Diritti dei migranti e antirazzismo

Categoria: La Città Invisibile

Migranti, il «flop» del Governo Meloni sull’Albania

Articolo originariamente pubblicato in «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», 28 Ottobre 2024

Il trattenimento/detenzione dei migranti in Albania ha rappresentato, per il governo Meloni, un gigantesco flop. Non è detto, beninteso, che questo «fiasco» abbia delle conseguenze sul consenso popolare all’esecutivo: in un’epoca dominata dai social network, gli orientamenti dell’opinione pubblica sono condizionati più dalla propaganda che dal confronto con la realtà. Resta il fatto che, almeno sul piano del governo effettivo dei fenomeni migratori, tutta l’operazione Albania si è rivelata disastrosamente fallimentare.

La vicenda ha occupato per diversi giorni le prime pagine dei giornali, ed è stata raccontata ampiamente da tutti gli organi di informazione. Se la ripercorriamo qui, è soprattutto per illustrarne gli aspetti più tecnici (quelli che magari sono sfuggiti ai «non addetti ai lavori») e per spiegare il significato di alcuni termini – «Paesi sicuri», «procedure accelerate», ecc. – che possono risultare poco chiari.

Il contesto: la «guerra all’asilo»

La prima cosa da sapere è che l’accordo con l’Albania non riguarda «i migranti» genericamente intesi, ma solo coloro che si presentano alla frontiera e chiedono asilo politico. Non è un dettaglio di poco conto, perché nella stragrande maggioranza dei casi i cittadini stranieri arrivano in Italia con un regolare visto di ingresso, e chiedono un permesso di soggiorno per lavoro, per studio o per motivi familiari (se hanno un parente che già risiede sul territorio): questi cittadini stranieri, impropriamente definiti «migranti economici», non sono in alcun modo toccati dalle norme sulla deportazione in Albania.

L’accordo con il Paese delle Aquile riguarda solo coloro che fuggono dalle loro terre di origine per sottrarsi alle violenze, alle persecuzioni, alle guerre o alle violazioni dei diritti umani, e che per questo chiedono «protezione» all’Italia: la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, le norme europee e la stessa Carta Costituzionale consentono allo straniero di arrivare alla frontiera anche senza un visto di ingresso – dunque in modo formalmente irregolare – allo scopo di presentare domanda di asilo.

Negli ultimi anni i governi europei, decisi a bloccare a qualsiasi costo i fenomeni migratori, hanno introdotto pesanti restrizioni alla possibilità di chiedere e ottenere asilo: hanno così vanificato (o cercato di vanificare) un diritto fondamentale, riconosciuto da tutte le Costituzioni dei Paesi democratici. E ciò – sia detto per inciso – dovrebbe farci riflettere sul carattere potenzialmente eversivo delle politiche migratorie restrizioniste: che stanno rimettendo in discussione i fondamenti stessi dello stato di diritto.

Per legittimare la loro «guerra all’asilo», tanto i governi di centro-destra quanto quelli di centro-sinistra hanno agitato spesso lo spettro del «falso rifugiato»: hanno sostenuto cioè che gli stranieri che si presentano alle frontiere non sono davvero perseguitati, ma vogliono semplicemente venire a lavorare in Europa; sono dunque «migranti economici» che chiedono asilo al solo scopo di ottenere un permesso di soggiorno.

Si tratta di una grossolana mistificazione, per almeno due motivi. In primo luogo, perché i profughi che viaggiano lungo le rotte mediterranee provengono quasi sempre da zone in cui vi sono conflitti, guerre civili e governi autocratici: si pensi ai Paesi dell’Africa Occidentale, all’Egitto, alla Siria o al Pakistan, solo per citare gli esempi più noti. In secondo luogo, perché le stesse categorie di «rifugiato» e «migrante economico» non sono affatto incompatibili tra loro: chi fugge dalle persecuzioni cerca anche una vita migliore e – d’altra parte – la povertà e le misere condizioni in cui vivono ampie fasce di popolazione in alcune parti del mondo sono anche il frutto di politiche autoritarie e discriminatorie. Per coloro che emigrano in Europa, insomma, il confine tra le motivazioni «economiche» e quelle «politiche» è sempre molto labile.

Procedure accelerate e «Paesi sicuri»

Per i governi europei, però, l’obiettivo prioritario è «smascherare» le domande di asilo ritenute «false»: quelle, cioè, presentate da persone che non sarebbero realmente perseguitate nei loro Paesi di origine. Il sospetto ricade in particolare sugli stranieri che varcano in modo irregolare le frontiere esterne dell’Ue: nel loro caso, si dice, le domande di asilo sono un pretesto per sottrarsi al respingimento o all’espulsione.

Per contrastare questo uso asseritamente fraudolento della protezione internazionale l’Unione Europea ha introdotto delle procedure «accelerate», nelle quali la domanda di asilo viene valutata in tempi eccezionalmente brevi, e i richiedenti hanno scarse possibilità di presentare ricorsi ai tribunali. Per di più, in attesa della decisione sulla loro domanda gli stranieri rimangono detenuti in un centro di trattenimento, sorvegliati a vista dagli agenti di polizia: una condizione non proprio ideale per raccontare la propria storia, e per spiegare le ragioni della fuga dal Paese di origine.

In Italia, queste forme di esame «sbrigativo» delle richieste di protezione sono state introdotte dal decreto 142 del 2015, e sono state poi perfezionate dal cosiddetto «decreto Salvini» (d.l. n. 113/2018): secondo le norme attualmente in vigore, nel caso di procedura accelerata la Commissione (cioè l’organo preposto a valutare le domande di asilo) deve ascoltare il richiedente nel giro di sette giorni, e deve decidere nei successivi due giorni.

Tra coloro che possono essere sottoposti alla procedura accelerata vi sono gli stranieri che varcano irregolarmente le frontiere e che provengono da Paesi di origine ritenuti «sicuri». Nel linguaggio delle burocrazie Ue è definito «sicuro» un Paese in cui vige lo stato di diritto, in cui vi sono libere elezioni e in cui non si registrano forme gravi di discriminazione e di persecuzione. La logica è sempre quella del sospetto: chi viene da un Paese «sicuro» (cioè «sicuramente democratico») non può essere davvero un perseguitato politico; di conseguenza, la sua domanda di asilo deve essere considerata falsa e pretestuosa, salvo prova contraria. L’accordo con l’Albania riguarda proprio i richiedenti asilo provenienti da luoghi «sicuri»: sono loro i principali destinatari della detenzione amministrativa nel Paese delle Aquile.

I «Paesi sicuri»: in contrasto con la Convenzione di Ginevra

Le norme sui «Paesi sicuri» sono però in potenziale contrasto con la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Per rendersene conto basta dare un’occhiata al primo articolo di quella Convenzione: qui si dice che il termine «rifugiato» si applica «a chiunque [abbia] un giustificato timore di essere perseguitato». La parola «chiunque» non è stata messa a caso: chi ha scritto la Convenzione intendeva dire che la persecuzione può avvenire in tempo di guerra e in tempo di pace, in Stati dittatoriali così come in Paesi democratici, in aree culturalmente «arretrate» (o presunte tali) così come in territori «evoluti» e «civili». Dunque, per decidere sulla legittimità di una domanda di asilo, è necessario valutare sempre il singolo caso, la storia del richiedente, la vicenda specifica che ha vissuto. Nessun Paese è «sicuro» in senso assoluto, e selezionare i richiedenti sulla base della nazionalità è contrario allo spirito, se non proprio alla lettera, della Convenzione di Ginevra.

I legislatori europei lo sapevano e lo sanno molto bene, e infatti si sono in qualche «cautelati»: quando hanno approvato la Direttiva 2013/32/UE, hanno pensato bene di precisare che un Paese può essere considerato sicuro solo se «si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni (…) né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante». L’espressione «generalmente e costantemente» è chiarissima: un Paese è «sicuro» solo se si accerta che mai, in nessun caso, si verificano violazioni dei diritti umani. Ci torneremo tra un attimo.

Cosa hanno detto i giudici…

Il Tribunale di Roma, come noto, non ha autorizzato l’invio dei migranti in Albania, vanificando così tutta l’operazione predisposta dal Governo Meloni. E, come era prevedibile, il centro-destra ha gridato allo scandalo, accusando i giudici di aver scritto una sentenza tutta «politica». In realtà, se si leggono i provvedimenti dei magistrati ci si accorge che non c’è nulla di politico: la decisione di non autorizzare i trattenimenti è stata presa sulla base delle normative europee che abbiamo descritto sommariamente qui sopra.

I migranti che dovevano essere condotti nei centri di detenzione albanesi provenivano dall’Egitto e dalla Tunisia: analizzando i report predisposti dal Ministero degli Esteri, il Tribunale di Roma ha concluso che questi due Paesi non possono considerarsi «sicuri» ai sensi del diritto Ue. Nel caso dell’Egitto, è stata la stessa Farnesina a sostenere che i diritti umani sarebbero garantiti (!) «ma con eccezioni per alcune categorie di persone: oppositori politici, dissidenti, difensori dei diritti umani» (il caso Regeni dovrebbe dirci qualcosa…). Quanto al Bangladesh, sempre il Ministero degli Esteri ha parlato di Paese sicuro ma, di nuovo, «con eccezioni per alcune categorie di persone: appartenenti alle comunità LGBTQ+, vittime di violenza di genere, minoranze etniche e religiose, accusati di crimini politici, condannati a morte, sfollati climatici». E se ci sono queste «eccezioni», non si può dire che i diritti umani sono «generalmente e costantemente» rispettati. Dunque, il Paese di origine non può essere «sicuro». Elementare.

…e come ha risposto il Governo

Il Governo Meloni ha emanato proprio in questi giorni il decreto legge n. 158 del 2024, con l’intenzione di «superare» le obiezioni dei magistrati. Tutta la faccenda sta a metà strada tra il comico e il grottesco perché, diversamente da quanto ha affermato il Ministro della Giustizia Nordio, il decreto risponde a obiezioni che i giudici non hanno sollevato affatto…

La norma, che ora andrà alla Camera per la conversione, si limita infatti a introdurre in una vera e propria legge quella lista dei Paesi «sicuri», che fino ad ora era contenuta in un semplice decreto ministeriale (dunque in una fonte secondaria). Così, dicono Nordio and company, i giudici dovranno applicare la legge, e non potranno più rifiutarsi di convalidare i trattenimenti in Albania.

