Diritti dei migranti e antirazzismo

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Il cosiddetto “Decreto Cutro”. Testo sinottico

Articolo originariamente pubblicato su Adif – Associazione Diritti e Frontiere

 

Offriamo qui di seguito ai nostri lettori uno strumento di studio e di approfondimento normativo: un fascicolo interamente dedicato al confronto sinottico tra le norme del cosiddetto “Decreto Cutro” e le leggi previgenti che il decreto modifica, abroga e novella.

Il fascicolo riporta le norme contenute nel Decreto Legge 10 Marzo 2023, n. 20, recante Disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare, così come modificate dalla norma di conversione, Legge 5 Maggio 2023, n. 50, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 marzo 2023, n. 20, recante disposizioni urgenti in materia di flussi di ingresso legale dei lavoratori stranieri e di prevenzione e contrasto all’immigrazione irregolare.

Le norme sono confrontate in un testo sinottico con i provvedimenti che la legge modifica e novella.

Nella colonna a sinistra sono riportate le norme previgenti, in quella a destra le norme modificate dalla legge 50/2023. In grassetto sono riportate le aggiunte e le integrazioni apportate dalla legge 50, in grassetto barrato le disposizioni abrogate.

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Immigrazione, otto riforme possibili a normativa (quasi) invariata

Pubblicato sul sito di Adif-Associazione Diritti e Frontiere, 21 Maggio 2023

Il prossimo 25 Luglio festeggeremo (si fa per dire) una strana ricorrenza: il Testo Unico sull’Immigrazione – la legge che regola l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Italia – compie proprio nel 2023 la veneranda età di venticinque anni. Approvato nel 1998 da una maggioranza di centro-sinistra sotto gli auspici degli allora Ministri Livia Turco e Giorgio Napolitano, riformato in senso restrittivo nel 2002 dalla legge Bossi-Fini, poi oggetto di continue (e caotiche) modifiche, aggiunte, correzioni e integrazioni, il “Testo Unico” è oggi molto diverso da come si presentava in origine: e tuttavia l’impianto complessivo, la filosofia di fondo, l’approccio al tema immigrazione sono rimasti grosso modo quelli di allora. Continue reading

Ucraina: i rifugiati, messaggeri di pace

Dal sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

L’escalation bellica in Ucraina, cui stiamo assistendo in queste ore, ha colto impreparati molti commentatori, e ha suscitato incredulità anche nei movimenti pacifisti, che pure si sono tempestivamente mobilitati scendendo in piazza in tutte le città d’Italia. Siamo, inutile dirlo, in un momento drammatico della storia, che sembra preludere a una nuova guerra mondiale: uno scenario, non a caso, irresponsabilmente evocato sia dal presidente bielorusso Aleksander Lukashenko, sia dal presidente degli Usa Joe Biden. In un contesto del genere, le mobilitazioni popolari contro la guerra rischiano di essere letteralmente “risucchiate” da un clima sempre più diffuso di chiamata alle armi. Serve, dunque, una forte presenza pacifista, che sappia imporre sulla scena pubblica un punto di vista chiaro, concreto, autorevole, autonomo dalle parti in conflitto.

1. Non va sottaciuto il fatto che Putin è oggi il principale responsabile di questa crisi, e che l’aggressione all’Ucraina è un crimine ingiustificabile. In questi giorni alcuni esponenti storici del pacifismo italiano – su tutti Luciana Castellina – hanno evidenziato le responsabilità della Nato, la cui progressiva espansione nell’Est Europa ha acuito le tensioni con la Russia. Ora, non c’è dubbio che l’Alleanza Atlantica abbia giocato un ruolo nefasto di destabilizzazione in diversi scacchieri, non ultimo quello europeo: e tuttavia, insistere soltanto o principalmente su questo rischia di far passare in secondo piano le gravissime responsabilità della Russia di Putin. Siamo di fronte a una superpotenza che, ignorando qualsiasi regola di diritto internazionale, invade un paese sovrano, scatena una guerra devastante e provoca la morte di migliaia di civili (per di più usando l’ipocrita retorica dell’operazione di peacekeeping, che abbiamo imparato a conoscere bene negli ultimi decenni…). Un atto del genere deve essere condannato “senza se e senza ma”, come si diceva un tempo. Ovviamente nessun pacifista – né tantomeno Luciana Castellina – ha mai giustificato né sminuito le responsabilità di Putin: e tuttavia, l’enfasi quasi esclusiva sulle politiche dell’Alleanza Atlantica suona quantomeno “fuori fuoco” di fronte al fatto gravissimo del momento, l’invasione ingiustificata (e ingiustificabile) di un paese e di una intera popolazione civile.

