Diritti dei migranti e antirazzismo

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Verso il referendum, c’è chi ha paura dei nuovi cittadini. La Costituzione no

Articolo pubblicato sul quotidiano Domani, 20 Maggio 2025

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di Marika Ikonomu, 20 Maggio 2025

Ottenere la cittadinanza nel nostro paese è un percorso a ostacoli. Bontempelli: «Il referendum riguarda noi e la nostra idea di popolo»

«Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono». Giorgio Gaber nel 2003 cantava la sua idea di (non) appartenenza: «Mi scusi presidente, se arrivo all’impudenza di dire che non sento alcuna appartenenza». Eppure, chi è nato da cittadini e cittadine italiane, secondo il principio dello ius sanguinis, non rischia di vedersi togliere la cittadinanza se non si sente italiano o commette reati, così come non è tenuto a provare di guadagnare abbastanza o sapere a sufficienza la lingua per ottenere un documento.

Ma cosa significa essere cittadini? E cosa significa essere italiani? Ottenere la cittadinanza in Italia è un percorso a ostacoli, anche per chi è arrivato nel paese a pochi mesi di vita ed è costretto a fare domanda per naturalizzazione. È la principale forma di acquisizione: non un diritto, ma una concessione dello stato. Ci sono requisiti da ottenere, burocrazie da affrontare e anni di attese.

Il referendum dell’8 e 9 giugno ha l’obiettivo di attenuare uno dei requisiti necessari: abrogando un comma dell’articolo 9 della legge del 1992 si propone di ridurre da 10 a 5 anni la residenza continuativa necessaria per fare richiesta di cittadinanza. O meglio, di ripristinare la disciplina precedente alla legge in vigore. Gli altri requisiti invece rimangono: certificato di nascita, casellario giudiziale del paese di origine, conoscenza della lingua e reddito minimo.

«Penso sia fondamentale non solo perché è ragionevole ridurre il termine, adeguandolo alla tendenza europea, ma anche perché i cittadini cominciano a prendere coscienza dell’opacità di queste procedure», spiega Sergio Bontempelli, operatore sociale, studioso e responsabile degli Sportelli di assistenza agli stranieri dei Comuni della provincia di Pistoia. Un voto dal grande senso simbolico, dice l’esperto: «Le procedure non vengono più nascoste o occultate dietro il concetto che la cittadinanza bisogna meritarla». Poi però servirà comunque una «riforma radicale della legge».

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Intervista: verso il referendum sulla cittadinanza

Pubblicato come Valeria Camia e Alessandro Vaccari, Legge sulla cittadinanza italiana: un po’ di chiarezza sul referendum dell’8 e 9 giugno, dal blog Sconfinamenti.info, 12 Maggio 2025

L’8 e il 9 giugno gli italiani saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari, tra cui uno particolarmente rilevante per le comunità migranti: la proposta di riforma delle norme sulla cittadinanza. Il quesito mira a ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale necessario per richiedere la cittadinanza italiana, estendendo automaticamente questo diritto anche ai figli minorenni dei richiedenti.

Ne abbiamo parlato con Sergio Bontempelli, esperto di diritti dei rifugiati e richiedenti asilo, operatore legale in strutture di accoglienza del centro Italia, presidente dell’Associazione Africa Insieme e dell’Associazione Culturale Straniamenti. Continue reading

Sulla cittadinanza, un referendum “anti-sovranista”

Originariamente pubblicato sul sito dell’Associazione Libertà e Giustizia

L’8 e il 9 giugno i cittadini saranno chiamati al voto su cinque referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza. Sabato 12 aprile parte formalmente la campagna elettorale con l’obiettivo iniziale di raggiungere il quorum.
Il quinto quesito chiede in sostanza che venga dimezzato (da 10 a 5 anni) il tempo di permanenza “sul territorio della Repubblica” per ottenere la cittadinanza: le norme attuali risalgono al 1992 e da allora la società italiana è cambiata.

Sono circa un milione e mezzo i residenti stranieri che hanno in tasca un permesso di soggiorno “per soggiornanti di lungo periodo”, valido cioè a tempo indeterminato: un documento che si può richiedere dopo cinque anni di permanenza regolare e ininterrotta sul territorio nazionale, a condizione di avere una serie di requisiti (reddito, alloggio, conoscenza della lingua ecc.). I titolari di questo permesso abitano in Italia da molto tempo – a volte anche da decenni –, spesso hanno figli nati e cresciuti in Italia, e in ogni caso hanno scelto il nostro Paese come luogo in cui vivere, lavorare, costruire relazioni, metter su famiglia, comprare casa, avere dei bambini, invecchiare. Non stiamo parlando dunque di “immigrati” ma di “ex immigrati”: perché la condizione di “immigrato” – come quella di “straniero” – non è eterna, non resta attaccata alle persone come i tatuaggi, o come certe fastidiose cicatrici che ci facciamo da bambini e non se ne vanno più via.

Se guardiamo al mondo della scuola, ci accorgiamo che gli alunni stranieri sono quasi un milione, e ben 600mila sono nati in Italia da genitori non italiani. Qui abbiamo il paradosso di giovani uomini e giovani donne che le statistiche ufficiali classificano come “immigrati”, e che però non hanno mai avuto un’esperienza migratoria in tutta la loro vita (sono nati nello stesso Paese in cui sono cresciuti e in cui studiano). A dir la verità, anche gli altri 400mila alunni “non italiani” sono difficilmente collocabili nella categoria dei migranti: non sono nati sul territorio nazionale, è vero, ma spesso vi sono arrivati in tenera età, quando erano piccoli o piccolissimi, e non hanno memoria di aver vissuto altrove. L’Italia, molto semplicemente, è la loro terra.

Ecco due esempi di “italiani senza cittadinanza”: di persone, cioè, che sono classificate come “altre” e “straniere” dalla Pubblica Amministrazione, e che però nei fatti sono parte integrante del “noi”. Non stiamo parlando di casi isolati né di sparute minoranze, ma di milioni di uomini, donne, ragazze e ragazzi: un’intera fetta della popolazione esclusa dai diritti politici e dall’appartenenza alla collettività nazionale. Questa vera e propria “segregazione giuridica” – difficile definirla in altro modo – è il prodotto due fattori che nel corso del tempo si sono intrecciati e rafforzati a vicenda: una legge sulla cittadinanza vecchia e inadeguata, e un’ideologia nazionalista “sangue e suolo” condivisa da politici, giornalisti e funzionari ministeriali. Un mix esplosivo.

La legge che regola l’acquisizione della cittadinanza risale al 1992: venne scritta e approvata in un periodo storico in cui l’Italia si pensava ancora come Paese di emigranti e non come terra di immigrati. Per la verità, in quegli anni stavano già arrivando lavoratori provenienti dal Marocco, dall’Albania, dalla Tunisia o dal Senegal, e già allora si sapeva che l’immigrazione sarebbe divenuta prima o poi un fenomeno rilevante: non erano chiare, però, le conseguenze di un cambiamento così radicale.

La legge si preoccupava di tutelare i connazionali che vivevano all’estero, e per questo garantiva un’applicazione molto estesa del principio di discendenza (il cosiddetto “ius sanguinis”): tutti i bambini nati in altri Paesi, se avevano familiari o avi italiani, diventavano a loro volta italiani. Per gli immigrati residenti nello Stivale, invece, i meccanismi di acquisizione della nazionalità erano astrusi e farraginosi: chi nasceva sul territorio da genitori stranieri doveva arrivare a diciotto anni prima di poter diventare italiano per “diritto di nascita” (il cosiddetto “ius soli”), mentre lo straniero adulto doveva risiedere ininterrottamente per un intero decennio nella Penisola prima di chiedere la cittadinanza per “naturalizzazione”. Era una norma, insomma, che guardava al passato e non al futuro, agli emigranti e non agli immigrati.