Per i magistrati, però, il problema era tutt’altro. L’inserimento del Bangladesh e dell’Egitto nella lista dei Paesi sicuri era illegittima non perché era affidata a una fonte del diritto secondaria, ma perché era in contrasto con le norme dell’Unione Europea. E quando una legge italiana è in contrasto con le norme Ue, si applicano le norme Ue e non la legge nazionale: quest’ultima, per usare un termine tecnico, va semplicemente «disapplicata». Questo lo sanno (o lo dovrebbero sapere) tutti gli operatori del diritto: gli studenti di Giurisprudenza, per dirne una, lo imparano già nel primo anno di studi. Che i Ministri della Repubblica e i loro uffici legali non lo abbiano ancora capito, o fingano di non capirlo, è un grave sintomo della piega eversiva che sta prendendo la politica italiana.

Il ddl sicurezza e i migranti

Articolo originariamente pubblicato in «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze»

Il 18 Settembre 2024 la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge AC 1660; il testo è stato poi trasmesso all’altro ramo del Parlamento, dove è diventato l’Atto Senato n. 1236. Si tratta dell’ennesimo provvedimento sulla «sicurezza», dopo quello del Governo Prodi (2007), e quelli dei Ministri Maroni (2009), Minniti (2017) e Salvini (2018): evidentemente, la «sicurezza» è un genere giuridico-letterario che va per la maggiore nel nostro Paese. Sul fatto poi che norme del genere ci rendano davvero sicuri, è lecito avere più di un dubbio: anzi, proprio l’ossessiva reiterazione di leggi, decreti o «pacchetti» dedicati al tema è una spia dell’inefficacia (o dell’inutilità) delle disposizioni via via emanate.

Quanto al testo in discussione alle Camere, sarebbe forse più corretto parlare di legge «insicurezza»: perché, come è stato scritto, lo scopo principale del ddl sembra quello di impedire la libera manifestazione delle opinioni. Tra norme «anti-Gandhi» (che vietano il blocco stradale, anche pacifico) e provvedimenti contro le occupazioni di case sfitte, tutto sembra pensato per zittire il dissenso, e per fare in modo che il governo di turno possa agire al riparo da qualunque opposizione sociale. Basta guardare alla storia del Novecento per capire che un potere svincolato dal controllo dei cittadini è un potente fattore di insicurezza per tutti (o quasi tutti).

Qui, però, non analizziamo l’intero provvedimento, con le sue numerose disposizioni sui temi più disparati, dal terrorismo alla cannabis light, dall’occupazione «arbitraria» (!) di immobili al contrasto alla criminalità organizzata, dall’accattonaggio alle vittime dell’usura. Ci limitiamo invece a riassumere, in modo necessariamente sintetico, la parte che riguarda l’immigrazione e i diritti dei migranti: un tema che stavolta – a differenza di quanto era accaduto con le precedenti norme sulla «sicurezza» – occupa una posizione di secondo piano, nel senso che compare in non più di quattro o cinque articoli (sui trentotto totali di cui si compone il ddl). Sembra quasi che le misure punitive e restrittive, che per anni hanno avuto come bersaglio privilegiato «gli altri» (i migranti e i richiedenti asilo venuti da altrove), adesso siano rivolte a noi, proprio a «noi», ai cittadini e ai lavoratori italiani. E anche questa, in fondo, è una storia vecchia: da sempre le varie forme di ostilità contro i presunti «diversi» (prima gli ebrei, poi gli «zingari», poi ancora gli «extracomunitari», adesso i profughi e i richiedenti asilo) nascondono una profonda diffidenza nei confronti delle classi popolari, «autoctone» o «forestiere» che siano. Ma non divaghiamo, e veniamo a noi.

Migranti senza telefono

La norma che ha fatto più discutere, e che ha suscitato più scandalo, è contenuta nell’articolo 32 del disegno di legge: secondo questa disposizione, al momento di vendere una sim card le compagnie telefoniche sono obbligate non solo a identificare l’acquirente, ma anche a chiedergli il permesso di soggiorno se si tratta di un cittadino straniero. In questo modo, l’immigrato irregolare non potrà più avere una scheda telefonica propria, e dunque non potrà più chiamare i propri familiari al Paese di origine, né mettersi in contatto con un avvocato se ha problemi legali, e neppure rivolgersi al Pronto Soccorso se ha avuto un incidente o un malore improvviso.

Si tratta di una norma crudele, e tra l’altro priva di una finalità ragionevole e riconoscibile. Cosa si vuole ottenere infatti, impedendo ai migranti di usare il telefono? Si teme forse che lo straniero terrorista possa mettersi in contatto con i suoi complici, e così preparare un attentato o piazzare una bomba da qualche parte? Se questo fosse lo scopo, il governo avrebbe scelto un’arma decisamente spuntata: non è difficile capire che un’organizzazione criminale potrebbe facilmente aggirare il divieto, ad esempio intestando la scheda telefonica a un’altra persona. In ogni caso, non è dato sapere quale sia il reale obiettivo della norma: nel corso del dibattito parlamentare un deputato dell’opposizione (Riccardo Magi di +Europa) ha chiesto al governo un chiarimento in proposito, ma l’Esecutivo non ha risposto, e i parlamentari della maggioranza sono rimasti in religioso silenzio. Bontà loro.

Come spesso accade, poi, la conclamata «cattiveria» delle politiche securitarie si accompagna alla proverbiale incompetenza (e ignoranza) dei leader del centro-destra e dei loro consulenti tecnici: e così, anche stavolta la norma partorita dal furore repressivo del governo Meloni è stata scritta male, fa acqua da tutte le parti, ed è destinata ad avere effetti ben diversi da quelli auspicati dallo stesso governo, e dalla sua maggioranza. Tanto per fare un esempio, secondo le leggi vigenti non sono soltanto gli immigrati «clandestini» a non avere un permesso di soggiorno in tasca: un turista inglese bianco e benestante può entrare in Italia e rimanervi per tre mesi, e non deve chiedere alcun permesso; per i turisti, infatti, il visto sul passaporto è un documento sufficiente per soggiornare legalmente sul territorio. Le compagnie telefoniche dovranno negare anche a questo facoltoso cittadino britannico la possibilità di avere una scheda sim? O dovranno assumere un esperto di diritto dell’immigrazione, che spieghi loro che un visto, in alcune circostanze, ha lo stesso valore di un permesso di soggiorno? Sicuramente Giorgia Meloni, fresca di un cordiale incontro con il premier d’Oltremanica Keir Starmer, non aveva previsto questo sgradevole effetto collaterale.

Bisogna però precisare un punto importante, che nel dibattito di questi giorni è rimasto completamente in ombra: la norma sulle schede telefoniche, indubbiamente odiosa, è però nuova solo in parte: già oggi molte compagnie telefoniche, al momento di vendere una sim, chiedono al cliente il codice fiscale, e il codice fiscale (secondo le linee-guida interne dell’Agenzia delle Entrate) viene rilasciato solo allo straniero regolare.

In qualche modo, dunque, il divieto che si vorrebbe introdurre ex novo esiste già: solo che è affidato non a una vera e propria legge, ma a un insieme di abitudini, di prassi consolidate, e anche di regolamenti amministrativi (ad esempio quello dell’Agcom, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). Questo dovrebbe far riflettere soprattutto le forze del centro-sinistra, che per decenni hanno avallato, e talora attivamente promosso, pratiche di esclusione fondate sul principio «senza permesso di soggiorno, nessun diritto». Bisognerebbe invece ribadire una volta di più che i diritti fondamentali andrebbero definitivamente svincolati dalla regolarità della permanenza in Italia.

Una norma «anti-Gandhi»: sulle «rivolte» nei Centri per migranti

Un’altra disposizione su cui vale la pena soffermarci è quella contenuta nell’articolo 27 del ddl, che introduce il nuovo reato di «rivolta» all’interno di un Cpr (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) o di un centro di accoglienza. La norma dice che chiunque, trovandosi in uno di questi «centri», «partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti» è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

Due punti vanno qui evidenziati. In primo luogo il testo mette nello stesso «calderone» le proteste violente, condotte magari con armi improprie e con la volontà di procurare danni alle persone, e gli atti di disobbedienza finalizzati a contestare in modo pacifico i comportamenti illegittimi degli agenti di custodia, degli operatori delle forze dell’ordine o dei dipendenti dell’ente gestore. Poche righe dopo, si precisa infatti che sono ugualmente punibili «le condotte di resistenza passiva che (…) impediscono il compimento degli atti del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». La resistenza passiva, tecnica nonviolenta per eccellenza, resa celebre da Gandhi e da Martin Luther King, viene dunque equiparata all’insurrezione manu militari.

In secondo luogo, dobbiamo ricordare che stiamo parlando di «rivolte» non in luoghi qualsiasi, ma all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, cioè nelle strutture che «servono» (si fa per dire) a trattenere gli stranieri irregolari in attesa di espulsione: come abbiamo spiegato più volte in questo stesso giornale (ad esempio qui e qui), i Cpr sono spazi detentivi di dubbia legittimità costituzionale, sottratti ai normali controlli propri del circuito penitenziario, e di fatto inaccessibili ai giornalisti, agli avvocati e – in qualche caso – persino ai parlamentari. In strutture di questo genere, dove si consumano ogni giorno gravissime violazioni dei diritti umani, la «rivolta» è l’unico strumento che gli internati hanno per far sentire la loro voce, per sollecitare l’intervento della giustizia, per segnalare abusi e violenze fisiche che altrimenti passerebbero sotto silenzio. Invece di interrogarsi sulla legittimità, e persino sull’efficacia, della detenzione amministrativa per i migranti, il Governo inasprisce le misure penali, e in questo modo non fa altro che incrementare il clima di violenza che si respira quotidianamente nei «Centri».

Tra l’altro, il reato di «rivolta» e di «disobbedienza civile» verrà applicato non solo nei Cpr ma anche nei centri di accoglienza, quelli che servono non per eseguire le espulsioni ma per favorire (almeno in teoria) l’inserimento sociale dei richiedenti asilo appena arrivati. Presi spesso (non sempre) in gestione da cooperative o pseudo-associazioni interessate solo a «fare cassa» sulla pelle dei migranti, amministrati da Prefetture che non sanno (e a volte non vogliono) garantire standard dignitosi di ospitalità, i centri di accoglienza territoriale sono attraversati non di rado da tensioni e conflitti tra operatori e persone accolte.

A differenza di quel che accade nei Cpr, però, queste tensioni e questi conflitti sono facilmente risolvibili: come abbiamo cercato di spiegare io e Giuseppe Faso nel nostro Manuale dell’Accoglienza, la professionalità dell’operatore consiste proprio nella capacità di ascoltare i bisogni degli ospiti, istituendo un dialogo quotidiano con loro. Introdurre il reato di «mancata esecuzione degli ordini impartiti» significa vanificare questa professionalità e trasformare l’operatore in un guardiano: la denuncia alla Procura per «inottemperanza agli ordini» si sostituisce così al paziente lavoro di relazione.

