri, magari da espellere se non hanno il permesso di soggiorno. Era questa la sfida lanciata dalla campagna L’Italia sono anch’io, concretizzatasi in due proposte di legge di iniziativa popolare, a loro volta sostenute da 100mile firme raccolte ai gazebo e ai banchetti sparsi in tutta la penisola. Sono passati tre anni da quando la campagna ha portato al Parlamento i testi che aveva elaborato. Adesso, finalmente,  il 29 luglio è stata depositata, in Commissione Affari Costituzionali della Camera, una proposta di legge di riforma della cittadinanza, prima firmataria la parlamentare Pd Marilena Fabbri. Le novità ci sono e sono sostanziali [qui il testo, confrontato con le norme attuali], anche se si registra un evidente passo indietro rispetto a L’Italia sono anch’io. Vediamo meglio.

Riformare la cittadinanza: la posta in gioco dei minori
Prima di entrare nel merito, vediamo quali sono i nodi che una riforma della cittadinanza deve, o dovrebbe, affrontare. La prima questione – la più sentita – riguarda appunto i bambini nati in Italia da genitori immigrati. Con la normativa attuale, questi ragazzi restano stranieri fino alla maggiore età: poi, compiuti i diciotto anni, possono chiedere la cittadinanza, ma devono dimostrare la residenza legale ininterrotta dalla nascita.

Si tratta di requisiti estremamente rigidi. Del resto, la legge in vigore risale al 1992, e all’epoca non si parlava di bambini “stranieri” nati in Italia: l’immigrazione era ancora una faccenda di giovani adulti. Oggi i tempi sono cambiati, i migranti si sono stabilizzati, hanno portato le famiglie e hanno fatto figli. E come sempre accade quando cambia la realtà attorno a noi, la legge ha – avrebbe – bisogno di un adeguamento ai tempi nuovi.

Con le procedure attuali, un minore nato in Italia resta nel limbo per tutta l’adolescenza, ed è costretto a rinnovare periodicamente il permesso di soggiorno: una vera e propria umiliazione, per ragazzi che si sentono a pieno titolo italiani. Il requisito della residenza legale, che deve essere ininterrotta per diciotto lunghissimi anni, rappresenta poi una vera e propria forca caudina: basta che la famiglia abbia perso per un breve periodo il permesso di soggiorno, o che per un qualsiasi motivo sia stata cancellata dall’anagrafe, che la possibilità di diventare italiano sfuma.

Per la verità, il problema della residenza legale era stato parzialmente mitigato dal “decreto del fare” varato nell’Estate 2013: grazie alle nuove norme, chi ha perso la residenza per brevi periodi può comunque diventare cittadino italiano se dimostra di essere stato presente in Italia senza interruzioni (ad esempio mostrando certificati di frequenza scolastica). Un po’ poco, ma sempre meglio di nulla.

La questione della naturalizzazione
Il secondo problema da affrontare riguarda la cosiddetta “naturalizzazione”, cioè la procedura con cui uno straniero diventa cittadino, o perché residente nel nostro paese da un certo numero di anni, o perché sposato con un/a italiano/a. Le polemiche più accese riguardano la naturalizzazione “per residenza”, che si ottiene dopo dieci anni di registrazione all’Anagrafe: un periodo lunghissimo, se lo si paragona ai cinque anni richiesti dalla Francia o dal Regno Unito, o agli otto della Germania [si veda il dossier della Camera dei Deputati sui paesi UE].

Tra l’altro, in questo caso non valgono le agevolazioni del “decreto del fare”: quindi, chi ha perso la residenza per brevi periodi non può dimostrare in altri modi di esser stato in Italia. In questo caso, certificati scolastici o altre “prove” non vengono prese in considerazione, perché la norma del 2013 si riferisce solo ai bambini nati in Italia (benché una inascoltata circolare del Viminale, nell’ormai lontano 2007, avesse provato ad “alleggerire” il criterio della residenza legale).

Una cittadinanza “gentilmente concessa”
Sulla naturalizzazione, peraltro, grava un altro problema: la legge non prevede un vero e proprio diritto alla cittadinanza, ma parla di “concessione”.  Il problema non è di forma, ma di sostanza. Perché se si parla di “concessione”, il Ministero può negarla senza tante spiegazioni: è un procedimento “discrezionale”, dicono i funzionari, e quindi l’amministrazione decide in piena autonomia. Così, solo per fare qualche esempio, la cittadinanza è stata negata a persone di fede musulmana, e il Viminale ha introdotto, con la circolare del 2007 già citata, dei criteri di reddito del tutto assenti nella legge (per diventare italiani bisogna essere “abbastanza ricchi”…).