2. Il gesto di Putin non è affatto un “eccesso di legittima difesa”: e in Ucraina le repubbliche filo-russe sono corresponsabili del clima di violenza che si è consolidato in questi anni. La propaganda putiniana cerca di presentare l’aggressione come un atto di legittima difesa, a tutela delle minoranze russofone che vivono nelle regioni orientali e meridionali del paese guidato da Volodymyr Zelensky. Anche su questo punto va fatta chiarezza: è vero che in Ucraina, a partire almeno dal 2014, si è assistito a una drammatica escalation di violenze nazionaliste; è altrettanto vero però che i responsabili di questa escalation sono stati tanto i gruppi dirigenti di Kiev quanto i leaders delle autoproclamate «repubbliche popolari» filo-russe e filo-Putin.

Per quanto riguarda il nazionalismo ucraino, si è registrata una sempre maggiore presenza sulla scena pubblica di gruppi esplicitamente neofascisti e neonazisti, spesso non ostacolati o addirittura coperti dal governo di Kiev. Tra gli episodi più drammatici va ricordata la strage di Odessa del 2 Maggio 2014, quando i militanti di Pravyj Sektor – una delle forze più aggressive della galassia neonazi – hanno dato alle fiamme il Palazzo dei Sindacati, dove avevano trovato rifugio alcune decine di manifestanti filo-russi disarmati: il bilancio ufficiale fu di trentotto morti, alcuni dei quali uccisi dagli aguzzini di Pravyj Sektor mentre cercavano di sfuggire alle fiamme.

Sul fronte delle autoproclamate «Repubbliche Popolari», però, le cose non sono molto migliori. I dirigenti di queste entità pseudo-statali provengono quasi tutti dall’estrema destra nazionalista russa, e hanno legami organici con quell’Aleksandr Dugin che è oggi l’eminenza grigia del neofascismo europeo (e che in passato, non a caso, ha avuto rapporti anche con la Lega). Nel Donetsk, una delle due «repubbliche», i dissidenti filo-ucraini vengono spediti senza troppi complimenti a Izoliatsiia, un centro di torture che quanto a ferocia non ha nulla da invidiare a Guantanamo. Le minoranze religiose sono perseguitate, i partiti politici di opposizione sono fuorilegge, e di recente persino le manifestazioni sindacali dei minatori sono state duramente represse. Putin, dunque, non ha alcun titolo a presentarsi quale «garante» dei diritti umani in Ucraina, visto che è lui stesso a violarli nelle zone sotto il suo controllo.

3. Una escalation militare in risposta all’invasione di Putin porterebbe inevitabilmente ad allargare il conflitto, coinvolgendo l’intera Europa. Se il gesto di Putin non trova alcuna giustificazione, contrastarlo con una reazione militare significherebbe coinvolgere tutta l’Europa in un conflitto di dimensioni spaventose. Sta qui il motivo per cui dobbiamo urgentemente sottrarci alla retorica bellicista imperante: che è tanto più ipocrita, in quanto proviene da politici e uomini di Stato che nel corso degli anni hanno a più riprese «flirtato» con la Russia putiniana. Inviare contingenti in Ucraina, o anche solo armare i paesi vicini come la Polonia o la Romania, significherebbe precipitare rapidamente in una guerra mondiale. Non possiamo permettercelo.

4. Una risposta pacifista è oggi difficile ma non impossibile. Non dobbiamo nasconderci che, in questo scenario, l’opzione pacifista è difficile e per molti aspetti contro-intuitiva. Il primo obiettivo – tutt’altro che semplice da raggiungere – deve essere quello di arrivare a un cessate il fuoco, in assenza del quale qualsiasi strategia mirata a contenere l’escalation rischia di segnare il passo.