La revoca della cittadinanza

Ci soffermiamo infine su un’altra disposizione, introdotta dall’articolo 9 del ddl, che tratta delle ipotesi di revoca della cittadinanza. Il decreto Salvini del 2018 aveva già previsto che lo straniero, dopo aver acquisito la nazionalità italiana (si badi bene: la nazionalità italiana, non il semplice permesso di soggiorno), poteva perderla in caso di condanna definitiva per reati di terrorismo ed eversione. Si trattava, già allora, di una norma di dubbia legittimità, perché si applicava non a tutti i cittadini indistintamente, ma solo agli stranieri che erano diventati italiani. Si istituiva così una vera e propria discriminazione, vietata esplicitamente dalla nostra Carta Costituzionale (che come noto dice, all’art. 3, che «tutti i cittadini (…) sono eguali davanti alla legge»).

Il ddl sicurezza introduce un piccolo «correttivo»: prevede che si possa procedere alla revoca della nazionalità solo a condizione che la persona condannata «possieda un’altra cittadinanza» oppure – e qui c’è un passaggio importante su cui dobbiamo soffermarci – «possa acquisire un’altra cittadinanza». Il senso è chiaro: non è possibile togliere la nazionalità italiana a un individuo che in questo modo diventerebbe un non-cittadino, un cittadino di nessun Paese (in termini tecnici, un «apolide»).

Pur non cancellando l’obbrobrio partorito anni fa dal decreto Salvini, non c’è dubbio che qui il ddl fa un piccolo passo avanti. Ma, come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli. La norma, come abbiamo visto, dice che la nazionalità italiana si può revocare solo se l’interessato «possiede un’altra cittadinanza», oppure se «può acquisirne un’altra». Ma che significa «può acquisirne un’altra»? Per stabilire se una persona «può acquisire» la cittadinanza di un altro Paese, bisogna conoscere le leggi di altri Paesi, e le Prefetture non hanno – mediamente – queste competenze internazionali. E che succede se poi l’interessato, pur potendo in astratto acquisire una cittadinanza, non riesce all’atto pratico ad acquisirla? Come si vede, siamo di fronte – anche in questo caso – a norme mal concepite e mal formulate: buone più a placare i (presunti) furori dell’opinione pubblica, che a governare fenomeni complessi.

Sergio Bontempelli

Regione Toscana. La falsa novità sull”assistenza sanitaria ai “turisti” non UE

Articolo pubblicato in contemporanea sul sito della lista Una Città in Comune di Pisa, su La Città Invisibile di Firenze e su Cronache di ordinario razzismo, 2 Agosto 2024

«La stangata della Regione Toscana ai turisti: sanità a pagamento per i non europei»; «I turisti extra Ue pagheranno le spese sanitarie»; «Giani batte cassa ai turisti extra Ue». I titoli dei giornali di questi giorni annunciano un vero e proprio «giro di vite» imposto dalla Regione Toscana: i turisti stranieri – «finalmente», chiosano molti commentatori – pagheranno le spese sanitarie in caso di un eventuale ricovero, o in caso di un loro accesso al Pronto Soccorso.

A spiegare il senso di questa iniziativa interviene il Presidente della Regione Eugenio Giani: «Così come oggi, se [noi italiani] andiamo negli Stati Uniti, sappiamo che dobbiamo farci un’assicurazione sanitaria», si legge in una nota, «così è giusto che gli stranieri che vengono in Italia da un paese extraeuropeo facciano altrettanto, per un principio di reciprocità».

Prima di dividersi tra favorevoli e contrari, prima di gettarsi nelle consuete polemiche al vetriolo che invadono le bacheche di Facebook, i cittadini toscani devono sapere una cosa importante: questa iniziativa della Regione, almeno per come è stata presentata alla stampa, non è altro che fuffa. Vediamo perché.

Che i turisti extra-Ue debbano pagare le spese per le cure mediche è un principio già sancito da una legge dello Stato, emanata più di un decennio fa: il Decreto Interministeriale n. 850 dell’11 Maggio 2011 prevede che, per ottenere un visto turistico, lo straniero debba munirsi di un’assicurazione sanitaria. Peraltro questa norma del 2011 si limitava a modificare un precedente decreto del 2000 (Decreto del Ministro degli Affari Esteri 12 Luglio 2000) che diceva la stessa cosa, e ad applicare un provvedimento Ue del 2003 (Decisione del Consiglio del 22 Dicembre 2003) che già imponeva l’assicurazione sanitaria. Per farla breve: viene presentata come novità «rivoluzionaria» una norma che esiste da ben ventiquattro anni!

Gli uffici stampa della Regione devono essersene resi conto: e difatti nel loro comunicato lasciano intendere che, certo, la legge esiste già, ma non è molto applicata. Ma anche questa è un’informazione falsa: per poter entrare nel nostro Paese bisogna avere un visto di ingresso rilasciato dall’Ambasciata italiana, e l’Ambasciata non rilascia mai il visto se lo straniero non esibisce un’assicurazione sanitaria. Così dice la legge, così fanno le Ambasciate. Chiunque si occupi di queste cose potrà confermarlo.

C’è però un’eccezione, su cui vale la pena spendere quache parola perché è forse quella a cui alludono i (vaghi) comunicati della Regione: alcuni Paesi hanno stipulato speciali accordi con l’Italia, e questi accordi prevedono l’esenzione dal visto per soggiorni brevi. Significa, detto in parole povere, che il turista proveniente da uno di questi luoghi «fortunati» non deve chiedere il visto all’Ambasciata: può entrare direttamente in Italia, esibendo tutti i suoi documenti alla polizia di frontiera. Ed è vero che – per prassi, non per legge – in molti casi questi turisti «fortunati» vengono fatti entrare anche se non hanno un’assicurazione sanitaria. Di solito i Paesi «fortunati» sono quelli più ricchi, o quelli con cui il nostro Governo ha una relazione diplomatica privilegiata: tanto per fare qualche esempio, nell’elenco dei Paesi «esenti da visto» rientrano il Canada, gli Emirati Arabi Uniti, Israele, il Principato di Monaco, il Regno Unito o gli Stati Uniti.

Ora, che succede se uno di questi turisti «fortunati» non fa l’assicurazione sanitaria, ma riesce lo stesso a entrare in Italia e poi viene ricoverato in Ospedale? Succede, molto semplicemente, che il malcapitato è costretto a pagare di tasca propria tutte le spese per le cure ricevute. Quindi non si capisce bene dove stia la novità annunciata dalla Regione Toscana.

A meno che (e a pensar male, diceva un importante politico della Prima Repubblica, si fa peccato, ma di solito ci si indovina…) l’iniziativa di Giani non sia rivolta a un target particolare, mai nominato esplicitamente: il target dei cosiddetti «overstayers». Vediamo di spiegarci.

Nell’elenco dei Paesi «esenti da visto» non figurano soltanto le nazioni più ricche del pianeta (come gli Stati Uniti, per intenderci), ma anche qualche luogo di origine di importanti flussi migratori diretti verso l’Italia. Per fare degli esempi, sono esentati dal visto i cittadini della ex-Jugoslavia (cioè di Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Kosovo), di molti Paesi sudamericani e centro-americani (tra cui il Perù: e i peruviani sono una collettività importante in provincia di Firenze). Ugualmente esenti dal visto sono gli albanesi, il gruppo nazionale più numeroso (dopo i rumeni) tra gli immigrati residenti in Italia.

I cittadini di questi Paesi «di emigrazione» (chiamamoli così, per capirci) entrano in Italia formalmente come turisti, ma nei fatti sono emigranti: molti di loro, alla scadenza dei tre mesi (il limite temporale massimo per un soggiorno di natura «turistica») rimangono sul territorio nazionale, nella speranza di trovare un lavoro e una qualche forma di regolarizzazione. Purtroppo, la legge Bossi-Fini vieta di rilasciare un permesso di soggiorno a chi sia entrato come turista: quindi, questi stranieri hanno poche speranze di emersione. Si chiamano tecnicamente «overstayers»: cioè, migranti divenuti irregolari non perché hanno varcato la frontiera in modo «clandestino», ma perché si sono trattenuti sul territorio nazionale oltre i limiti consentiti.

Una norma del 2007 (Legge 28 maggio 2007, n. 68) obbliga tutti gli stranieri entrati per motivi di turismo a presentare, entro otto giorni dall’ingresso in Italia, una «dichiarazione di presenza», che di fatto possiamo considerare l’equivalente di un permesso di soggiorno. Gli «overstayers», per l’appunto, non fanno la dichiarazione di presenza, e diventano irregolari.

E qui arriviamo al punto: un immigrato «overstayer», proprio in quanto irregolare, avrebbe diritto alle cure mediche gratuite, come prevede l’articolo 35 del Testo Unico sull’Immigrazione. Già oggi, in Toscana e forse non solo in Toscana, ci sono molte difficoltà a rivendicare questo diritto: a molti cittadini stranieri – in particolare agli albanesi – viene richiesta l’assicurazione sanitaria, come se si trattasse di «turisti» e non di immigrati senza permesso di soggiorno. Secondo un’interpretazione della legge condivisa da molti uffici, infatti, lo straniero diventa irregolare alla scadenza dei tre mesi di soggiorno, e non dopo gli otto giorni della mancata dichiarazione di presenza. Sulla base di questo «cavillo», molti immigrati irregolari non hanno accesso alle cure mediche, o vengono obbligati a rimborsare integralmente i costi delle prestazioni ricevute.

Ecco allora il problema: non vorremmo che questa iniziativa della Regione Toscana finisse per «prendere di mira» non i turisti veri e propri, ma quella manciata di migranti (di solito poveri e privi di mezzi) che entrano formalmente come turisti, ma che tali non sono. Sarebbe un brutto scivolone. E ci piacerebbe che la Regione chiarisse almeno questo punto, per levarci ogni dubbio.

Sergio Bontempelli
Presidente di Africa Insieme

Migranti, la vergogna del Centro di Via Corelli

Originariamente pubblicato in «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», n. 207, 21 Dicembre 2023

Abbiamo già parlato, in questo stesso giornale, dei Centri per il Rimpatrio o Cpr, dove vengono trattenuti i migranti irregolari in attesa di espulsione. E ci siamo soffermati a lungo sulla natura «problematica» (per usare un tenue eufemismo) di questi «centri»: che sono a tutti gli effetti luoghi di detenzione, in cui però vengono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato. Strutture opache, estranee al normale circuito penitenziario e – soprattutto – contrarie ai principi più elementari di uno stato di diritto, i Cpr non possono che produrre abusi e violazioni sistematiche della dignità umana.