Nulla di strano e nulla di grave: sono moltissime le leggi che, approvate in un determinato periodo, si rivelano inadeguate a fronteggiare le sfide di un’altra fase storica. Sarebbe bastato modificare e aggiornare la norma, introducendo forme di naturalizzazione più ragionevoli, e garantendo la cittadinanza a chi nasceva e cresceva in Italia. Ma qui è intervenuto il secondo fattore che nel corso dei decenni ha inquinato tutto il dibattito, e cioè l’ideologia tossica del “sangue e suolo”. Il “diritto di discendenza” – lo abbiamo visto – era stato pensato per mantenere un legame tra la Repubblica e la sua diaspora: accordare la cittadinanza ai figli e ai nipoti degli emigranti significava cioè assicurarsi che le comunità italiane all’estero rimanessero in contatto con la madrepatria. Negli ultimi decenni, però, questa esigenza “pragmatica” ha lasciato il posto a una concezione familistica e razziale della nazionalità: si è cominciato a dire che “è italiano chi ha sangue italiano”, cioè chi può “vantare” (si fa per dire) una discendenza da avi italiani. Tutti gli altri – gli stranieri residenti da lungo tempo sul territorio, e i bambini nati in Italia da genitori immigrati – sono e devono rimanere stranieri, salvo casi eccezionali e sporadici.

Intendiamoci: questa ideologia “sangue e suolo” non è una novità in senso assoluto. L’Italia è pur sempre il Paese che ha approvato le leggi razziali antiebraiche del 1938, e altre leggi razziali troppo spesso dimenticate, quelle dell’Impero coloniale (in cui i nativi furono esclusi dalla cittadinanza della madrepatria). All’indomani della Seconda Guerra Mondiale il fascismo era stato sconfitto, e la Repubblica si era data una Costituzione democratica ed egualitaria: eppure, nei recessi profondi dell’immaginario collettivo una certa immagine razzializzante dell’italianità ha continuato a circolare per decenni. Ed ecco il problema: negli ultimi tempi, questa immagine ha conosciuto una nuova fortuna, ed è entrata prepotentemente nel dibattito sulla cittadinanza. Lo abbiamo visto qualche anno fa, quando la campagna nazionale “l’Italia sono anch’io”, e alcune forze del centro-sinistra, hanno proposto di allargare le maglie dello “ius soli” in modo da tutelare i minori nati in Italia. La reazione del centro-destra è stata virulenta, e ha fatto emergere quell’immaginario razziale che sembrava definitivamente sepolto.

Non basta. Intimorite dall’aggressività dei loro avversari, e timorose di perdere voti, le forze di centro-sinistra hanno finito per modificare le loro argomentazioni, e per introiettare loro stesse un immaginario nazionalista. Molti commentatori e leader politici hanno cominciato a dire, per esempio, che la cittadinanza presupporrebbe la condivisione di una lingua e di alcuni “valori”: secondo questo ragionamento, chi vuol essere italiano deve parlare italiano, e deve aderire a una non meglio definita “cultura nazionale”. Può sembrare un discorso di buon senso, ma è in realtà un pericoloso scivolamento verso quell’idea di “omogeneità etnica”, che è in fondo il pilastro di ogni nazionalismo escludente e aggressivo.

È un’idea, oltretutto, che introduce una ingiustificata discriminazione tra coloro che sono italiani dalla nascita (la maggioranza della popolazione), e gli stranieri che acquisiscono la nazionalità in un momento successivo: perché non è affatto vero che, per i primi, la cittadinanza si fonda sulla condivisione di un’identità, di una cultura o di presunti “valori” comuni. Chi nasce da genitori italiani è italiano dal primo giorno di vita in base ad un automatismo di legge: a lui (o a lei) non viene chiesto di dimostrare la sua “italianità”, la sua padronanza dell’idioma nazionale o la sua adesione a un particolare stile di vita. Se appartiene a una minoranza linguistica – ad esempio ai sud-tirolesi di lingua tedesca dell’Alto Adige – e non parla bene italiano, nessuno gli toglierà la cittadinanza per questo. Se adotterà uno stile di vita “da straniero” (qualunque cosa ciò voglia dire), continuerà a essere giuridicamente un cittadino. In altri termini, la pretesa di attribuire lo status civitatis a chi possiede specifici tratti identitari si applica solo ed esclusivamente agli immigrati: è un modo per ribadire la loro presunta “diversità”.

La cittadinanza andrebbe svincolata dalla (presunta) identità etno-culturale, e ancorata semmai all’effettiva partecipazione alla vita collettiva: ad esempio, in una Repubblica che nella sua Carta Fondamentale si proclama “fondata sul lavoro”, dovrebbe essere cittadino chi col suo lavoro quotidiano (e con le tasse che paga allo Stato) contribuisce allo sviluppo economico e sociale del Paese. Il richiamo a una presunta “omogeneità” non fa che perpetuare il clima di avvelenato nazionalismo che stiamo vivendo in questi anni. Non c’è affatto bisogno di essere tutti uguali – di far parte della stessa presunta “etnia”, di avere gli stessi presunti “valori” o la stessa presunta “cultura” – per essere un corpo politico capace di auto-governarsi: la democrazia è la convivenza e la convivialità delle differenze, non l’omogeneizzazione forzata dei governati.

Il quesito referendario su cui siamo chiamati a votare l’8 e il 9 Giugno non interviene su questo insieme così ampio di problemi, e si limita a modificare  – come sempre accade in un referendum – una specifica disposizione di legge: il requisito di dieci anni di residenza ininterrotta sul territorio nazionale, necessario per richiedere la cittadinanza. Se vincono i SI, questo periodo verrebbe portato a cinque anni, cioè al tempo previsto da quasi tutti gli altri Paesi europei. Si tratta di una piccola modifica, certo, che però manderebbe un segnale importantissimo al mondo politico: gli elettori non tollerano più quella segregazione giuridica che ha ridotto decine di migliaia di persone allo status di “italiani senza cittadinanza”; e sono disposti, finalmente, a ragionare di una riforma più complessiva delle norme che regolano l’appartenenza alla collettività nazionale. Sarebbe, insomma, un primo passo per rimettere in discussione quel nazionalismo escludente e aggressivo, che ha pervaso il dibattito politico negli ultimi decenni.

Sergio Bontempelli

Sergio Bontempelli lavora nell’ambito della tutela legale dei migranti. Attualmente dirige gli sportelli per stranieri nei Comuni della Provincia di Pistoia per conto della Cooperativa ARCA. È Presidente dell’Associazione Africa Insieme di Pisa e membro di Adif-Associazione Diritti e Frontiere.

 

 

 

Come funziona in Italia l’ingresso dei migranti regolari – e come cambia con le nuove norme sul decreto flussi

Articolo di Elena Tebano pubblicato sul Corriere.it:

https://www.corriere.it/cronache/24_ottobre_04/migranti-regole-decreto-flussi-85f65bb6-7af6-47dc-b25a-05535f3d8xlk.shtml

Avete mai assunto una persona che vive all’estero da un elenco, magari come collaboratrice domestica, senza che nessuno la conosca e senza che l’abbiate mai incontrata? O siete mai stati assunti in un posto di lavoro che non avete mai visto, in un Paese straniero, senza sapere come è fatto?
La domanda può sembrare strana, ma questa è la precondizione richiesta in Italia ai migranti che vogliono arrivare in modo regolare nel nostro Paese. È cioè il meccanismo alla base dei cosiddetti decreti flussi per l’immigrazione legale. Ieri il governo in Consiglio dei ministri ha varato un decreto che riforma alcune regole dei flussi, ma ne mantiene intatto l’impianto fondamentale, che la premier Giorgia Meloni ha sempre difeso. Abbiamo parlato con Sergio Bontempelli, responsabile degli sportelli per stranieri della provincia di Pistoia (il cui compito, tra gli altri, è proprio assistere datori di lavoro e migranti nella richiesta e nel rinnovo dei permessi di soggiorno) per spiegare come funzionano le regole dell’immigrazione regolare in Italia e cosa cambia, o non cambia, con questo decreto.