Sulla naturalizzazione, nessuna novità…
Il disegno di legge attualmente all’esame delle Camere interviene solo sulla questione dei minori nati in Italia. La naturalizzazione non viene praticamente toccata: resterà dunque un provvedimento concessorio octroyée, come le Costituzioni ottocentesche – e continuerà a riguardare stranieri residenti da almeno dieci anni (che diventano cinque per i rifugiati e quattro per i comunitari). Non viene nemmeno recepita la modesta proposta di portare il termine a otto anni, adeguando la norma italiana almeno agli standard tedeschi (tra i più restrittivi del Continente).

L’unica, piccola novità riguarda il criterio della residenza ininterrotta: il disegno di legge introduce infatti le agevolazioni a suo tempo previste dal “decreto del fare”, e consente dunque di rimediare a eventuali periodi di interruzione della residenza. Una ben magra consolazione, verrebbe da dire…

Jus soli…
Ben più sostanziose sono le novità in materia di bambini nati in Italia: questi diventano cittadini, senza attendere il diciottesimo anno di età, se al momento della nascita uno dei genitori è residente da almeno cinque anni. Se il genitore è nato in Italia, basta un solo anno di residenza.

Certo, la proposta de L’Italia sono anch’io era assai più coraggiosa, perché chiedeva al genitore un solo anno di residenza prima della nascita. Ma all’atto pratico le differenze potrebbero non essere così rilevanti: l’ISTAT ci dice che più della metà dei cittadini stranieri è in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo, un documento che si rilascia – per l’appunto – dopo cinque anni di presenza legale in Italia. E tra coloro che hanno permessi di soggiorno “ordinari”, vi sono moltissimi lungosoggiornanti, che però non hanno i requisiti di reddito per ottenere il documento “di lungo periodo”.

A conti fatti, dunque, sono moltissimi i migranti che abitano in Italia da più di cinque anni: se approvato, il disegno di legge potrebbe avere effetti positivi non trascurabili, trasformando in cittadini decine di migliaia di ragazzi nati in Italia.

… e jus culturae
L’altra novità è il riconoscimento della cittadinanza ai minori che, nati in Italia o arrivati sul territorio prima dei dodici anni, hanno frequentato regolarmente la scuola per almeno un quinquennio. Si tratta del cosiddetto jus culturae, una norma approvata in nome di un discutibile principio “assimilazionista” (del tipo «è italiano chi acquisisce la nostra cultura attraverso la scuola»).

Il principio è appunto discutibile – almeno dal nostro punto di vista – perché allude a una “cultura italiana” che esiste solo nelle fantasie dei politici razzisti: le culture diffuse nel nostro paese sono molteplici, variegate e plurali, e non tutte si apprendono a scuola. Eppure, se non vogliamo perderci nella filosofia, bisogna riconoscere che anche questa norma può consentire l’acquisizione della cittadinanza a migliaia di bambini. Perché tutti i minori dovrebbero frequentare la scuola, ed è dunque facile arrivare alla conclusione di un ciclo di studi della durata di cinque anni.

Come si vede da questa piccola ricostruzione, il disegno di legge presenta luci ed ombre. Ci sono novità significative, e silenzi altrettanto rilevanti. Vedremo cosa accadrà, nei prossimi mesi, nel dibattito parlamentare.

Sergio Bontempelli

Leggi anche: quadro sinottico del disegno di legge sulla cittadinanza, confrontato con la normativa attuale

Se la matematica è un’opinione

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

La statistica, si sa, gode di un diffuso prestigio: i sociologi e gli studiosi che «danno i numeri» – quelli che forniscono dati, che srotolano slides piene di cifre e tabelle – hanno l’aura di moderni «sacerdoti del sapere», custodi di una scienza preziosa ed esoterica.

Eppure – almeno quando si parla di immigrazione – la matematica non ci restituisce mai una fotografia esatta della realtà. Ci dà delle indicazioni preziose, certo: ma, se non sappiamo «leggerla» con la dovuta cautela, rischiamo di prendere grosse cantonate.