Ne è arrivata una conferma – l’ennesima – proprio in questi giorni, quando si è appreso che la Procura di Milano ha ordinato il sequestro del ramo d’azienda della Martinina Srl, la società che gestisce il Cpr di via Corelli, nel capoluogo lombardo. L’inchiesta, condotta dai procuratori Paolo Storari e Giovanna Cavalleri, ha fatto emergere gravi irregolarità nella gestione del centro, nell’erogazione del cibo e nel trattamento dei cittadini stranieri detenuti. L’intervento della magistratura, però, non sarebbe stato possibile senza il lavoro certosino di ricerca, documentazione e denuncia svolto nei mesi precedenti da alcune associazioni e realtà antirazziste, in particolare dal Naga, dall’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) e dalla Rete No Cpr. Sarà bene dunque riavvolgere il nastro e raccontare tutta questa storia dall’inizio.

Le inchieste delle associazioni e del Garante

Le condizioni indegne in cui versa la struttura di Via Corelli sono note ormai da diversi anni. Nel 2021, per esempio, la magistratura milanese era intervenuta – su ricorso presentato dai legali dell’Asgi – per vietare all’ente gestore il sequestro dei telefoni cellulari dei detenuti (una prassi contraria alla legge, ma abituale in quasi tutti i Cpr): con una ordinanza del 15 Marzo, i giudici avevano ribadito che gli stranieri «ospiti» non dovevano essere privati della libertà di comunicare con l’esterno. L’anno dopo, l’Asgi aveva pubblicato un lungo rapporto sulle condizioni del Centro, evidenziando gravi criticità: assistenza sanitaria insufficiente, visite mediche superficiali, mancato ricambio della biancheria e degli abiti, assenza di un servizio di mediazione linguistica.

Sollecitato da queste denunce, il «Garante dei diritti delle persone private della libertà personale» – l’autorità di vigilanza sulle carceri, istituita dalla legge 146 del 2013 – ha effettuato nel Febbraio 2023 una visita ispettiva nella struttura di Via Corelli. Nel rapporto pubblicato al termine della visita, il Garante ha segnalato problemi analoghi a quelli già evidenziati dall’Asgi: i detenuti erano costretti a dormire su materassi di gommapiuma usati e sporchi, i bagni erano privi di porte, l’assistenza sanitaria gravemente insufficiente. Nell’Ottobre di quest’anno è uscito poi il secondo rapporto dell’Asgi che, sulla base delle carenze già riscontrate dal Garante, chiedeva alla Prefettura di sanzionare l’ente gestore, revocando l’aggiudicazione dell’appalto per gravi violazioni degli obblighi contrattuali.

Dal «buco della serratura». Il rapporto del Naga

Ma l’attività di monitoraggio più ampia e dettagliata è stata promossa dal Naga, storica associazione milanese impegnata nella tutela dei diritti dei migranti. Dopo aver raccolto dati, testimonianze, cartelle cliniche e documenti di ogni tipo, e dopo aver effettuato diversi sopralluoghi nel Centro di Via Corelli – al termine, dunque, di una intensa «osservazione dal buco della serratura», come dicono gli attivisti dell’associazione – il Naga ha prodotto un dossier di più di duecento pagine, da cui emergono situazioni ancor più gravi rispetto a quelle constatate dal Garante.

Il punto forse più critico riguarda l’assistenza sanitaria e la tutela della salute delle persone trattenute. Il rapporto dimostra che le visite mediche preliminari – quelle che in teoria dovrebbero accertare l’idoneità al trattenimento – sono svolte in modo sommario, quasi sempre in presenza di poliziotti in divisa, e con semplici colloqui (cioè senza strumenti diagnostici né analisi di approfondimento). Le cose vanno ancor peggio nella seconda visita, quella immediatamente successiva all’ingresso nella struttura: «i neo arrivati», si legge nel Report del Naga, «vengono obbligati a fare flessioni per espellere eventuali oggetti nascosti nell’ano. Un trattamento umiliante dalla dubbia utilità pratica, stigmatizzato in infinite occasioni dai tribunali (…). Una volta spogliati della loro umanità, ai trattenuti viene assegnato un numero identificativo: il numero con il quale saranno chiamati, da allora, fino al giorno in cui usciranno di là, segnati per sempre. Senza voler scadere nella retorica o in scomodi collegamenti con il passato, evidentemente non così passato, lasciamo a chi legge ogni considerazione al riguardo».

Nel centro si fa un uso improprio degli psicofarmaci, che vengono somministrati in modo indiscriminato per evitare proteste e rivolte: gli «ospiti» vivono in uno stato di continua sedazione, che li spinge a dormire tutta la giornata.

I «moduli abitativi» – cioè le stanze dove dormono i detenuti – sono allestiti in modo da non garantire in alcun modo la privacy delle persone accolte. Gli ambienti sono gelidi in inverno e roventi in estate, le lenzuola sono di carta, spesso manca l’acqua calda nei bagni, e gli stranieri non dispongono di ricambi del vestiario. Il cibo arriva maleodorante e già scaduto, spesso i piatti sono pieni di vermi, e i migranti sono costretti a mangiare seduti su sedie di metallo inchiodate a terra.

Le cose non vanno meglio nelle aree comuni, quelle destinate alla socialità: «All’interno del CPR, il nulla totale», si legge ancora nel report. «Nessuna attività ricreativa, per quanto queste possano alleviare l’obbrobrio umano e giuridico di questo luogo: nessun libro da leggere, solo una Tv dietro una gabbia, posta in alto in un angolo della sala mensa (…). È vietato tenere penne e carta: le prime possono essere ingerite e la seconda adoperata per appiccare incendi. Questa è la giustificazione del gestore (…). Le attività ricreative, da capitolato, dovrebbero essere organizzate all’interno del CPR. Dovrebbe esserci una lista delle attività settimanali, esposta e accessibile. Così non è, malgrado l’Ente Gestore abbia vinto il bando anche grazie all’offerta di fantomatiche attività sportive e ricreative».

I rimpatri sono effettuati senza preavviso, spesso con abusi e violenze fisiche. «Arrivano di notte, i poliziotti, a immobilizzare il trattenuto con la forza, spesso mentre dorme. Oppure usano l’inganno. Mentono dicendo al trattenuto che deve andare in infermeria per una qualche terapia, e quando esce dalla cella di sua volontà gli si avventano addosso e lo infilano con la forza in qualche camionetta blindata, diretto in aeroporto, puntualmente legato (in violazione delle raccomandazioni del Garante Nazionale e delle convenzioni internazionali) (…). Le notizie che trapelano dal Cpr di Milano parlano anche di super iniezioni di valium applicate a trattenuti agitati, in fase di rimpatrio o durante il trasferimento in altri Cpr».

Dai mancati controlli della Prefettura all’inchiesta giudiziaria

Di fronte ad accuse così dettagliate e circostanziate la Prefettura, in quanto stazione appaltante responsabile del Centro, avrebbe dovuto intervenire. Dalle carte risulta in effetti che i funzionari prefettizi erano ben consapevoli di quanto stava accadendo, tanto che avevano inflitto una maxi-multa alla Martinina Srl, l’ente gestore del Cpr di Via Corelli. Tuttavia, il 13 Novembre scorso – proprio mentre irrogava la sanzione per gravi inadempimenti contrattuali – la Prefettura disponeva il rinnovo del contratto alla stessa Martinina per tutto l’anno 2024: una scelta irresponsabile e incomprensibile.

Agli inizi di Dicembre, come si accennava, è partita l’inchiesta giudiziaria coordinata dai Pm milanesi Paolo Storari e Giovanna Cavalleri. E dalle carte della Procura sono spuntate nuove rivelazioni. Una ex operatrice della Martinina srl, per esempio, ha raccontato numerosi abusi nella gestione quotidiana del centro: «Ricordo una volta che, poiché erano avanzate delle vaschette di pasta, erano state offerte a noi dipendenti. A me sembrava pasta con il gorgonzola, in quanto aveva un odore rancido, poi mi sono accorta invece che era pasta con le zucchine andata a male. Ho cercato di evitare che venisse mangiata dai trattenuti, ma non sono arrivata in tempo, 40 persone hanno avuto un’intossicazione alimentare. Quasi tutti i giorni il cibo era scaduto o avariato» (citato in Il Manifesto, 15 Dicembre 2023).

Via Corelli, dove tutto è cominciato

Di fronte a fatti così gravi, è difficile non ricordare che quello di Via Corelli è stato uno dei primi «Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza» (così si chiamavano in origine i Cpr) allestiti sul suolo italiano: venne aperto nel lontano 1999, subito dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano, e fu sin dall’inizio oggetto di inchieste giornalistiche e di denunce della società civile.

Il 19 Gennaio 2000 Fabrizio Gatti, un giornalista che all’epoca lavorava per il Corriere della Sera, pubblicò un ampio reportage sulle condizioni inumane in cui erano trattenuti i migranti in Via Corelli. Gatti si era fatto passare per cittadino rumeno (all’epoca la Romania non faceva ancora parte della Ue, e i rumeni erano ancora «extracomunitari» passibili di espulsione), e si era fatto internare proprio nel centro di detenzione del capoluogo lombardo.

L’inchiesta di Gatti risale a venti anni fa, ma molte cose sono simili a quelle di oggi: «I pasti, precotti, sono serviti in contenitori di plastica scaldati in un forno elettrico. La puzza di urina è come uno schiaffo. Colpa di chi ha progettato i container: la latrina è talmente piccola che per chiudere la porta bisogna mettere i piedi dentro la turca. Quando si esce, le suole distribuiscono sul pavimento il liquame raccolto. Anche perché questi container li hanno sì presi dalle zone terremotate: ma da quelle dell’Irpinia, 20 anni fa, come indicano le etichette sopra gli ingressi (…). Si passeggia su e giù come i leoni nello zoo. La grande gabbia è lunga 135 passi e larga 70 (…). Due dei tre telefoni a scheda non funzionano. Il distributore di schede telefoniche è fuori servizio e anche quello delle monete»

In venti anni, la realtà di Via Corelli è diventata sempre più inumana, sempre più degradante, sempre più costosa per l’erario e per i contribuenti. In venti anni le cose sono solo peggiorate, sia con i governi di centro-sinistra che con quelli di centro-destra. Dal nostro punto di vista, è l’ennesima dimostrazione di come i Cpr non si possano riformare, migliorare o «umanizzare». La soluzione migliore – per i migranti, e per la tenuta della nostra democrazia – è una sola: chiuderli. Tutti.