Il numero di lavoratori immigrati prestabilito per decreto

«Tutto il meccanismo — spiega Bontempelli — si basa sul fatto che in Italia non si può assumere una persona che è arrivata con un visto turistico. E i migranti non possono venire qui legalmente per cercare un lavoro: devono averlo già prima di partire. Questo vale sia per i lavoratori altamente qualificati, per esempio medici o professori universitari, che per muratori, addetti alle pulizie o babysitter». L’immigrazione dei lavoratori stranieri, è possibile infatti solo se il datore di lavoro in Italia è disposto ad assumere una persona che è ancora nel suo Paese d’origine. È così dalla legge Bossi-Fini approvata nel 2002, che prende il suo nome dai due ex leader della destra. Ogni anno il governo di turno stabilisce con il cosiddetto decreto flussi il numero massimo di stranieri che possono entrare in Italia a lavorare. E indica il giorno in cui gli aspiranti datori di lavoro possono fare domanda per “chiamare” il singolo lavoratore che vogliono assumere.
Il limite dei flussi però è che spesso non corrispondono alle esigenze dei datori di lavoro (imprese, artigiani, contadini, famiglie) né degli immigrati. «Per quasi dieci anni, per esempio, i governi hanno stabilito che non potevano entrare badanti. O la badante era già regolare, oppure non si poteva farne venire una dall’estero» dice Bontempelli. Ma soprattutto per anni — e indipendentemente dal colore politico dei governi — le quote predeterminate dei visti sono state inferiori agli ingressi chiesti dai datori di lavoro. Nel 2023, per esempio, il governo aveva previsto di far entrare in Italia 82.705 lavoratori stranieri (ovvero nuovi immigrati) ma un’ora dopo l’apertura della procedura per chiedere i visti erano già arrivate 238.335 domande. Alla fine le richieste di assunzione sono state sei volte i visti disponibili: 462.422 per 82.705 posti disponibili. Alberto Favero, vice-presidente di Confindustria Vicenza, la definì «una lotteria che niente ha a che fare col merito e niente ha a che fare con il fabbisogno del Paese, delle aziende e i diritti delle persone». L’anno scorso il governo ha stabilito che per quest’anno i visti saranno pochi di più, 89.050, e l’anno prossimo ancora un po’ di più, 93.550. Comunque sempre molti meno delle richieste fatte solo l’anno scorso dai datori di lavoro.

La procedura iperburocratica

Il problema inoltre è che questo meccanismo, già di per sé complicato, è aggravato dalla burocrazia e dalla sua impostazione sicuritaria. «Ci sono almeno tre fasi da completare per ottenere il visto — spiega ancora Bontempelli—: 1) Il datore di lavoro deve chiedere il nullaosta alla prefettura per poter impiegare la singola persona che ha deciso di assumere e che si trova all’estero, secondo la cosiddetta “chiamata nominativa”; 2) Una volta che la prefettura autorizza l’assunzione, lo straniero deve andare all’ambasciata italiana nel Paese in cui si trova e chiedere il visto di ingresso. In alcuni casi ci vogliono anche quattro mesi per averlo e in quei quattro mesi il lavoro per cui l’immigrato doveva venire in Italia può anche sparire» dice Bontempelli. «Infine c’è l’ultimo passaggio: 3) Ottenuto il visto l’immigrato deve arrivare in Italia e firmare il contratto di lavoro in prefettura. Subito dopo deve chiedere il permesso di soggiorno in questura». Un processo così lungo e complicato può incepparsi spesso e a stadi diversi. Succede quasi sempre. Un caso classico è che i sistemi informatici si blocchino durante il click day, il giorno dell’anno in cui gli aspiranti datori di lavoro possono compilare e inviare le chiamate nominative. È molto comune inoltre avere ritardi negli appuntamenti e attendere per mesi l’arrivo del visto e del permesso di soggiorno finale. Le ambasciate sono di fatto uno dei cardini delle politiche migratorie: se funzionano bene o male determina nel concreto quante persone possono entrare regolarmente in Italia. Secondo il rapporto della rete Ero straniero, a maggio il 67% delle persone che l’anno scorso ha chiesto e ottenuto il visto dalle ambasciate italiane all’estero era ancora in «attesa convocazione», cioè non avevano ancora avuto l’appuntamento in ambasciata per andarlo a ritirare. E i ritardi erano aumentati rispetto al 2022, «a confermare — nota il rapporto — una pesante dilatazione dei tempi, ben oltre i limiti di legge, per questo passaggio della procedura».
«Se una persona deve assumere qualcuno perché ha bisogno subito di un dipendente, non può permettersi di seguire il meccanismo dei flussi» dice Bontempelli. «La procedura è così elefantiaca che strutturalmente non riesce a soddisfare le richieste del mercato del lavoro, né dei migranti».
È il segreto di Pulcinella che molte persone che fanno richiesta di immigrare nel nostro Paese con i flussi in realtà sono già da tempo in Italia, senza visto, e hanno già il lavoro per cui dovrebbero venire qui, ma in nero. Una volta che ottengono i documenti regolari fingono di entrare per la prima volta nel nostro Paese e regolarizzano il contratto di lavoro. Oppure fanno domanda per un lavoro che non svolgeranno mai, tipo la colf per parenti o per faccendieri prestanome (che finiscono per presentare un numero spropositato di domande), e si cercano un vero impiego — il muratore, magari in nero — quando arrivano.

Le novità approvate in Consiglio dei ministri

Le modifiche approvate ieri dal governo cercano pragmaticamente di risolvere alcuni di questi problemi. Il verbale del Consiglio dei ministri cita per esempio lo «svolgimento nel corso dell’anno di ulteriori “click day” per settori specifici» a parità di quote di ingresso per impedire che un eccesso di richieste mandi in tilt i sistemi informatici («Ma quella dell’unico “click day” era una consuetudine, già attualmente la legge non obbligava a farne uno solo», dice Bontempelli). Il decreto di ieri prevede anche di semplificare la procedura informatica: le domande di nulla osta al lavoro si potranno compilare prima dei “click day”; il sistema informatico comunicherà con le banche dati dei Ministeri di Interno e Lavoro, di Inps, Camere di commercio, Agenzia delle entrate e Agid, «al fine della verifica automatica di alcune tipologie di dati presenti nelle domande di nulla osta al lavoro»; si potrà firmare e inviare per via digitale il «contratto di soggiorno, abolendo la necessità per il datore e il lavoratore di presentarsi a tal fine presso lo sportello unico per l’immigrazione». Ci sono poi una serie di misure per impedire che prestanome e faccendieri facciano false assunzioni di massa al solo scopo di far ottenere i visti e altre per tutelare i lavoratore e le lavoratrici che denunciano il caporalato.
La premier Meloni ha sempre detto di non voler cambiare il meccanismo che impone ai migranti di avere già un lavoro per entrare in Italia. Ma significativamente nel decreto di ci sono almeno due modifiche che vanno in una direzione diversa.

Badanti e stagionali. Le misure che si “allontanano” dalla Bossi-Fini

Uno riguarda le colf e badanti. Non solo il governo ha sbloccato gli ingressi, ma lo ha fatto al di fuori del meccanismo dei flussi, prevedendo l’ingresso di diecimila persone da impiegare nel settore dell’assistenza sociosanitaria e familiare da reclutare attraverso le Agenzie per il Lavoro e altri intermediari riconosciuti. Nel verbale del Consiglio dei ministri si parla di introdurre «un canale di ingresso sperimentale per l’anno 2025 per l’assistenza di grandi anziani e disabili, nel limite di 10.000 unità, attraverso le Agenzie per il lavoro, le organizzazioni datoriali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore domestico e i professionisti dell’area giuridico-economica».
L’altra modifica permette ai lavoratori stagionali di cercare lavoro quando sono già in Italia. Il Consiglio dei ministri ha annunciato infatti la «possibilità per i lavoratori stagionali di stipulare, nel periodo di validità del nulla osta al lavoro, un nuovo contratto con lo stesso o con altro datore entro 60 giorni dalla scadenza del precedente contratto» e la «possibilità di conversione, al di fuori delle quote, del permesso per lavoro stagionale in permesso per lavoro a tempo determinato o indeterminato». Questo di fatto semplifica l’ingresso per tutti, perché trovare dall’estero un lavoro stagionale è molto più semplice che trovare un altro tipo di lavoro: per gli immigrati che vogliono restare a lavorare in Italia è più facile procurarsi un contratto temporaneo come stagionali che un contratto più lungo. «Finora — spiega Bontempelli — gli stagionali se volevano restare in Italia dovevano tornare al proprio Paese e farsi richiamare».