Quanti immigrati arrivano in Italia
Quanti immigrati arrivano ogni anno nel nostro paese? Sembrerebbe una domanda banalissima, invece la faccenda non è così semplice. Ci sono le statistiche sugli sbarchi, d’accordo: si sa che le coste del Sud Italia sono costantemente monitorate e si può supporre che le cifre fornite dal Ministero dell’Interno siano ragionevolmente attendibili. Il punto è che non tutti i migranti arrivano via mare. Anzi: quelli che attraversano il Mediterraneo sono solo una minoranza.

Sì, avete capito bene: gli immigrati, nella maggior parte dei casi, non arrivano a bordo dei famosi «barconi». E questo, gli «esperti» – sociologi e demografi – lo sanno benissimo. Di solito, le frontiere più «battute» sono quelle terrestri: si arriva con l’autobus, sbarcando alla stazione Tiburtina di Roma, oppure in treno, muniti di regolare visto di ingresso. Per quanto possa sembrare incredibile, sono questi i modi in cui gli immigrati entrano più frequentemente in Italia.
Il punto è che, se le statistiche sugli sbarchi sono mediamente affidabili, quelle sugli ingressi «via terra» – diciamo così – sono disseminate di trappole. E si rischia, davvero, di fare errori clamorosi.

Appena arrivati o «sanati»?
Già, perché molti cittadini stranieri arrivano in autobus o in treno, ma da irregolari. Oppure – caso ancora più frequente – entrano con un visto turistico, che però non consente di rimanere in Italia con un contratto di lavoro: così, alla scadenza del visto, restano qui, ma senza permesso di soggiorno. Detto in due parole, si entra da irregolari, o lo si diventa dopo un breve periodo: e dunque non si viene registrati in nessun archivio.
Poi, all’improvviso, arriva una sanatoria, una regolarizzazione, una legge che consente di ottenere i documenti. E allora chi vive già in Italia fa domanda, prende il sospirato pezzo di carta, e finalmente viene registrato nelle statistiche.

È qui che il lettore inesperto rischia di essere ingannato: perché le presenze degli immigrati aumentano vertiginosamente in un breve periodo di tempo. Si ha l’impressione di essere «invasi» da flussi improvvisi e imprevedibili: in realtà, si tratta di persone che vivevano già da tempo nel nostro paese, e che si sono semplicemente (e improvvisamente) «regolarizzate».

Chi arriva, chi se ne va…
È per questo che le statistiche sui flussi migratori andrebbero prese con molta cautela. Secondo l’OCSE e l’ISTAT, per esempio, già da qualche anno gli arrivi sono diminuiti a causa della crisi economica: o, per meglio dire, sono aumentati gli «sbarchi» di richiedenti asilo e rifugiati – che non scelgono di emigrare, ma sono costretti a farlo da guerre e persecuzioni – e si sono ridotte le migrazioni economiche, quelle di chi viene per trovare un lavoro. La cosa – intendiamoci – è assolutamente plausibile: da che mondo è mondo, le crisi provocano drastiche contrazioni della mobilità internazionale.

Il punto è che è difficile avere dati statistici sicuri e affidabili in materia. Se si prendono le rilevazioni anagrafiche degli stranieri residenti, ad esempio, si scopre che il saldo migratorio – cioè la differenza tra coloro che arrivano in Italia e coloro che se ne vanno – è drasticamente diminuito negli ultimi anni: nel 2007, si parlava di un attivo di 494.885 unità [dati ISTAT, tavola 2], mentre nel 2014 la cifra è scesa +207 mila [Indicatori demografici ISTAT, Febbraio 2015, pag. 7].

Quando ho presentato questi dati sulla mia pagina Facebook, l’amico Sergio Briguglio – che di queste cose se ne intende – mi ha fatto notare che tra il 2006 e il 2007 c’erano stati ben due «decreti flussi», con cui molti irregolari avevano ottenuto un permesso di soggiorno. E quindi è difficile capire se il dato del 2007 si riferisca a persone appena arrivate in Italia, oppure a migranti «regolarizzati».