Sergio Bontempelli

Migranti, accoglienza nel caos: ecco cosa sta succedendo

Originariamente pubblicato in «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», 5 Settembre 2023

La «questione migranti» torna ad occupare le prime pagine dei giornali e le homepage dei siti di news, con gli arrivi via mare descritti come un fenomeno «fuori controllo». Secondo il Cruscotto statistico giornaliero del Ministero dell’Interno, alla data del 1 Settembre erano sbarcati sulle coste del nostro Paese circa 115mila migranti, quasi il doppio rispetto alla stessa data dello scorso anno (59mila persone), e quasi il triplo rispetto al medesimo periodo del 2021 (40mila persone).

Intanto la macchina dell’accoglienza, messa sotto pressione da questi sbarchi «inattesi» (o presunti tali), è andata nel caos. Per rendersene conto basta guardare a quel che sta accadendo nella nostra regione: a Firenze la Prefettura, nel tentativo disperato di reperire dei posti dove ospitare i nuovi arrivati, ha balenato l’ipotesi di utilizzare le palestre delle scuole cittadine; a Vicchio, nel Mugello, i migranti sono stati sistemati temporaneamente nelle tende, quasi fossero vittime di un terremoto o di una catastrofe improvvisa; a Pisa, sempre in un clima di emergenza, si è pensato di ammassare i minori non accompagnati in una struttura ben nascosta all’interno del Parco di San Rossore (lo ha denunciato pochi giorni fa la lista di sinistra sociale «Una Città in Comune»). Un po’ ovunque, in Toscana e non solo, si cercano soluzioni temporanee a un problema che sembra aver colto di sorpresa le istituzioni: in alcune città si sta pensando addirittura di allestire delle tensostrutture.

Esiste davvero una «emergenza»?

In questo clima di allarme, è bene chiarire subito una cosa: dal punto di vista dei numeri, non esiste nessuna «emergenza migranti». In primo luogo perché, se è vero che sono aumentati gli arrivi via mare, è anche vero che ciò avviene in un contesto complessivo di stabilizzazione dei fenomeni migratori: se si considera l’immigrazione nel suo complesso – se cioè si guarda non solo ai cosiddetti «sbarchi», ma anche ai flussi di lavoratori provenienti dall’Est Europa, dall’Asia o dall’America Latina, agli arrivi di studenti dall’estero, ai ricongiungimenti familiari, alle migrazioni stagionali o a quelle di lavoratori qualificati – si scopre che la presenza straniera nel nostro Paese è ormai stabile da diversi anni.

In secondo luogo, perché anche i nuovi arrivi via mare erano ampiamente prevedibili: così prevedibili che erano stati previsti. Ecco cosa si leggeva, ad esempio, in una pubblicazione del Parlamento italiano uscita alla fine del 2022. «Le dinamiche migratorie di oggi dipendono (…) da sviluppi politici, economici e demografici che riguardano vaste regioni dell’Africa e dell’Asia. In alcuni casi, conflitti armati e cambiamenti climatici stanno contribuendo al movimento di profughi e i numeri sembrano destinati ad aumentare (…). Nei mesi scorsi, per esempio, la Tunisia ha superato la Libia per il numero settimanale di sbarchi in Italia. L’Algeria sta diventando un altro importante paese di transito» [Senato della Repubblica – Camera dei Deputati – Ministero degli Affari Esteri, Osservatorio di Politica Internazionale, Libia: recenti sviluppi e prospettive, Roma 2022, pag. 13].

Nel Marzo di quest’anno persino la premier Giorgia Meloni, commentando la crisi politica in Tunisia, aveva evocato – con i suoi consueti toni apocalittici – il rischio di «un’ondata migratoria senza precedenti» dal piccolo Paese nordafricano. Insomma, che in Estate si sarebbero intensificati gli arrivi di migranti via mare lo sapevano tutti, ma proprio tutti: lo sapevano gli studiosi più attenti, lo sapevano i commentatori dei giornali «mainstream» (Il Messaggero, per fare un esempio, ne aveva parlato già alla fine di Marzo), lo sapevano i ministri e le ministre del governo attualmente in carica.

E cosa ha fatto l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, per attrezzarsi a gestire questo prevedibilissimo incremento degli arrivi? Si potrebbe dire che non ha fatto nulla, ma sarebbe una risposta inesatta. In realtà il governo ha fatto molte cose: il problema è che queste «cose» sono tutte sbagliate, fallimentari, destinate a creare un problema dove il problema non c’era. Vediamo meglio.

L’accoglienza in Italia

Per capire di cosa stiamo parlando, bisogna sapere che in Italia esistono due distinti «sistemi di accoglienza», cioè due diverse reti di strutture e centri destinati ad ospitare i migranti, a fornir loro un posto letto e alcuni servizi essenziali.

Il primo è il cosiddetto «Sai» (acronimo di Sistema di Accoglienza e Integrazione), ed è l’insieme dei centri gestiti dai Comuni, sotto il coordinamento dell’Anci e del Ministero dell’Interno: è il sistema più «antico» ed è anche quello meglio attrezzato, nel senso che non si limita alla semplice «ospitalità» (vitto e alloggio), ma prevede percorsi di inserimento sociale, di avviamento al lavoro e di progressiva autonomizzazione delle persone accolte.

Il secondo, il sistema «Cas» (Centri di Accoglienza Straordinaria), è l’insieme dei «centri» gestiti dalle Prefetture. I Cas erano nati negli anni immediatamente successivi alle Primavere arabe del 2011, in una stagione «straordinaria» di sbarchi, quando le strutture Sai (che all’epoca si chiamavano «Sprar») erano piene e non potevano far fronte all’emergenza. In origine dovevano essere strutture temporanee, e per questo i servizi che offrivano ai loro ospiti erano più scarni, di solito limitati al vitto, all’alloggio e ai corsi di italiano. Poi, come spesso accade nel nostro Paese, quello che doveva essere un sistema temporaneo è diventato definitivo, e oggi gran parte dei migranti sono accolti proprio nei Cas, e non nei Sai.

La (dis)organizzazione dell’accoglienza

Il Governo, si diceva, ha inanellato una serie di azioni fallimentari, per non dire disastrose. In primo luogo, con il famigerato «Decreto Cutro» del 10 Marzo scorso, ha vietato alle persone appena sbarcate in Italia l’accesso al sistema Sai: con le nuove norme, infatti, possono entrare in un centro Sai soltanto gli stranieri che si sono visti riconoscere la loro domanda di asilo; chi è ancora in attesa della decisione delle autorità competenti può entrare solo in un Cas. Una mossa non proprio astuta, perché quando – in piena Estate – si sono moltiplicati gli sbarchi, in molte città si è verificato il paradosso di strutture Cas piene fino all’inverosimile e di centri Sai dove invece erano ancora disponibili dei posti: posti che però non potevano essere occupati dai richiedenti asilo appena giunti nel nostro Paese…

La seconda «mossa» disastrosa risale a qualche anno addietro, quando l’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini decise di ridurre i costi di gestione dei Cas: dopo le polemiche pretestuose contro i presunti 35 euro al giorno «regalati» ai migranti (cifra che in realtà andava quasi interamente agli enti gestori dei centri di accoglienza), Salvini decise di tagliare drasticamente le spese a carico dello Stato.

Così, nelle gare di appalto indette dalle Prefetture (quelle che servono per selezionare le associazioni o le cooperative più idonee a gestire un centro Cas), la quota giornaliera erogata dagli enti pubblici è passata dai famosi 35 euro a circa 21 euro a persona. Con una cifra così bassa, molte cooperative si sono trovate nell’impossibilità di garantire servizi dignitosi, e di pagare il loro stesso personale. La conseguenza, largamente prevedibile, è che i bandi di gara per i Cas sono andati deserti, e molti centri di accoglienza che dovevano aprire non hanno mai aperto. Questa situazione si è aggravata proprio negli ultimi mesi, quando ci sarebbe stato più bisogno di posti liberi.

La terza «mossa» disastrosa è stata ancora una volta partorita dal «decreto Cutro»: invece di rafforzare il sistema di accoglienza nel suo complesso, il decreto puntava ad accelerare le espulsioni e gli allontanamenti dall’Italia. E infatti le risorse erano tutte dirottate nei Centri per il Rimpatrio o CPR, negli «hotspot» e nelle strutture di frontiera. Ora, a prescindere da considerazioni etiche o giuridico-costituzionali (è illegittimo rinviare ai loro Paesi di origine persone che fuggono da guerre e persecuzioni), l’idea di puntare tutto sui rimpatri era del tutto inadeguata in una situazione come quella attuale: le aree di provenienza o di transito dei migranti – Libia e Tunisia in primis – sono caratterizzate da una forte instabilità politica e da conflitti interni spesso sanguinosi. È perciò difficile pensare che i governi di quelle zone (che tra l’altro sono governi autoritari e liberticidi) possano garantire la riammissione dei migranti allontanati dall’Italia.

Sono queste scelte disastrose ad aver prodotto il collasso attuale del sistema di accoglienza: un collasso che non è dovuto al fenomeno migratorio in quanto tale, ma al modo in cui è stato ed è governato. Non c’è nessuna emergenza migranti, insomma: semmai, siamo di fronte all’emergenza governo.

Sergio Bontempelli

Immigrazione, un compleanno da (non) festeggiare

Articolo pubblicato su «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», n. 199, 19 Luglio 2023

Il 25 Luglio 1998 – esattamente venticinque anni fa – l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro emanava il «Testo Unico sull’Immigrazione», cioè la legge fondamentale che regolava e regola tuttora l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Italia. Nel linguaggio del diritto, si chiama «testo unico» un decreto che raccoglie, riordina e sistematizza tutte le norme in vigore relative a una specifica materia: nel nostro caso, il provvedimento del 1998 metteva insieme – per l’appunto – le leggi sull’immigrazione, la più importante delle quali era la cosiddetta Turco-Napolitano (legge 40/1998) approvata qualche mese prima sotto gli auspici di un governo di centro-sinistra.

 

Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti, e tante cose sono cambiate. Anche chi ha una conoscenza superficiale del tema sa che dopo la Turco-Napolitano è arrivata la Bossi-Fini (nel 2002), poi il “pacchetto sicurezza” di Maroni (2009), infine – in anni più vicini a noi – il decreto Minniti, il decreto Salvini e il recentissimo “decreto Cutro” (di cui abbiamo parlato in questo stesso giornale).