Decisivo in questo senso può essere il dissenso interno in Russia, che può spingere Putin a fare un passo indietro. Le migliaia di manifestanti scesi per le strade in varie città russe, la presa di posizione della direttrice del Teatro di Mosca, o la coraggiosa scelta del giornale Novaya Gazeta (la testata dove lavorava Anna Politkovskaya, oggi diretta dal Nobel per la Pace Dmitrij Muratov) che è uscito in edizione bilingue russa e ucraina, ci dicono che qualcosa si sta muovendo. Parallelamente, la Russia putiniana va accerchiata con l’isolamento diplomatico e commerciale, e con sanzioni che – come ha scritto Thomas Piketty nell’ultimo numero di Internazionale – colpiscano gli oligarchi e la cerchia di potere di Putin, e non la popolazione.

5. La diaspora ucraina e i rifugiati: messaggeri di pace. Nel medio-lungo periodo, le migliori risorse per una svolta di pace possono essere proprio gli emigranti ucraini (e russi) in Europa, così come i tanti rifugiati che in queste ore stanno lasciando il paese in cerca di salvezza.

Se le sirene delle due opposte (e complementari) propagande nazionaliste si fanno sentire, condizionando anche le rispettive diaspore, resta vero che la popolazione civile ucraina possiede robusti anticorpi, che possono rappresentare la premessa di un nuovo discorso pubblico orientato alla pace. Quasi tutti gli ucraini sono bilingui – parlano o capiscono perfettamente sia il russo che l’ucraino – e molti dei cosiddetti “russofoni” non si percepiscono come un gruppo etnico separato: il mito delle “due Ucraine” è per l’appunto un mito fomentato ad arte. Nelle zone occidentali del paese si parla addirittura uno slang popolare – il suržyk – che è un mix tra russo e ucraino: una mescolanza linguistica molto frequente nelle zone di contatto e di confine. Persino il successo elettorale dell’attuale presidente Zelensky – personaggio in sé tutt’altro che trasparente – ha rappresentato, nell’ormai lontano 2019, una sorta di protesta popolare contro le politiche ultranazionaliste del suo predecessore Petro Poroshenko.

Gli anticorpi al nazionalismo, insomma, ci sono: si tratta di farli emergere, di conferire loro dignità di discorso pubblico. Occorre evitare una jugoslavizzazione dell’Ucraina: è, questo, un obiettivo centrale di un nuovo movimento pacifista.

Come già è accaduto in altre occasioni di conflitto, dunque, l’impegno per i rifugiati e gli esuli è un tassello decisivo dell’impegno per la pace. Chiedere con forza l’apertura delle frontiere, costruire “dal basso” forme di accoglienza diffusa, creare reti di mutuo soccorso e di convivialità con i profughi e i rifugiati, rivendicare diritti e garanzie per tutti gli emigranti e i richiedenti asilo, sono una parte essenziale della difficile lotta per la pace.

Sergio Bontempelli

Cosa non torna nella sentenza su Mimmo Lucano

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere, 20 Dicembre 2021

Le motivazioni della sentenza dipingono un uomo assetato di denaro e di potere, che ha utilizzato l’accoglienza come semplice pretesto per perseguire i propri interessi personali. Ma molte cose non tornano: e una lettura attenta delle 904 pagine scritte dai giudici di Locri rivela una verità molto diversa

«Avevamo definito l’ex Sindaco di Riace un gran pasticcione. Invece i giudici del Tribunale di Locri lo considerano un gran furbacchione, dotato di “furbizia travestita da falsa innocenza”». Così Marco Travaglio, in un articolo sul Fatto Quotidiano, riassume le motivazioni della sentenza su Domenico Lucano, depositate pochi giorni fa dal Tribunale di Locri (e il cui testo integrale si trova sul sito di Giurisprudenza Penale).

Il direttore del Fatto non ha dubbi: i magistrati, che hanno «letto e valutato le carte», hanno stabilito che Lucano ha «reinvestito in forma privata» gran parte delle risorse stanziate dallo Stato per l’accoglienza dei migranti. Insomma, quel fiume di soldi riversatosi su Riace non è stato usato per i richiedenti asilo, e neppure per gli abitanti del piccolo Comune calabrese, come ha sempre sostenuto Domenico Lucano: al contrario, è andato ad arricchire l’ormai ex Sindaco, e a costruire la sua fortuna politica.

Da dove trae questa granitica convinzione, il direttore del Fatto Quotidiano? Ma naturalmente (dice lui) dalla lettura attenta delle 904 pagine scritte dai giudici: mentre invece certa sinistra – lamenta Travaglio – «sproloquiava di complotti politici e persecuzioni giudiziarie senza aver letto una riga delle carte».