Le richieste di superare la vecchia legge sull’immigrazione

Datori di lavori, migranti e associazioni del terzo settore che li assistono chiedono una riforma che vada sempre di più nella direzione di superare i flussi. Per esempio permettendo di venire a lavorare in Italia ai migranti che hanno fatto formazione nei Paesi di origine con aziende ed enti italiani (nel 2022 era stata fatta una sperimentazione di questo tipo che aveva funzionato). O allargare a tutti il meccanismo di un intermediario istituzionale introdotto quest’anno per colf e badanti. Oppure, infine, introdurre un visto per la ricerca di lavoro che si possa ottenere in cambio di determinate garanzie, come il pagamento anticipato del biglietto di ritorno in patria o il deposito della somma necessaria per vivere in Italia il tempo del permesso di soggiorno. E che dia ai migranti da sei mesi a un anno per trovare lavoro: se non lo fanno torneranno indietro con il biglietto già pagato. «Un altro segreto di Pulcinella è che questo, illegalmente, succede già: le persone entrano con un visto turistico e poi fanno domanda fingendo di essere tornate al loro Paese» dice Bontempelli.
Per andare oltre la Bossi-Fini, però, serve la volontà politica: smettere di parlare dell’immigrazione come di una minaccia costante e iniziare a trattarla come una risorsa. E questo è quanto di più lontano ci sia dalla concezione del centrodestra. Eppure il miglior modo di combattere l’immigrazione irregolare è proprio quello di rendere più accessibile l’immigrazione regolare.

Angariare

Sergio Bontempelli, Giuseppe Faso e Marina Veronesi. Articolo originariamente pubblicato su Cronache di Ordinario Razzismo, 1 Ottobre 2024

Da un vocabolo di origine probabilmente orientale, attraverso il greco angarèia, il tardolatino forma il sostantivo angaria e il verbo angariare. Il passaggio dalla «a» alla «e» porta al nostro angheria, attestato la prima volta in Gerolamo Savonarola. Il termine evoca sgherri (che invece è parola longobarda, da cui anche scherani), prepotenze, oppressioni accompagnate dal sarcasmo dei violenti, protetti e spalleggiati dal potere. In origine indicava il messo del re di Persia incaricato di requisire beni e imporre tasse, ma poi le violenze dei malfattori e delle autorità locali, coperte dal potere sovrano, hanno operato un parziale slittamento semantico, conferendogli una forte connotazione negativa.

Il provvedimento del governo di destra, per il quale chi non ha un permesso di soggiorno non potrà acquistare una sim telefonica, è un esempio tipico di angheria: con questa norma, infatti, si proclama ai quattro venti che gli stranieri irregolari, ma anche i profughi e i richiedenti asilo appena arrivati in Italia (che proprio in quanto appena arrivati non hanno ancora i documenti di soggiorno), non potranno più ascoltare la voce dei loro familiari rimasti nei Paesi di origine; né potranno telefonare a un avvocato se avranno bisogno di tutela legale, al Pronto Soccorso se si sentiranno male, o agli amici e parenti in Italia se vorranno riunirsi ai loro affetti.

Il messaggio è chiaro: siete sgraditi, dovete andarvene di qui, e se non ve ne andate subirete vessazioni, prepotenze, angherie (per l’appunto) che vi convinceranno a levarvi dai piedi. È un messaggio che ha il sapore di una minaccia, e una minaccia espressa in un linguaggio che rifiuta il confronto, si attesta sul proprio gesto senza valutarne le ricadute e le implicazioni, pago del suo significato. Non si capisce altrimenti quale beneficio potrebbe trarre la collettività da una disposizione del genere. Alla Camera, il deputato Riccardo Magi di +Europa ha chiesto al governo quale scopo avrebbe la norma. Il governo non ha risposto, perché in realtà non c’è nessuno scopo comprensibile e ragionevole: si tratta di un semplice messaggio intimidatorio.

Insistiamo sul messaggio, perché qui il fattore comunicativo sopravanza in modo evidente quello strettamente giuridico. Dal punto di vista degli effetti concreti, infatti, la norma potrebbe non essere così devastante come sembra, almeno rispetto alla situazione attuale: già oggi molte compagnie telefoniche chiedono il codice fiscale a chi acquista una sim, e a sua volta il codice fiscale viene assegnato solo a chi ha un permesso di soggiorno (così prevedono le linee-guida interne dell’Agenzia delle Entrate). Insomma, chi non ha un documento di soggiorno non riesce quasi mai ad acquistare una scheda telefonica: ad impedirglielo non è la legge, ma un insieme di prassi consolidate, di consuetudini date per scontate, di regole amministrative scritte e non scritte.

Ciò non significa, beninteso, che l’emanazione della norma sarebbe priva di conseguenze concrete. Le conseguenze ci sarebbero, eccome! In primo luogo, perché un «messaggio», quando è scritto nero su bianco in una legge dello Stato, quando è propagandato a suon di trombe da un governo e da una maggioranza parlamentare, quando è diffuso largamente dai giornali e dai media, quando viene proclamato senza ragionamento alcuno, produce sempre degli effetti. In questo caso, ciò che viene trasmesso all’opinione pubblica – ma anche ai funzionari locali, agli operatori delle forze dell’ordine, e persino ai dipendenti delle compagnie telefoniche – è l’idea per cui i nuovi arrivati sarebbero non-persone, vite di scarto, uomini e donne non meritevoli di rispetto e di cura. La storia degli ultimi trent’anni ci ha mostrato quanto questo disprezzo istituzionale alimenti e incoraggi discriminazioni, esclusioni e – a volte – balorde violenze.

Bisogna poi osservare che la norma renderebbe permanenti e definitive disposizioni che fino ad ora erano fluide, non stabilite in modo preciso, e quindi aperte a possibili negoziazioni. Certo, già oggi molte compagnie telefoniche chiedono il codice fiscale (e quindi, indirettamente, il permesso di soggiorno): ma, non esistendo una legge precisa che le obbliga a farlo, è sempre possibile contestare questa prassi nelle sedi opportune, o magari trovare qualche negozio o qualche compagnia che segue procedure diverse. Con una legge dello Stato, questa fluidità verrebbe meno: la discriminazione sarebbe istituzionalizzata e in qualche modo definitiva.

Come spesso accade, il governo non ha pensato neppure ai possibili effetti «controintenzionali» prodotti dalle sue angherie normative. Qualcuno, in Parlamento ha provato a segnalarglieli, quegli effetti, ma non è stato ascoltato: alla Camera, nel dibattito in Aula del 17 Settembre scorso, nessun rappresentante del Governo ha preso la parola per spiegare il senso della norma, e nessun deputato della maggioranza è intervenuto per giustificare il suo voto favorevole; alla discussione hanno preso parte solo le opposizioni, che hanno sollevato alcuni rilevanti nodi critici. Così, per esempio, la deputata Emma Pavanelli (Cinque Stelle) ha citato il caso dei cittadini britannici – divenuti «extracomunitari» a seguito della Brexit – che vengono in Italia come turisti, e che quindi non hanno un permesso di soggiorno ma sono comunque autorizzati a rimanere per un periodo massimo di tre mesi: anche loro, benestanti e spesso bianchi (quindi ben visti dal nostro governo) subirebbero gli effetti di questa norma. Paolo Ciani, eletto nelle liste Pd, ha ricordato che la legge parla di «titolo di soggiorno» e non di «permesso di soggiorno», perché il permesso rilasciato dalle Questure non è l’unico documento che autorizza alla permanenza in Italia: ci sono anche, solo per fare qualche esempio, il visto turistico, la ricevuta di rilascio del permesso, la ricevuta di rinnovo, l’attestazione della domanda di asilo e tanti altri «pezzi di carta». Come faranno, gli addetti delle compagnie telefoniche, a distinguere uno straniero regolare da uno irregolare? Dovranno assumere un esperto di diritto dell’immigrazione per dirimere i casi dubbi?