Meno noto è il fatto che tutte queste norme non hanno mai abrogato il Testo Unico, ma lo hanno via via modificato ed emendato: il che significa che, pur a fronte di cambiamenti anche molto rilevanti, l’impianto complessivo e l’approccio generale della normativa sull’immigrazione sono rimasti grosso modo quelli di allora. Per questo il “compleanno” che ricorre il 25 Luglio ha una sua importanza: le politiche migratorie nazionali – nate con il Testo Unico – sono arrivate alla maggiore età, oggi diventano compiutamente adulte, ed è arrivato il tempo dei bilanci.

Il binomio sicurezza-diritti

La filosofia di fondo della “Turco-Napolitano” – su cui come abbiamo visto si basava il Testo Unico nella sua versione originaria – era ben chiarita nella relazione introduttiva al disegno di legge. Secondo gli estensori della norma, se si volevano davvero garantire i diritti degli stranieri residenti bisognava limitare, arginare, contenere i flussi migratori diretti verso l’Italia: una presenza «eccessiva» avrebbe infatti «saturato» il mercato del lavoro, avrebbe innescato una pericolosa concorrenza con i lavoratori italiani e prodotto inevitabili reazioni di rigetto nell’opinione pubblica.

«Il fenomeno migratorio», si leggeva nella relazione presentata alle Camere, «non deve essere vanamente negato né fatalisticamente subito, ma contenuto e governato. Contenuto in misura sostenibile per il sistema economico e sociale italiano; governato nella sua composizione e nel suo impatto sulla convivenza civile (…). Non chiusure totali (…) ma nemmeno ammissioni indiscriminate». «Regole certe da far rispettare», e al contempo «diritti da riconoscere pienamente»: ecco il binomio su cui doveva basarsi una politica migratoria equilibrata, matura e moderna.

Sul fronte delle «regole», era necessario soprattutto limitare e arginare gli arrivi: l’Italia doveva accogliere non tutti i migranti, ma solo coloro che potevano entrare nel mondo del lavoro senza competere con i disoccupati italiani. Si sarebbero così evitate sia le «guerre tra poveri», produttrici di razzismi e intolleranze, sia gli afflussi incontrollati di individui senza lavoro, che potevano finire nei circuiti della criminalità di strada. Il governo era perciò chiamato a definire ogni anno con un proprio decreto – il cosiddetto «decreto flussi» – il numero massimo di lavoratori stranieri che l’Italia poteva ammettere sul proprio territorio. Le presenze irregolari, invece, non dovevano essere tollerate: la legge prevedeva l’espulsione, e persino la detenzione amministrativa per gli immigrati che dovevano essere espulsi (gli attuali «Centri per il Rimpatrio» – di cui abbiamo parlato in un precedente articolo – nacquero proprio con la Turco-Napolitano).

Sul versante dei diritti, la legge introduceva il principio della parità di trattamento tra lavoratori stranieri e lavoratori italiani, garantiva ai migranti l’accesso alle principali misure di welfare, e riconosceva alcune tutele anche agli irregolari: chi non aveva un permesso di soggiorno in tasca poteva accedere liberamente alle strutture sanitarie, poteva andare a scuola se era minorenne e chiamare un avvocato se era sottoposto a un’espulsione o a un procedimento penale.

Un equilibrio instabile

Fin qui ho cercato di riassumere le principali disposizioni dell’«originario» Testo Unico in modo piano, senza enfatizzazioni polemiche, aderendo il più possibile al linguaggio e allo stile argomentativo adottato dai suoi estensori. Raccontate così, le norme della Turco-Napolitano possono sembrare ragionevoli, equilibrate e persino innovative: non a caso, proposte come quella di «accogliere solo chi può essere integrato», o quella di «impedire la guerra fra poveri» pur senza «demonizzare i migranti» vengono periodicamente rilanciate da commentatori «di sinistra» tanto autorevoli quanto disinformati, ignari del fatto che le politiche migratorie italiane funzionano già così da ben venticinque anni.

Ho detto «funzionano così»: ma funzionano davvero? Queste scelte così «equilibrate» e «ragionevoli» hanno prodotto gli effetti desiderati? Qui la risposta non può che essere negativa. Le tanto temute «reazioni di rigetto» dell’opinione pubblica, per esempio, non sono affatto scomparse: i sondaggi d’opinione segnalano la persistente ostilità di molti cittadini italiani nei confronti degli immigrati, mentre sono aumentate notevolmente le discriminazioni e i crimini d’odio (come documentano i periodici Libri Bianchi curati da Lunaria). Evidentemente, il contenimento dei flussi non è un argine al dilagare del razzismo…

Ma c’è di più. Come abbiamo visto, nel corso degli anni si sono succedute varie leggi che hanno modificato ed emendato il Testo Unico: tutte queste (contro)riforme hanno pian piano scardinato gli aspetti più progressivi del provvedimento – quelli che riconoscevano diritti e tutele ai migranti – e hanno inasprito invece le misure repressive ed espulsive. In una sorta di spirale perversa, ogni norma di garanzia è stata percepita come un’indebita «concessione», se non addirittura come un «fattore attrattivo» per i flussi irregolari (secondo l’infausta, e infondata, teoria del «pull factor»).

Se la sicurezza «mangia» i diritti…

Si potrebbero citare un’infinità di casi di questo tipo. Un esempio tipico è quello del ricongiungimento familiare, cioè della procedura che consente ad un immigrato regolare di «chiamare» il coniuge e i figli minori ancora all’estero, allo scopo di vivere con loro. In origine il ricongiungimento era pensato come un diritto del lavoratore straniero. Poi, l’arrivo dei familiari dei migranti è stato percepito (erroneamente) come un fenomeno «incontrollabile», e si sono imposti requisiti sempre più restrittivi di reddito e di alloggio: il ricongiungimento ha cessato di fatto di essere un diritto, ed è divenuto un privilegio riservato a pochi stranieri economicamente benestanti.

O, ancora, pensiamo ai decreti flussi, che dovevano selezionare gli immigrati più utili e meritevoli. Ben presto, anche questo meccanismo è apparso troppo «generoso», e si sono imposte numerose limitazioni: niente più ingressi di lavoratori domestici o di operai generici, solo manodopera stagionale e temporanea, quote annuali ridotte al minimo o quasi azzerate, procedure sempre più complesse e farraginose, e così via. Oggi, il sistema delle «quote annuali» serve a chiudere ermeticamente le frontiere, più che a «governare» i fenomeni migratori.

Per farla breve, nel corso degli anni il tanto sbandierato equilibrio tra «diritti» e «regole» è saltato: le cosiddette «regole» (cioè le disposizioni più repressive) hanno finito per fagocitare e cancellare non solo i diritti degli immigrati già residenti, ma anche le opportunità di ingresso legale dei lavoratori stranieri.

L’introiezione della cultura securitaria

Forse l’errore sta proprio nel punto di partenza: nell’idea che i fenomeni migratori siano un «problema», e che quindi debbano essere limitati, arginati, contenuti, contingentati, tenuti sotto controllo. Perché – per dirla in modo schematico e un po’ brutale – se i migranti sono davvero fonte di potenziali pericoli, la scelta migliore sarà sempre quella di tenerli lontani dalle nostre frontiere: farne entrare solo pochi e ben selezionati rischia di apparire, nel lungo periodo, non come una soluzione saggia e lungimirante, ma come un «cedimento», come la rottura di un argine. E rompere un argine, si sa, può provocare un’inondazione.

Non bisogna dimenticare che la Turco-Napolitano nacque in un clima di grandi tensioni: erano gli anni degli «sbarchi» degli albanesi sulle coste della Puglia. Incalzato dai giornali, che agitavano lo spettro di flussi «fuori controllo», l’esecutivo di centro-sinistra (guidato da Romano Prodi) dispose addirittura il blocco navale per fermare gli arrivi. Era un provvedimento senza precedenti – fu riproposto poi da Giorgia Meloni meno di un anno fa, quando era all’opposizione del Governo Draghi – che non mancò di provocare tragedie: il 28 Marzo 1997 una corvetta della Marina Militare speronò la «Katër i Radës», un’imbarcazione carica di donne e bambini migranti, provocando la morte di più di ottanta naufraghi.

Il centro-sinistra di allora, insomma, introiettò e fece proprie le ansie securitarie e repressive della destra, anche se cercò di «temperarle» con un’attenzione – certo parziale, ma non del tutto retorica – alle libertà individuali e alle garanzie del diritto. Era però un equilibrio che non poteva tenere, perché nel frattempo i grandi media seminavano allarme, e le forze politiche democratiche facevano ben poco per proporre un’immagine diversa dei fenomeni migratori. Ed è proprio su questo punto – sull’immagine dei fenomeni migratori – che occorrerebbe oggi un cambio di passo.

Il diritto di migrare

Cosa accadrebbe se pensassimo l’immigrazione non come un «problema», e neppure come un «fenomeno da governare» – come dicono i commentatori meno ostili ai migranti – ma come un vero e proprio diritto da garantire e tutelare? Cosa accadrebbe se la libera circolazione internazionale fosse pensata soprattutto come un diritto dei lavoratori e delle lavoratrici, in qualche modo affine al diritto di abbandonare il proprio posto di lavoro per cercarne uno diverso e più dignitoso?

Può apparire, questa, una prospettiva lontana e utopica, visto che oggi quasi nessun Paese del mondo ha le frontiere completamente aperte. Eppure, a livello internazionale ne stanno discutendo giuristi, sociologi, storici ed economisti, e alcune elaborazioni in questo senso sono apparse anche in Italia (ad esempio nei testi della filosofa Donatella di Cesare o in quelli del giurista Luigi Ferrajoli).

Quanto è davvero utopica questa prospettiva? In realtà lo è molto meno di quanto si pensi, perché molti Paesi hanno già oggi una qualche forma di «diritto di migrare», sia pure limitato ad alcune specifiche categorie o nazionalità. Nell’Unione Europea, per esempio, tutti i cittadini possono liberamente circolare nei vari Paesi membri: un italiano può andare liberamente in Francia, in Germania o in Spagna, e un rumeno o un bulgaro può trasferirsi quasi senza restrizioni in Italia o in Belgio.

Nel 2004, quando l’Unione si aprì ad Est, consentendo l’ingresso di Polonia, Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e di altri Paesi ex comunisti, molti commentatori paventarono inevitabili «invasioni» di migranti poveri e spiantati: oggi, a venti anni di distanza, dobbiamo riconoscere che non c’è stata nessuna invasione, e anzi l’apertura delle frontiere interne ha per molti aspetti favorito i processi di integrazione tra le diverse aree del Vecchio Continente.

D’altra parte, la libera circolazione nel territorio Ue non significa affatto «assenza di controlli», perché ogni cittadino che si trasferisce in un Paese europeo diverso dal proprio deve comunque registrarsi e richiedere un documento di soggiorno, e nei casi più gravi – quando vi sono reati o situazioni effettivamente pericolose – anche un cittadino «comunitario» può essere espulso. I controlli ci sono, dunque, ma funzionano in un quadro di complessivo riconoscimento di un diritto soggettivo alla mobilità.