Su una cosa possiamo dargli ragione: fino a pochi giorni fa, dato che le «carte» non erano disponibili, nessuno poteva averle viste. Solo che, adesso che sono uscite, il giornalista torinese sembra averle lette a righe alterne, una riga sì e una no. Se invece quelle righe si leggono tutte da cima a fondo – come ha fatto ad esempio Marco Revelli sul Manifesto – si arriva a conclusioni molto diverse.

Righe pari e righe dispari

Le motivazioni della sentenza. Testo disponibile sul sito Giurisprudenza Penale

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Marco Travaglio si è affidato – potremmo dire – solo alle righe pari, quelle in cui si esprimono giudizi sull’operato degli imputati. Così, per esempio, i giudici osservano che Lucano si rifiutava di allontanare i migranti dai centri di accoglienza, allo scadere del periodo di ospitalità previsto, perché voleva continuare a guadagnare i famosi 35 euro al giorno a persona erogati all’epoca dal Ministero (pag. 161): e sostengono che questo suo movente economico emergerebbe molto chiaramente dalle intercettazioni.

Poi però – ed ecco le righe dispari che contraddicono quelle pari – viene riportata l’intercettazione che dovrebbe «inchiodare» il Sindaco. E si sente Lucano che, parlando con i suoi stretti collaboratori, dice:

«[Dalla Prefettura mi dicono] “non hanno diritto, se ne devono andare!”, e vogliono applicare una regola precisa, quando gli conviene. Io non posso fare questo, io devo avere uno sguardo più alto» (pagg. 180-181).

Si è mai visto un criminale che, per alludere a un traffico illecito di soldi pubblici, parla di «sguardo più alto»? Non è più ovvio interpretare questa affermazione alla luce di quel che Lucano ha sempre detto e sostenuto in pubblico, e cioè che sbattere una famiglia in mezzo a una strada significa tradire i principi a cui dovrebbe ispirarsi l’accoglienza?

Questa discrepanza tra righe pari e righe dispari è una vera e propria costante delle 904 pagine scritte dai giudici di Locri. Per fare un altro esempio tra i tanti possibili, i magistrati si soffermano sulle ispezioni effettuate a Riace dal Ministero dell’Interno, e lasciano intendere che l’ex Sindaco avesse molte cose da nascondere. Eppure, nell’intercettazione riportata a pag. 164 si sente Lucano che dice, ancora una volta a un suo stretto collaboratore:

«[L’ispettore] ha fatto una relazione limitandosi a elencare solo gli aspetti negativi. Ora io chiedo al Prefetto, ufficialmente chiedo, non voglio una visita a campione, voglio una visita integrale… approfondita… approfondita».

Si è mai visto un criminale che, invece di affrettarsi a nascondere tutto, chiede agli ispettori un controllo approfondito sul suo operato?

Pasticci amministrativi

Intendiamoci: le «carte», quelle che Travaglio dice di aver letto con grande attenzione, non restituiscono un quadro idilliaco della situazione a Riace. Incalzato dall’emergenza, il piccolo Comune calabrese versava in una situazione di grave difficoltà, che si traduceva in un clima di vero e proprio caos: secondo quanto raccontano gli inquirenti, molte spese non venivano rendicontate, le risorse destinate ai centri prefettizi venivano spesso usate per i centri Sprar e viceversa (con una inevitabile confusione nei rendiconti dei due sistemi), e alcune associazioni avevano aperto dei centri di accoglienza senza avere alcuna convenzione formale con il Comune o con la Prefettura.

Questa situazione di caos era dovuta a vari fattori. In primo luogo, alla gestione «emergenziale» degli sbarchi da parte delle autorità centrali: dato che Riace si era detta disponibile ad accogliere tutti i migranti che arrivavano sul territorio, la Prefettura aveva finito per convogliare nel piccolo Comune jonico una quantità cospicua di richiedenti asilo. Ogni giorno, ogni settimana venivano inviate decine e decine di nuove persone a cui funzionari comunali e operatori dovevano trovare un posto in accoglienza: si dovevano perciò aprire in fretta e in furia nuove strutture, attrezzarle, individuare gli enti gestori e gli operatori, acquistare generi di prima necessità per accogliere i nuovi arrivati. Ed è naturale che in una situazione del genere «saltassero» procedure, bandi, regole di contabilità e atti amministrativi formali. A ciò si aggiunga che i fondi provenienti da Prefettura e Ministero dell’interno venivano accreditati al Comune con sistematico ritardo, rendendo molto difficile la gestione quotidiana dell’accoglienza.