All’inverso, chi conosce da vicino il mondo dell’immigrazione sa che molti stranieri perdono il lavoro e tornano ai loro paesi, ma fanno di tutto per conservare il permesso di soggiorno e la residenza: non si sa mai, magari la crisi finisce, e se hai un documento in tasca puoi rientrare in Italia per trovare un nuovo impiego ben pagato. Insomma, c’è un sacco di gente che se ne va, ma nelle statistiche risulta ancora presente nel nostro paese…

Un’epidemia di assunzioni…
Peraltro, le «trappole» non riguardano solo i flussi migratori, cioè chi entra e chi esce dall’Italia: molti equivoci investono anche il lavoro dei migranti. Ad esempio, sapevate che il 10 Giugno 2002 più di 700mila famiglie hanno assunto domestici, domestiche e assistenti familiari straniere (le cosiddette “badanti”)? E che il 9 Maggio 2012 è successa più o meno la stessa cosa, cioè una specie di epidemia in cui ben 135mila datori di lavoro hanno assunto – tutti insieme, lo stesso giorno – altrettanti lavoratori stranieri?

Perché proprio il 10 Giugno 2002, e il 9 Maggio 2012? Come è potuto accadere che centinaia di migliaia di datori di lavoro abbiano fatto tutti la stessa cosa, nella medesima giornata? La risposta è abbastanza semplice: in entrambi i casi era iniziata una regolarizzazione. Potevano ottenere un permesso di soggiorno solo i lavoratori stranieri assunti almeno tre mesi prima dell’entrata in vigore della relativa legge: cioè, rispettivamente, il 10 Giugno 2002 e il 9 Maggio 2012. Per l’appunto.

Nessuna epidemia, dunque. E nessuna assunzione in massa di lavoratori irregolari. In molti casi, quei lavoratori erano stati assunti prima delle fatidiche date. Oppure non erano stati mai davvero presi a lavorare: semplicemente, bisognava presentare una domanda di sanatoria, e dichiarare di aver impiegato un lavoratore a partire da un giorno preciso…

Poi ci sono le statistiche sulle partite IVA degli immigrati, o sui lavoratori domestici stranieri: ne abbiamo già parlato su questo giornale. Sembra che gli stranieri siano diventati tutti imprenditori, o tutti domestici. E invece si tratta di escamotage per rinnovare il permesso di soggiorno: uno ha perso il lavoro, e per questo rischia di diventare irregolare. E allora apre una partita IVA, o trova una famiglia che lo assume «per finta», diciamo così.

Statistiche criminali (in tutti i sensi…)
Ma le «cantonate» più grosse si prendono con le statistiche criminali, quelle che registrano i reati. Sono in molti a chiedersi se i migranti «delinquano» di più rispetto agli italiani. Come si fa a scoprirlo? Semplice: gli archivi di polizia registrano tutte le denunce presentate in un determinato arco di tempo. Basta accedere a quegli archivi, e verificare se i denunciati stranieri sono di più, o di meno, rispetto agli italiani.

Già. E tuttavia, la faccenda non è così «liscia». In primo luogo perché – lo abbiamo detto – gli archivi di polizia registrano le denunce: ma non tutte le denunce portano alla condanna e, all’inverso, non tutti i reati vengono effettivamente denunciati.

Ma non c’è solo questo. Il problema più grosso – dicono gli esperti – sta nella differenza tra reati ad autore noto e quelli ad autore ignoto. Facciamo un esempio per capirci: torno a casa, e scopro che qualcuno mi ha svaligiato l’appartamento mentre ero assente. Ovviamente corro dai carabinieri a segnalare la cosa: però non ho idea di chi possa essere il ladro, e dunque sporgo una denuncia «contro ignoti», come si dice.

Ecco, giusto per dare un dato emblematico: le denunce «contro ignoti» per il reato di furto sono più del 95% del totale [vedi fascicolo ISTAT con dati 2012, pag. 7]. Questo significa che i calcoli sui denunciati stranieri, in rapporto agli italiani, sono fatti prendendo in considerazione il 5% dei reati. Per spiegarci ancora meglio: se mi dicono che un furto su due è compiuto da cittadini stranieri, vuol dire che i migranti sono «colpevoli» del 2,5% dei furti totali. Un po’ poco, no?

Tutto questo cosa significa? Che le statistiche sull’immigrazione sono false e ingannevoli? Che raccontano solo bugie? No di certo. Al contrario, sono uno strumento prezioso per capire i fenomeni. Solo che vanno prese con la dovuta cautela: perché hanno i loro limiti, e non sono un vangelo. Tutto qui.

Sergio Bontempelli, 6 Aprile 2015

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