Nulla, se non il nostro pervicace e mai sopito razzismo, ci impedirebbe di estendere ai migranti africani, asiatici o latino-americani questo diritto alla mobilità, che abbiamo finora riservato ai soli «bianchi» europei. E dunque, per una sinistra che voglia essere tale, la sfida che si apre in occasione del «compleanno» del Testo Unico è proprio questa: ripensare le politiche migratorie a partire dalla «ius migrandi», dal diritto di circolare liberamente lungo le frontiere. È un’utopia molto più concreta, realistica e realizzabile di quanto non sembri a prima vista.

Sergio Bontempelli

 

 

Migranti, che cos’è la “protezione speciale” che il decreto Cutro vorrebbe abolire

Originariamente pubblicato in “Per un’Altra Città”, 16 Maggio 2023

Alla fine quello che molti di noi temevano è accaduto: il tristemente noto “Decreto Cutro” è stato convertito in legge: si tratta, come è stato scritto, di un provvedimento pesantissimo, che rischia di ricacciare nell’irregolarità migliaia di uomini e donne migranti, e che lede un diritto di asilo peraltro già compromesso dalle (contro)riforme degli ultimi anni. Tra le disposizioni più contestate c’è quella che ridimensiona fortemente – pur senza riuscire ad abrogarla del tutto – la cosiddetta «protezione speciale».

Ma cos’è esattamente la protezione speciale? Alcuni organi di stampa hanno cercato di spiegarlo, ma l’argomento è molto tecnico, e si ha l’impressione che gli stessi giornalisti facciano fatica a comprenderlo. Proviamo dunque a vederci più chiaro.

Le tipologie di protezione

La prima cosa da sapere è che nel linguaggio giuridico si chiama «protezione» il diritto a non essere espulsi e a rimanere legalmente in Italia: in prima approssimazione possiamo dire quindi che abbiamo a che fare con una specifica tipologia di permesso di soggiorno. Tuttavia, a differenza dei permessi di soggiorno «classici» – quelli, per intenderci, rilasciati per motivi di lavoro o di studio – la «protezione speciale» è pensata per tutelare i migranti che fuggono da violenze, abusi e violazioni subìte nelle loro terre di origine: insieme alle altre forme di «protezione», su cui ci soffermeremo tra un attimo, serve per garantire il diritto di asilo.

E qui le parole sono importanti. Abbiamo detto «diritto di asilo» e non semplicemente «asilo» perché, secondo le norme internazionali, l’Italia è obbligata ad accogliere gli stranieri vittime di persecuzioni o abusi. Un diritto è tale proprio perché ad esso corrisponde un dovere a carico dello Stato: non è dunque possibile limitare o comprimere l’asilo in nome di un’astratta «salvaguardia dei confini», come sembra pensare il Governo in carica.

Ma torniamo al nostro ragionamento. Lo straniero che, arrivato in Italia, intenda chiedere protezione al nostro Paese, può presentare una formale domanda di asilo. La domanda viene valutata dalla cosiddetta «Commissione Territoriale», che è l’organismo competente a decidere su queste materie. Esaminata la domanda, la Commissione può rifiutarla del tutto (e in questo caso l’interessato deve allontanarsi dall’Italia, salvo che non faccia ricorso al tribunale), oppure può riconoscere una delle tre «protezioni» previste dalla legge: lo status di rifugiato, la protezione «sussidiaria» o – appunto – la protezione «speciale».

Ed eccoci arrivati al dunque: cerchiamo di capire cosa sono esattamente queste tre forme di protezione, che come abbiamo visto corrispondono ad altrettanti permessi di soggiorno. La prima, lo status di rifugiato, è riconosciuta allo straniero che ha un «fondato timore di persecuzione», e che per questo non può o non vuole tornare al suo Paese di origine. La seconda, la «sussidiaria», viene accordata a chi fugge da guerre e conflitti armati, oppure a chi – in caso di rimpatrio – potrebbe subire una condanna a morte o una qualche forma di tortura.

Se queste formulazioni vi sembrano un po’ vaghe, generiche o addirittura confuse, non avete tutti i torti: da tempo giuristi, studiosi e magistrati si interrogano sul loro significato, senza arrivare a conclusioni univoche. Cosa si intende, ad esempio, con la parola «persecuzione»? Come si distingue la persecuzione da una generica ostilità, o da un controllo poliziesco più «occhiuto» del normale? Essere perseguitati significa necessariamente subire una qualche violenza, o può essere sufficiente una minaccia, un’intimidazione, un avvertimento? E ancora: perché la tortura – che a rigor di logica dovrebbe essere la forma più estrema di persecuzione – viene inserita nella protezione sussidiaria e non nello status di rifugiato? Le risposte a queste domande non si trovano direttamente nei testi normativi: sono i giuristi, i magistrati e i membri delle Commissioni che devono interpretare le leggi, conferendo un significato univoco a formulazioni ambigue o comunque problematiche.

L’asilo costituzionale e la «terza protezione»

I lettori più attenti avranno notato che in questo discorso manca qualcosa: e quel «qualcosa» è la Carta Costituzionale, vero e proprio «elefante nel tinello» di tutto il ragionamento sulla protezione. Come si sa, l’articolo 10 comma 3 della nostra legge fondamentale stabilisce che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica».

In queste poche e semplici parole si delinea un concetto di asilo assai più ampio di quello definito dalle norme sulla «protezione». Non si parla (solo) di persecuzioni, torture, condanne a morte o pericoli derivanti da situazioni di conflitto armato; non si allude (solo) a una minaccia che incomba su un individuo, e che lo costringa a fuggire. Si prevede invece una tutela molto più estesa, da garantire a tutti coloro che non hanno la fortuna di vivere in Paesi democratici e rispettosi delle libertà fondamentali.

Per comprendere la differenza tra questo «asilo costituzionale» e lo «status di rifugiato» è utile rileggere una sentenza del Tribunale di Catania, risalente all’ormai lontano 2004 e riguardante un cittadino iracheno appartenente alla minoranza curda. Nel suo Paese l’uomo aveva lavorato come guardia carceraria in un istituto di pena, ed era stato accusato (ingiustamente) di complicità nell’evasione di alcuni detenuti: era perciò fuggito, si era rifugiato in Italia e aveva chiesto asilo, sostenendo di essere perseguitato dal regime di Saddam Hussein. Il Tribunale osservò che, dopo l’invasione dell’Iraq da parte della coalizione a guida americana, l’amministrazione facente capo a Saddam si era quasi completamente dissolta, e non poteva perciò «perseguitare» nessuno: di conseguenza, l’uomo non ottenne lo status di rifugiato. I giudici decisero però di riconoscere l’asilo «costituzionale», perché in Iraq le potenze occupanti non garantivano i diritti della popolazione civile, e non erano in grado di mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica. Morale della favola: senza l’articolo 10 della nostra Carta, quel cittadino iracheno non avrebbe mai ottenuto il permesso di soggiorno.

Attorno alla metà degli anni Duemila, proprio per dare attuazione al dettato costituzionale, le amministrazioni cominciarono a usare una norma semi-nascosta del Testo Unico sull’immigrazione, cioè della legge che regolava (e regola tuttora) l’ingresso e la permanenza degli stranieri in Italia. L’articolo 5 comma 6 del Testo Unico consentiva di rilasciare un permesso di soggiorno quando ricorrevano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali»: il riferimento era dunque alla Costituzione ma anche agli accordi multilaterali firmati dall’Italia, in primis la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

Nacque così una terza forma di protezione – la cosiddetta «protezione umanitaria»che andò ad aggiungersi allo status di rifugiato e alla «sussidiaria». E la Corte di Cassazione – in una sua storica sentenza del 2012 – invitò i giudici a non accordare più l’asilo sulla base dell’articolo 10 della Costituzione, perché – dissero gli ermellini – «il diritto di asilo [previsto dall’art. 10, ndr.] è oggi (…) interamente attuato (…) dalla esaustiva normativa [vigente]». Cioè perché esisteva una terza forma di protezione, chiamata ad attuare il dettato costituzionale.

La metto, la tolgo, la rimetto: l’altalena della protezione umanitaria

Con l’arrivo di Salvini al Ministero dell’Interno la protezione umanitaria divenne però il bersaglio di mille polemiche. Il nuovo inquilino del Viminale, dimostrando una crassa ignoranza sulla materia, protestò per i «troppi» migranti che accedevano a questo permesso (come se un diritto fondamentale potesse essere limitato a un «numero massimo» di beneficiari). Gli alti funzionari ministeriali, per assecondare i furori del loro comandante, scrissero – in una serie di slide illustrative di involontaria e irresistibile comicità – che si era «determinata una situazione paradossale, [con] un altissimo numero di permessi di soggiorno per cosiddetti (sic!) motivi umanitari, comprensivi delle più svariate ipotesi».

Sulla base di questi presupposti, nel 2018 il decreto Salvini abolì la norma del Testo Unico, e al suo posto introdusse una nuova forma di protezione, chiamata «protezione speciale», che poteva essere riconosciuta solo in presenza di circostanze ben precise e limitate. In particolare, poteva ottenere il permesso di soggiorno chi avesse gravi motivi di salute, chi provenisse da Paesi dove si erano verificate calamità naturali (terremoti, alluvioni ecc.), o ancora chi, in caso di rimpatrio, corresse il pericolo di subire forme di tortura o di persecuzione (e qui la norma era confusionaria e incoerente, perché faceva riferimento a fattispecie già ricomprese nelle altre forme di protezione).

Dopo la (temporanea) uscita di scena del leader della Lega, la nuova Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese abrogò il decreto Salvini e reintrodusse la «vecchia» protezione umanitaria, aggiungendovi però un ulteriore e importante tassello: il permesso di soggiorno poteva essere rilasciato ora non solo per ottemperare agli «obblighi costituzionali o internazionali», come era scritto nella storica norma del Testo Unico, ma anche quando «l’allontanamento [dello straniero dall’Italia] [poteva comportare] una violazione del diritto alla vita privata e familiare».

Qui la legge faceva riferimento alla posizione assunta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: nella sentenza «Hamidovic contro Italia» del 2012, i giudici di Strasburgo avevano condannato il nostro Paese per aver espulso una donna rom che viveva da anni sul territorio assieme al marito e ai figli piccoli. Secondo la Corte, era illegittimo allontanare dai suoi affetti familiari una cittadina straniera, anche se quest’ultima non aveva il permesso di soggiorno ed era irregolare.