Infine, impedire a un individuo di avere una scheda telefonica significa violare un diritto fondamentale sancito nel nostro ordinamento giuridico. Lo ha affermato di recente la Corte Costituzionale, nella sentenza n.2 del 2023. Si ricorderà che la nostra Carta, all’articolo 15, dice chiaramente che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili» (dice proprio così: inviolabili). Ebbene, la Corte ha ricordato che «la Costituzione tutela la libertà (e la segretezza) della corrispondenza, che all’epoca costituiva l’archetipo di riferimento, ma estende la garanzia ad ogni forma di comunicazione (…). È difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare». Insomma, la norma sarebbe contraria alla Costituzione. E non c’è da stupirsene: perché la Costituzione era nata proprio per opporsi alle angherie, che un regime precedente aveva perpetrato contro i cittadini.

C’è un ultimo aspetto della faccenda, il più preoccupante. Alcune caratteristiche dell’angheria gratuita sono evidentemente in azione in alcune scelte di questo governo nei confronti degli immigrati e di chi li salva dalla morte in mare, o li accoglie nella pratica sociale di ogni giorno: gli esempi sono numerosi, a partire dallo smistamento in porti lontani delle navi di ritorno dai salvataggi nel Mediterraneo.

Gli autori di angherie hanno scarse competenze relazionali e sociali, come rivela una letteratura accessibile, eccetto un’abilità che sfruttano al momento giusto: sanno chi, in un certo ambiente, poco può contare su una solidarietà autorevole e credibile. La soverchieria, l’angheria, conta su un lavoro di indebolimento dell’immagine sociale dell’immigrato ormai trentennale. Si può perciò presumere che deboli e velleitarie saranno le parole e le strategie di chi cerca di mettere in difficoltà l’angheria. È su questo punto che, muovendo da una sconfitta di decenni, è necessario mobilitarsi con intelligenza sistematica, pazienza ed efficacia.

Sergio Bontempelli, Giuseppe Faso e Marina Veronesi

30 Settembre 2024

La mancata riforma della cittadinanza italiana

Articolo pubblicato in contemporanea sul sito Sbilanciamoci.info e su Cronache di Ordinario Razzismo

Anticipazione di un saggio di imminente pubblicazione

21-22 Settembre 2024

di Sergio Bontempelli

La legge sulla cittadinanza in Italia risale al 1992, quest’estate il tema è tornato d’attualità e si stanno raccogliendo le firme per un referendum propositivo (entro il 30 settembre). Il dibattito politico è invece ancora schiacciato sulla confusione tra status giuridico e pretesa “italianità”, un concetto molto pericoloso.

Una legge vecchia, e un dibattito fuorviante

La legge che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana risale all’ormai lontano 1992: fu concepita e approvata in un periodo in cui i flussi migratori dall’estero erano relativamente contenuti, e in cui questioni che negli ultimi anni hanno acquisito grande rilevanza – come quella dei figli di stranieri nati sul suolo italiano, ma non riconosciuti come cittadini italiani – non erano ancora oggetto di un ampio dibattito pubblico.

Si tratta dunque di una legge vecchia, del tutto inadeguata a regolare fenomeni profondamente mutati nel tempo. Non a caso da almeno due decenni associazioni, movimenti di base, intellettuali ed esponenti politici (questi ultimi soprattutto di centro-sinistra) invocano una riforma complessiva della cittadinanza. Il dibattito degli ultimi anni, tuttavia, è stato segnato da almeno due rilevanti limiti: il primo di carattere – per così dire – «tematico», l’altro di natura più ideologica.

In primo luogo, la discussione si è concentrata quasi esclusivamente sui minori nati in Italia da genitori immigrati, e dunque sull’ampliamento del cosiddetto «ius soli». Si tratta di un tema di indubbia rilevanza, se solo si pensa che, oggi, quasi un quinto degli stranieri residenti sono nati e cresciuti nel nostro Paese (sono quindi «stranieri» unicamente in base a una forzatura giuridica…): e tuttavia, la questione dell’accesso allo status civitatis e ai diritti che gli sono connessi è assai più ampia, come vedremo tra poco, e meriterebbe di essere affrontata in tutta la sua complessità.

In secondo luogo, la cittadinanza italiana (che è, o dovrebbe essere, nient’altro che uno status giuridico) è stata sistematicamente confusa con l’«italianità», nozione dai contorni quanto mai vaghi che indicherebbe un insieme di (presunti) caratteri identitari nazionali. A loro volta, questi caratteri identitari vengono rintracciati talora nella lingua («è italiano chi parla italiano»), talora nella «cultura» o nelle «tradizioni», ma non sono rari i casi di esplicita razzializzazione della nazionalità, per cui sarebbe italiano solo chi può vantare una discendenza tutta italiana (o addirittura chi ha i tratti somatici «giusti», cioè chi è bianco e caucasico…).

L’accesso allo status di cittadino, d’altra parte, è pensato come il risultato ultimo di un processo di «italianizzazione», cioè di acquisizione di una identità e di un modo di essere compiutamente italianiSe questa «identità» è definita in termini culturali, il percorso di progressiva acculturazione è ritenuto possibile (uno straniero può benissimo acquisire gli usi, i costumi o i «valori» della società ospitante), e magari anche auspicabile. Al contrario, per chi pensa che siano i tratti somatici o la discendenza a decidere chi è davvero cittadino, l’assimilazione è un obiettivo irraggiungibile quasi per definizione: i genitori e i nonni non si possono cambiare, la pelle nera non può diventare bianca, e i lineamenti «esotici» (o presunti tali) non possono trasformarsi in fattezze «caucasiche» o «ariane». È per questa motivazione razziale che le destre sono restie a riconoscere la cittadinanza agli immigrati lungo-residenti, o ai loro figli nati e cresciuti nel territorio nazionale. Ed è sempre per questo motivo che il generale Vannacci si ostina a considerare straniera la pallavolista afrodiscendente Paola Egonu, che pure ha un regolare passaporto italiano e per di più rappresenta il nostro Paese nelle più prestigiose competizioni sportive.

Torneremo tra poco su questa razzializzazione della nazionalità, e sulle sue conseguenze. Qui ci interessa soffermarci sulla confusione tra uno status giuridico (la cittadinanza, appunto) produttore di diritti e di doveri, e una identità personale – comunque definita – associata ad una appartenenza collettiva. Nel dibattito pubblico questa confusione è molto frequente, tanto da essere entrata ormai nel senso comune. Si sente dire spesso, ad esempio, che i bambini nati in Italia da genitori stranieri meritano la cittadinanza perché anche loro in fondo, sono «come noi»: mangiano gli spaghetti (o la pizza), parlano in dialetto, tifano per la Juventus (o per l’Inter, il Milan, il Torino o l’Atalanta…), guardano Sanremo e la domenica vanno alla partita. Come se lo status giuridico e i diritti che ne derivano dovessero dipendere dall’adozione di usi e costumi «da italiani».

Questa sovrapposizione tra identità e status produce effetti deleteri. Il primo effetto è una ingiustificata discriminazione tra coloro che sono italiani dalla nascita (la maggioranza della popolazione), e gli stranieri che acquisiscono la nazionalità in un momento successivo: perché non è affatto vero che, per i primi, la cittadinanza si fonda sulla condivisione di caratteri identitari. Chi nasce da genitori italiani è italiano dal primo giorno di vita in base ad un automatismo di legge: a lui (o a lei) non viene chiesto di dimostrare la sua «italianità», la sua padronanza dell’idioma nazionale o la sua adesione a un particolare stile di vita. Se appartiene a una minoranza linguistica – ad esempio ai sud-tirolesi di lingua tedesca dell’Alto Adige – e non padroneggia la lingua italiana, nessuno gli toglierà la cittadinanza per questo. Se adotterà uno stile di vita «da straniero» (qualunque cosa ciò voglia dire), continuerà comunque a essere giuridicamente un cittadino italiano. Anni fa, in un articolo pubblicato sul settimanale Left, facevo notare scherzosamente che a Giorgio Gaber (che cantava «questa nostra Patria / non so che cosa sia / io non mi sento italiano…») nessuno propose mai di revocare la nazionalità. In altri termini, la pretesa di attribuire lo status civitatis a chi possiede specifici tratti identitari si applica solo ed esclusivamente agli stranieri: non serve per preservare una qualche omogeneità etno-culturale della popolazione (ammesso, e ovviamente non concesso, che tale omogeneità sia un obiettivo di per sé desiderabile) ma a gettare un’ombra di sospetto sull’«alterità» (vera o presunta) della componente straniera e immigrata.

Ancor più mistificante è l’idea secondo cui essere cittadini significherebbe condividere dei «valori»: chi non accetta i «nostri valori», si dice, non dovrebbe diventare italiano. A molti sembra un discorso di buon senso, e invece è carico di presupposti stigmatizzanti: quali sarebbero mai questi presunti «valori» dell’italianità? Spesso si fa riferimento all’uguaglianza di genere, o al rispetto dei diritti umani: ma davvero pensiamo che il nostro Paese si fondi su questi principi etici? Basta dare un’occhiata alle statistiche sul gender gap, o alla condizione in cui versano le nostre carceri, per nutrire qualche dubbio in proposito. Anche in questo caso, siamo di fronte a un discorso che non mira tanto a definire l’identità nazionale, quanto a etichettare negativamente chi viene da fuori: «loro non rispettano le donne, non sono come noi…». E questa funzione stigmatizzante diventa ancor più esplicita quando alla retorica dei «valori» si affianca il riferimento alla nostra (presunta) «civiltà»: quando cioè si allude alle «radici cristiane dell’Europa», o a una non meglio definita «cultura occidentale», rispetto alla quale gli immigrati sarebbero estranei e nemici; qui, evidentemente, l’appello alla dimensione valoriale serve soprattutto a escludere i musulmani, percepiti come un’alterità irriducibile e vagamente minacciosa.

Proprio la retorica dei valori ci introduce al secondo motivo per cui occorre respingere la facile equazione tra status giuridico e identità. In uno Stato compiutamente laico, quale l’Italia è o dovrebbe essere, le autorità pubbliche sono neutre non solo rispetto alle appartenenze religiose, ma anche rispetto alle opzioni etiche e politiche dei propri cittadini. Imporre dei «valori» o – peggio – gabellarli come fondamento dell’identità collettiva significa aprire le porte a uno Stato etico (non più laico). E significa anche espellere simbolicamente dalla nazione – cioè stranierizzare – tutti coloro che non condividono i «valori di Stato»: se il «vero italiano» è cattolico, i cittadini protestanti o ebrei diventano di colpo italiani di serie B; se l’Italia esiste in quanto ha radici «giudaico-cristiane», i non credenti, i musulmani o i buddisti si trasformano in ospiti sgraditi o a malapena tollerati, anche se hanno in tasca un passaporto del nostro Paese.

La cittadinanza andrebbe dunque svincolata dalla (presunta) identità etno-culturale, e ancorata semmai all’effettiva partecipazione del richiedente alla vita collettiva: ad esempio, in una Repubblica che nella sua Carta Fondamentale si proclama «fondata sul lavoro», dovrebbe essere cittadino chi col suo lavoro quotidiano contribuisce allo sviluppo economico e sociale del Paese. Il richiamo a una presunta omogeneità culturale o, peggio ancora, a caratteristiche etno-razziali, non fa che perpetuare il clima di avvelenato nazionalismo che stiamo vivendo in questi anni.

Un referendum per cambiare la legge sulla cittadinanza è stato lanciato recentemente, servono 500mila firme entro il 30 settembre. 

ll quesito è semplice: riportare a 5 anni il termine per poter avanzare domanda di cittadinanza (oggi servono 10 anni). Serve a riconoscere 2,5 milioni di cittadini stranieri e ai loro figli che già oggi in Italia risiedono da almeno 5 anni, parlano la lingua, lavorano, rispettano le leggi.

Si può firmare online  tramite SPID dal sito www.referendumcittadinanza.it

Regione Toscana. La falsa novità sull”assistenza sanitaria ai “turisti” non UE

Articolo pubblicato in contemporanea sul sito della lista Una Città in Comune di Pisa, su La Città Invisibile di Firenze e su Cronache di ordinario razzismo, 2 Agosto 2024

«La stangata della Regione Toscana ai turisti: sanità a pagamento per i non europei»; «I turisti extra Ue pagheranno le spese sanitarie»; «Giani batte cassa ai turisti extra Ue». I titoli dei giornali di questi giorni annunciano un vero e proprio «giro di vite» imposto dalla Regione Toscana: i turisti stranieri – «finalmente», chiosano molti commentatori – pagheranno le spese sanitarie in caso di un eventuale ricovero, o in caso di un loro accesso al Pronto Soccorso.

A spiegare il senso di questa iniziativa interviene il Presidente della Regione Eugenio Giani: «Così come oggi, se [noi italiani] andiamo negli Stati Uniti, sappiamo che dobbiamo farci un’assicurazione sanitaria», si legge in una nota, «così è giusto che gli stranieri che vengono in Italia da un paese extraeuropeo facciano altrettanto, per un principio di reciprocità».

Prima di dividersi tra favorevoli e contrari, prima di gettarsi nelle consuete polemiche al vetriolo che invadono le bacheche di Facebook, i cittadini toscani devono sapere una cosa importante: questa iniziativa della Regione, almeno per come è stata presentata alla stampa, non è altro che fuffa. Vediamo perché.

Che i turisti extra-Ue debbano pagare le spese per le cure mediche è un principio già sancito da una legge dello Stato, emanata più di un decennio fa: il Decreto Interministeriale n. 850 dell’11 Maggio 2011 prevede che, per ottenere un visto turistico, lo straniero debba munirsi di un’assicurazione sanitaria. Peraltro questa norma del 2011 si limitava a modificare un precedente decreto del 2000 (Decreto del Ministro degli Affari Esteri 12 Luglio 2000) che diceva la stessa cosa, e ad applicare un provvedimento Ue del 2003 (Decisione del Consiglio del 22 Dicembre 2003) che già imponeva l’assicurazione sanitaria. Per farla breve: viene presentata come novità «rivoluzionaria» una norma che esiste da ben ventiquattro anni!

Gli uffici stampa della Regione devono essersene resi conto: e difatti nel loro comunicato lasciano intendere che, certo, la legge esiste già, ma non è molto applicata. Ma anche questa è un’informazione falsa: per poter entrare nel nostro Paese bisogna avere un visto di ingresso rilasciato dall’Ambasciata italiana, e l’Ambasciata non rilascia mai il visto se lo straniero non esibisce un’assicurazione sanitaria. Così dice la legge, così fanno le Ambasciate. Chiunque si occupi di queste cose potrà confermarlo.