Il decreto Cutro ha davvero abrogato la «protezione speciale»?

Il resto è cronaca di oggi: il decreto Cutro ha cercato di abolire, o comunque di ridimensionare fortemente, l’istituto della «protezione speciale», così come era stato delineato dalla riforma Lamorgese. In primo luogo, è stata abolita la convertibilità dei permessi per protezione, cioè la facoltà di trasformarli in permessi «normali» per lavoro o per studio. In secondo luogo, è stata modificata la norma istitutiva della protezione. Al Senato, Maurizio Gasparri ha addirittura proposto di cancellare del tutto il riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali»: poi, a quanto pare, è intervenuto Mattarella per ricordare che la Costituzione e i trattati internazionali si applicano lo stesso, anche quando la legge non lo dice. Povero Gasparri: nessuno lo aveva informato di come funziona uno Stato di diritto, e lui era all’oscuro di tutto…

Il riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali» è dunque rimasto in piedi – e questa è senz’altro una buona notizia – ma la norma sul «diritto alla vita privata e familiare» è stata cancellata. E tuttavia, così come la Costituzione si applica sempre e comunque, anche se la legge non lo specifica, allo stesso modo la Convenzione Europea sui diritti dell’uomo si applica sempre e comunque, anche se la legge non lo dice. Come hanno detto i giudici di Strasburgo, l’Italia è in ogni caso obbligata a tutelare la vita privata e familiare degli stranieri, anche riconoscendo loro un permesso di soggiorno. Nei prossimi mesi si apre dunque lo spazio per un’ampia battaglia politica e giuridica: dobbiamo ribadire che la protezione speciale non è stata affatto abolita, semplicemente perché il Parlamento non aveva e non ha il potere di abolirla. E dunque, come si diceva tanti anni fa, al lavoro, alla lotta!

Sergio Bontempelli

Sbarchi e respingimenti: due o tre cose da sapere

Originariamente pubblicato «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», n. 190, 8 Marzo 2023

Naufraghi in mareQuando i frequentatori del sito leggeranno questo articolo, gli echi della tragedia di Cutro (il naufragio in cui sono morte decine di persone, tra cui numerosi bambini) si saranno probabilmente spenti. L’informazione, si sa, funziona secondo la logica dell’emergenza: le notizie nuove “divorano” quelle vecchie in pochi giorni, e il flusso incessante di novità non lascia il tempo per pensare, capire, approfondire.

E però, se vogliamo evitare il ripetersi di tragedie di questo tipo, dobbiamo fermarci un attimo e porci qualche domanda: il naufragio di Cutro è stato solo il frutto di una fatalità, o quelle vite si potevano salvare? Cosa non ci è stato ancora raccontato, di quella vicenda e di tante altre analoghe che si sono verificate nel corso degli anni? E cosa possiamo fare noi, semplici cittadini e cittadine, per fermare la strage silenziosa che ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero d’acqua?

Il caso degli albanesi

Chi ha qualche capello bianco in testa ricorderà che, negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, i naufragi avvenivano soprattutto nel Canale di Otranto, in quel piccolo braccio di mare che separa l’Albania dalle coste della Puglia: erano gli albanesi che cercavano di arrivare in Italia a bordo di imbarcazioni precarie e fragili. E proprio per i migranti del Paese delle Aquile furono coniate le espressioni che ancora oggi fanno parte del lessico giornalistico sulle migrazioni: “carrette del mare”, “disperati”, “clandestini”, “scafisti”, “trafficanti”, ecc.

Secondo una stima del giornalista Gabriele Del Grande, tra il 1991 e il 2010 ben 696 tra uomini, donne e bambini persero la vita nel tentativo di attraversare il Canale di Otranto. Poi, improvvisamente, nessuno ha più parlato dell’Albania: le stragi in mare – purtroppo – non sono cessate, ma sono avvenute per lo più al largo della Sicilia, e hanno coinvolto i migranti che partivano dal Nord Africa. E gli albanesi, che fine hanno fatto?

La risposta è semplice, e – come vedremo tra un attimo – molto istruttiva: il 24 Novembre 2010 l’Unione Europea ha emanato il Regolamento n. 1091, che ha disposto l’abrogazione dei “visti di breve durata” per due Paesi balcanici, la Bosnia-Erzegovina e l’Albania. Da quel momento, tutti gli albanesi sono stati autorizzati a entrare in territorio Ue (e dunque anche in Italia) senza richiedere un visto all’Ambasciata, e dunque senza doversi sottoporre ai complicatissimi meccanismi amministrativi che caratterizzano la procedura di rilascio di un visto. In Italia, come in tutta Europa, la legge garantisce alle rappresentanze diplomatiche un’ampia discrezionalità in materia: il che significa che ottenere un semplice visto turistico è spesso impossibile. Grazie al nuovo Regolamento Ue, gli albanesi sono stati “liberati” da questi ingranaggi burocratici, e hanno potuto venire in Italia a bordo di normalissimi traghetti di linea, senza più rischiare la vita in mare.

Ciò non significa – beninteso – che le frontiere siano state completamente aperte: la normativa Ue si è limitata a liberalizzare gli ingressi “di breve durata”, quelli dei turisti e dei visitatori occasionali; gli albanesi che intendono arrivare per lavoro, o che comunque vogliono trasferirsi nel nostro paese, sono ancora sottoposti al regime restrittivo dei visti. E infatti molti entrano in Italia per turismo, e poi rimangono da irregolari (perché la legge non consente il rilascio di un permesso di soggiorno a chi è entrato “per breve durata”). Intanto, però, sono cessati i naufragi: ed è già un risultato importante.

È davvero impossibile aprire le frontiere?

Ci si potrebbe chiedere allora perché non aprire le frontiere anche ai migranti che provengono dal Medio Oriente e dall’Africa sub-sahariana, come si è fatto per gli albanesi. Quando si pone questa domanda, arriva quasi sempre il profluvio di obiezioni di senso comune: «sono poveri, se li lasciamo entrare verranno qui in massa», «non abbiamo le risorse per accoglierli tutti», «ci sarà un’invasione», e così via. Ma le cose stanno davvero così?

Anche l’Albania è un paese povero: il reddito medio lordo si aggira sui 500 euro al mese, più di 600mila persone (quasi un quarto dell’intera popolazione) sono sotto la soglia di povertà, il 35% dei cittadini vive in condizioni di “grave deprivazione materiale”. Se davvero l’immigrazione fosse il prodotto meccanico delle difficoltà economiche e dell’indigenza, l’apertura delle frontiere con il piccolo paese balcanico avrebbe dovuto provocare una “marea” di nuovi arrivi. E invece il numero di immigrati albanesi residenti in Italia è addirittura diminuito: dai 480mila del 2010 ai 390mila del 2021 [fonti: Idos, Dossier Immigrazione 2011, pag. 93; Dossier 2022, pag. 107]. Anche i (pochissimi) dati sull’immigrazione irregolare smentiscono le obiezioni “allarmistiche”: gli albanesi “sans papier” espulsi dall’Italia sono poco più di un migliaio l’anno, una cifra irrisoria.

Insomma, aprire le frontiere non provoca alcuna “invasione”. Questo ci dicono i dati.

La questione dell’asilo

La vicenda di Cutro chiama poi in causa la questione del diritto di asilo. Come noto, l’Italia garantisce un permesso di soggiorno a chiunque abbia un «fondato timore di persecuzione» (come recita la Convenzione di Ginevra) o a chi fugga da guerre, dittature e situazioni di emergenza umanitaria. Da sempre gli esponenti della destra al governo ripetono che il diritto di asilo è sacro inviolabile; e tuttavia, a questa frasetta rituale non mancano mai di aggiungere il classico «ma», come nel noto adagio «io non sono razzista, ma…»: «ma» i migranti che sbarcano in Sicilia non sono veri rifugiati, «ma» non fuggono davvero dalle guerre, «ma» non sono realmente perseguitati, e così via.

Potremmo discutere a lungo di cosa sia un “vero” rifugiato, e delle procedure con cui in Italia le autorità competenti riconoscono (e spesso rifiutano) il diritto di asilo: è un ragionamento che ci porterebbe lontano, e non abbiamo il tempo di dilungarci.

Ci interessa qui evidenziare un punto decisivo, di cui poco si è parlato nel dibattito di questi giorni. Secondo la legge italiana (decreto legislativo 25/2008, art. 3 comma 2), le uniche autorità competenti a ricevere una domanda di asilo sono la polizia di frontiera e la Questura. E qui bisogna fare attenzione, perché il diavolo si nasconde nei dettagli: la legge menziona la polizia di frontiera e la Questura, cioè due entità che si trovano solo ed esclusivamente sul suolo italiano. Significa che, per chiedere asilo, lo straniero perseguitato deve trovarsi già in Italia. E se si trova già in Italia vuol dire che ha già varcato il confine: dovrebbe cioè essere entrato con uno di quei famosi “visti” che, come abbiamo visto, sono spesso impossibili da ottenere.

Ecco allora l’inghippo. Un potenziale rifugiato che voglia chiedere protezione al nostro paese non può far altro che varcare illegalmente la frontiera: la legge italiana lo costringe a entrare da “clandestino”, per poi regolarizzarsi come richiedente asilo. Per questo tanti cittadini stranieri in fuga dai loro paesi intraprendono viaggi pericolosi, e qualche volta mortali.

La soluzione sarebbe semplice: basterebbe garantire la possibilità di presentare la domanda di asilo all’Ambasciata italiana nel paese di origine; l’Ambasciata dovrebbe poi rilasciare un visto, con il quale lo straniero potrebbe entrare regolarmente in Italia. E in fondo anche questa è una storia antica: nel 1973, dopo il golpe di Pinochet, tanti dissidenti e attivisti democratici riuscirono a salvarsi chiedendo asilo all’Ambasciata del nostro paese a Santiago.

Si tratta insomma di introdurre un visto specifico, che consenta un ingresso finalizzato alla presentazione di una domanda di asilo. Non dobbiamo inventare nulla, perché una simile procedura è già contemplata dall’articolo 25 del Codice Europeo dei Visti. Nel linguaggio tecnico-giuridico, la possibilità di richiedere protezione rivolgendosi all’Ambasciata si chiama «corridoio umanitario».
Come si vede, la tragedia di Cutro poteva, certo, essere evitata. Non solo accelerando i soccorsi, che invece sono arrivati drammaticamente (e forse colpevolmente) in ritardo: ma anche introducendo un minimo di razionalità e di umanità nel nostro diritto dell’immigrazione.

Sergio Bontempelli

© 2025 Sergio Bontempelli

Theme by Anders NorenUp ↑