C’è però un’eccezione, su cui vale la pena spendere quache parola perché è forse quella a cui alludono i (vaghi) comunicati della Regione: alcuni Paesi hanno stipulato speciali accordi con l’Italia, e questi accordi prevedono l’esenzione dal visto per soggiorni brevi. Significa, detto in parole povere, che il turista proveniente da uno di questi luoghi «fortunati» non deve chiedere il visto all’Ambasciata: può entrare direttamente in Italia, esibendo tutti i suoi documenti alla polizia di frontiera. Ed è vero che – per prassi, non per legge – in molti casi questi turisti «fortunati» vengono fatti entrare anche se non hanno un’assicurazione sanitaria. Di solito i Paesi «fortunati» sono quelli più ricchi, o quelli con cui il nostro Governo ha una relazione diplomatica privilegiata: tanto per fare qualche esempio, nell’elenco dei Paesi «esenti da visto» rientrano il Canada, gli Emirati Arabi Uniti, Israele, il Principato di Monaco, il Regno Unito o gli Stati Uniti.

Ora, che succede se uno di questi turisti «fortunati» non fa l’assicurazione sanitaria, ma riesce lo stesso a entrare in Italia e poi viene ricoverato in Ospedale? Succede, molto semplicemente, che il malcapitato è costretto a pagare di tasca propria tutte le spese per le cure ricevute. Quindi non si capisce bene dove stia la novità annunciata dalla Regione Toscana.

A meno che (e a pensar male, diceva un importante politico della Prima Repubblica, si fa peccato, ma di solito ci si indovina…) l’iniziativa di Giani non sia rivolta a un target particolare, mai nominato esplicitamente: il target dei cosiddetti «overstayers». Vediamo di spiegarci.

Nell’elenco dei Paesi «esenti da visto» non figurano soltanto le nazioni più ricche del pianeta (come gli Stati Uniti, per intenderci), ma anche qualche luogo di origine di importanti flussi migratori diretti verso l’Italia. Per fare degli esempi, sono esentati dal visto i cittadini della ex-Jugoslavia (cioè di Serbia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina, Kosovo), di molti Paesi sudamericani e centro-americani (tra cui il Perù: e i peruviani sono una collettività importante in provincia di Firenze). Ugualmente esenti dal visto sono gli albanesi, il gruppo nazionale più numeroso (dopo i rumeni) tra gli immigrati residenti in Italia.

I cittadini di questi Paesi «di emigrazione» (chiamamoli così, per capirci) entrano in Italia formalmente come turisti, ma nei fatti sono emigranti: molti di loro, alla scadenza dei tre mesi (il limite temporale massimo per un soggiorno di natura «turistica») rimangono sul territorio nazionale, nella speranza di trovare un lavoro e una qualche forma di regolarizzazione. Purtroppo, la legge Bossi-Fini vieta di rilasciare un permesso di soggiorno a chi sia entrato come turista: quindi, questi stranieri hanno poche speranze di emersione. Si chiamano tecnicamente «overstayers»: cioè, migranti divenuti irregolari non perché hanno varcato la frontiera in modo «clandestino», ma perché si sono trattenuti sul territorio nazionale oltre i limiti consentiti.

Una norma del 2007 (Legge 28 maggio 2007, n. 68) obbliga tutti gli stranieri entrati per motivi di turismo a presentare, entro otto giorni dall’ingresso in Italia, una «dichiarazione di presenza», che di fatto possiamo considerare l’equivalente di un permesso di soggiorno. Gli «overstayers», per l’appunto, non fanno la dichiarazione di presenza, e diventano irregolari.

E qui arriviamo al punto: un immigrato «overstayer», proprio in quanto irregolare, avrebbe diritto alle cure mediche gratuite, come prevede l’articolo 35 del Testo Unico sull’Immigrazione. Già oggi, in Toscana e forse non solo in Toscana, ci sono molte difficoltà a rivendicare questo diritto: a molti cittadini stranieri – in particolare agli albanesi – viene richiesta l’assicurazione sanitaria, come se si trattasse di «turisti» e non di immigrati senza permesso di soggiorno. Secondo un’interpretazione della legge condivisa da molti uffici, infatti, lo straniero diventa irregolare alla scadenza dei tre mesi di soggiorno, e non dopo gli otto giorni della mancata dichiarazione di presenza. Sulla base di questo «cavillo», molti immigrati irregolari non hanno accesso alle cure mediche, o vengono obbligati a rimborsare integralmente i costi delle prestazioni ricevute.

Ecco allora il problema: non vorremmo che questa iniziativa della Regione Toscana finisse per «prendere di mira» non i turisti veri e propri, ma quella manciata di migranti (di solito poveri e privi di mezzi) che entrano formalmente come turisti, ma che tali non sono. Sarebbe un brutto scivolone. E ci piacerebbe che la Regione chiarisse almeno questo punto, per levarci ogni dubbio.

Sergio Bontempelli
Presidente di Africa Insieme

G. De Monte e M. Ikonomu: il diritto di cittadinanza tra ostacoli e discriminazioni

Articolo di Gaetano de Monte e Marika Ikonomu pubblicato sul sito del quotidiano Domani, 28 Giugno 2024

Quella del 1992 è una legge nata “vecchia”. Nonostante i numerosi tentativi di riforma, dopo 32 anni è ancora in vigore. Come si chiede la cittadinanza e a quali ostacoli le persone vanno incontro? A molti, perché in Italia quella per naturalizzazione è una concessione, non un diritto

All’età di 25 anni, una ragazza che è arrivata in Italia da bambina, ha frequentato tutte le scuole per poi iscriversi alla facoltà di medicina, non sa se potrà partecipare ai concorsi pubblici e fare carriera nel ministero della Salute, perché non è cittadina italiana. Parla perfettamente la lingua, ha passato più di 15 anni nel sistema di istruzione italiano, ma per sapere se può o meno avere la cittadinanza deve aspettare altro tempo, almeno tre anni per legge. I tempi effettivi sono però ben diversi e non è detto che la risposta sia affermativa. Con eventuali ricorsi i tempi si allungano ancora di più.

«Un bambino che è venuto in Italia quando aveva tre mesi, cosa ha visto del presunto paese d’origine? Nulla», dice a Domani Sergio Bontempelli, responsabile degli Sportelli di assistenza agli stranieri dei Comuni della provincia di Pistoia. «Si sente italiano, ma deve affrontare questo calvario», prosegue, «e questo, oltre a essere umiliante, causa un senso di grandissima estraniazione». Sono 858mila gli alunni e le alunne in Italia con passaporto straniero, il 10 per cento.

Cosa prevede La legge

Ma come si acquisisce la cittadinanza italiana? Si può ottenere in due modi, entrambi disciplinati dalla legge 91 del 1992, un dettato normativo che diversi giuristi considerano già datato; una legge nata «vecchia» perché non considera i mutamenti della società italiana. C’è lo ius soli, per chi nasce sul territorio italiano da genitori stranieri, e ha diritto a chiedere la cittadinanza al compimento dei 18 anni: bisogna dimostrare di essere stato residente in Italia senza interruzioni dalla nascita alla maggiore età. La cittadinanza si può poi acquisire anche per naturalizzazione, se ci si è stabilizzati nel paese. Nel primo caso è un diritto, nel secondo una concessione.

In quest’ultima ipotesi, la persona in questione potrà fare richiesta di cittadinanza alla prefettura – che la invierà al ministero dell’Interno – se ha sposato un cittadino o una cittadina italiana, oppure se è residente in Italia da almeno dieci anni (quattro per i cittadini Ue). Come Domani peraltro ha già raccontato, non si tratta di un automatismo, ma di una concessione dello stato, di una procedura fortemente discrezionale affidata al Viminale. Mentre negli ultimi anni il dibattito pubblico si è concentrato quasi esclusivamente sullo ius soli, è invece proprio il canale della naturalizzazione la principale forma di acquisizione della cittadinanza italiana, come avviene nel 60 per cento dei casi.

Secondo Bontempelli «la procedura di naturalizzazione è gestita da sempre dalle burocrazie ministeriali, che hanno una concezione molto restrittiva della nazionalità, ed è diventata sempre più discrezionale». E continua: «In base a questo orientamento, possono rifiutare la cittadinanza anche quando il richiedente ha tutti i requisiti per ottenerla». È una realtà certificata anche dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato che ha permesso al Viminale, con diverse pronunce, di non concedere la cittadinanza a uno straniero a prescindere dall’esistenza di una condanna penale. Una discrezionalità che porta al rigetto della maggior parte dei ricorsi.

Inammissibilità

Prima ancora che la domanda venga valutata nel merito, ci sono ostacoli formali da superare. Per esempio, come spiega Bontempelli, «nei paesi di lingua slava – come Russia, Bulgaria e Ucraina – tutti i cittadini hanno, oltre al nome e al cognome, un terzo appellativo chiamato “patronimico”, derivante dal nome del padre».

Accade, dunque, che le domande di cittadinanza presentate da chi ha queste nazionalità vengano respinte dalle prefetture, per inammissibilità, senza essere esaminate nel merito. Il sistema non riconosce l’appellativo patronimico perché non presente nelle anagrafi italiane. E tale rifiuto non può essere impugnato in tribunale dato che, secondo la normativa, la domanda viene respinta pregiudizialmente prima di essere protocollata ed esaminata.

Lo stesso accade con i luoghi di nascita trascritti in modi diversi. Ci sono stati casi ad esempio in cui un documento riportava “Teheran” e un altro “Tehran” (semplicemente con una vocale in meno). L’esito è stato un rigetto. È sulle difformità linguistiche che si è costruita nel tempo una barriera che impedisce di presentare le domande. «Anche per piccole discrepanze nei documenti, la prefettura rigetta le domande. I richiedenti sono costretti a inviare di nuovo il modulo e a rifare, se scaduti, i documenti rilasciati dal paese di origine», spiega Bontempelli.

Gli ostacoli

Oltre al requisito della residenza, ai certificati di nascita e al casellario giudiziale del paese di origine, per chiedere la cittadinanza servono anche requisiti di lingua e reddito. «È un grande ostacolo, vista la precarietà lavorativa soprattutto per i giovani. Non sempre è facile avere un contratto e dimostrare i guadagni», precisa Daniela Ionita, presidente del movimento Italian* senza cittadinanza. È complesso avere anche una residenza continuativa, perché «il padrone di casa davanti a una persona straniera non sempre si vuole prendere la responsabilità di avere la residenza a carico, e il buco di residenza è uno dei principali motivi di rigetto», aggiunge.

Garantire la presenza continuativa sul territorio italiano impone ai giovani di rinunciare a offerte di lavoro all’estero. L’attesa è il fulcro: «Oltre a non poter lasciare l’Italia per dieci anni, si aggiunge il tempo perso per aspettare il risultato della domanda. Questo significa anche lasciar andare occasioni di lavoro o formazione», sottolinea Ionita. Soprattutto per quanto riguarda posizioni di rappresentazione politico-sociale.

Riconoscere l’identità

Si intersecano poi diverse forme di discriminazione, per il colore della pelle, l’orientamento religioso o sessuale, che influenzano il trattamento ricevuto dai richiedenti all’interno degli uffici pubblici.

«Anche dopo anni, se si è ottenuto il documento, non si viene considerati al 100 per cento cittadini italiani», continua Ionita, che con il movimento riceve decine di testimonianze. La società italiana, precisa, «è molto indietro nel riconoscere l’appartenenza e l’identità delle persone con background migratorio».

Le definisce «micro violenze quotidiane» che provocano, soprattutto per chi è razzializzato, «depressione, perché la loro identità di persona nata o cresciuta in Italia non viene riconosciuta».

Riforma mancata

Quando il governo Meloni si è presentato per la prima volta in parlamento, il deputato del Pd Matteo Orfini ha presentato una proposta per riformare la legge sulla cittadinanza. Secondo Orfini, alla luce dei mutamenti che hanno interessato la struttura demografica, sociale e culturale italiana, serve una riforma perché la mancanza della cittadinanza, specie per le persone più giovani, vìola il principio costituzionale dell’uguaglianza, precludendo loro, ad esempio, la possibilità di partecipare a concorsi pubblici.

Peccato però che nelle scorse legislature tutti i tentativi di riforma siano stati affossati da entrambi gli schieramenti. Nel 2015 il disegno di legge fu approvato in prima lettura alla Camera, ma oltre un anno dopo fu bocciato dal Senato.

Orfini riconosce l’errore storico di non aver posto la fiducia da parte dell’allora governo delle “larghe intese” a maggioranza di centrosinistra guidato da Paolo Gentiloni. E dice a Domani: «Oggi resta una nostra assoluta priorità. Allora ci fu un errore di valutazione politica, io e Luigi Zanda chiedemmo di porre la fiducia, ma la paura di mettere a rischio la tenuta del governo, dato che Angelino Alfano non la voleva, ebbe la meglio su una questione che rimane di giustizia, per migliaia di persone».

L’articolo 3 della Costituzione sancisce l’uguaglianza, il pari accesso ai diritti di tutte le persone. Sono un milione gli italiani senza cittadinanza. «La legge sulla cittadinanza – conclude Ionita – ha 32 anni e viola il principio costituzionale».

 

Dovremmo dire “Grazie, immigrati!”

Articolo pubblicato su Left, mensile, n. 5, 2024, pagg. 12-15. Leggi versione parziale sul sito di Left, oppure acquista testo integrale

Come facciamo ad accogliere i migranti che varcano le frontiere del Belpaese, se la crisi economica impedisce di aiutare tanti cittadini italiani in difficoltà? Non sarebbe più giusto pensare ai «nostri» poveri, prima di occuparci dei poveri di altri Paesi che bussano alle nostre porte? Sono (anche) questi dubbi di senso comune ad alimentare la diffidenza nei confronti di politiche migratorie inclusive.

La metafora più usata (e abusata) è quella del dessert: se abbiamo una sola torta e la dobbiamo condividere, poniamo, con cinque o sei persone, ciascun commensale avrà una fetta sostanziosa e abbondante; ma se arrivano altri quindici o venti ospiti la torta andrà divisa in porzioni sempre più piccole, e gli invitati dovranno accontentarsi di un semplice assaggio.

Questo ragionamento apparentemente di buon senso si scontra però con i dati di fatto. Già, perché gli studi più recenti ci dicono che gli stranieri non sottraggono affatto beni e servizi agli italiani, ma al contrario portano nuove risorse all’economia del nostro Paese. Per restare alla metafora del dessert, i quindici o venti ospiti che arrivano alla festa non si presentano a mani vuote, ma portano altre torte da dividere con tutti gli invitati.

I dati

La disciplina che si occupa di valutare il contributo dei migranti alla ricchezza dei Paesi di accoglienza si chiama «economia dell’immigrazione», ed è un campo di studi in piena fioritura. In Italia, una delle ricerche più recenti sul tema è stata pubblicata dal Dossier statistico dell’Idos alla fine del 2023 (su dati del 2021). Sommando le varie tasse pagate dagli stranieri residenti in Italia (Irpef, contributi previdenziali, Iva, imposta sui permessi di soggiorno e così via), i ricercatori hanno scoperto che gli immigrati versano all’erario la bellezza di 34,7 miliardi l’anno. Lo Stato, d’altra parte, eroga agli immigrati varie tipologie di servizi (assistenza sanitaria, pensioni, istruzione per i minori, aiuti sociali ecc.) per un valore complessivo di 28,2 miliardi. Non è difficile tirare le somme: calcolatrice alla mano, questi dati dimostrano che l’immigrazione incrementa la ricchezza nazionale per un valore di 6,5 miliardi l’anno, che è la differenza tra quanto gli stranieri pagano e quanto ricevono.

Per tornare alla nostra metafora: se i cittadini italiani fossero 35 commensali con 10 torte in tutto, i migranti corrisponderebbero ad altri tre invitati, che arriverebbero alla festa portando un’altra piccola torta da dividere con tutti…. prosegui la lettura acquistando il numero integrale della rivista sul sito di Left

Sergio Bontempelli, Dovremmo dire: grazie, immigrati!, in «Left», mensile diretto da Simona Maggiorelli, n. 5, 2024, pagg. 12-15. FILE PROTETTO DA PASSWORD

 

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