In secondo luogo, l’arrivo di così ingenti risorse aveva portato ricchezza nel piccolo borgo calabrese, ma non tutti condividevano i principi e le idealità di Lucano: dalle intercettazioni emergono spesso conflitti tra l’ex Sindaco e alcuni abitanti di Riace che sembravano interessati unicamente a «fare cassa» con i soldi dell’accoglienza. In alcuni momenti Lucano manifesta sfiducia anche nei confronti di alcuni suoi collaboratori, che gli paiono dediti più al proprio tornaconto personale che all’impresa politica complessiva. Su questo punto torneremo tra poco, perché – come vedremo – è quello che ha generato i maggiori equivoci.

L’accoglienza come volano di sviluppo: la questione del frantoio

Le udienze del processo a Lucano raccontate da Giovanna Procacci

Infine, a provocare questa situazione di «caos amministrativo» c’era, paradossalmente, lo stesso progetto politico di Lucano. Come sappiamo, l’ex Sindaco intendeva l’accoglienza non come semplice «aiuto» a persone venute da altri paesi, ma come strumento e volano di giustizia sociale, di inclusione, di eguaglianza e di sviluppo economico.

Non si trattava cioè di dare solo un posto letto e un pasto caldo ai migranti, cosa pur doverosa: era necessario anche costruire percorsi concreti di inserimento sociale, che valorizzassero saperi, competenze e capacità dei nuovi arrivati, e producessero ricchezza e sviluppo per tutti. Di qui le iniziative che hanno trasformato Riace in un modello conosciuto e studiato in tutto il mondo: le botteghe artigiane aperte dai richiedenti asilo, le borse lavoro, il turismo sostenibile, le imprese e le cooperative costituite insieme da migranti e cittadini «autoctoni», e così via.

Tra i progetti di punta, finiti poi nel mirino della Procura, c’era il famoso «frantoio». Lucano pensava di poter riattivare una delle più antiche e «tradizionali» attività economiche di Riace – la produzione di olio di oliva di alta qualità – valorizzando proprio la presenza dei richiedenti asilo. Voleva perciò acquistare un frantoio, e darlo in gestione a un gruppo di migranti e di cittadini riacesi: dimostrando così che accogliere persone venute da fuori poteva essere un arricchimento per tutti, anche per gli italiani.

Ma per avviare quell’attività servivano soldi. E Lucano pensò di trovarli attingendo ai fondi che lo Stato destinava all’accoglienza. Questo era non solo assolutamente legittimo, ma persino coerente con il concetto di «accoglienza integrata» che è uno dei pilastri del programma SAI (il sistema di accoglienza gestito dai Comuni, un tempo chiamato Sprar). L’ex Sindaco di Riace ha però avuto la «colpa» di non chiedere alle autorità centrali l’autorizzazione ad avviare il frantoio: così, ha cercato di ricavare – dai soldi che arrivavano via via per la gestione dei centri di accoglienza – un po’ di «economie», cioè di risparmi da destinare al suo progetto. E questo, come si diceva, ha contribuito a generare confusione, perché leggendo i bilanci non era chiaro il fatto che una parte delle risorse serviva a finanziare il frantoio.

Irregolarità amministrative o reati penali?

Non spetta a noi stabilire se questo sistematico utilizzo di fondi pubblici per il progetto del frantoio configurasse un reato penale, o una semplice irregolarità amministrativo-contabile. Quel che è certo, anche dalla lettura delle «carte» tanto osannate da Marco Travaglio, è che il Sindaco Lucano non aveva alcuna intenzione di arricchirsi: il frantoio faceva parte del suo ambizioso progetto politico, che intendeva trasformare Riace in un modello di sviluppo solidale e sostenibile.

E invece, per i giudici di Locri, Domenico Lucano non aveva finalità ideali: il frantoio gli serviva per fare soldi, per crearsi una ricchezza personale. A sua volta, la ricchezza personale gli serviva per garantirsi pacchetti di voti, per conquistare visibilità e potere politico. Che è una tesi abbastanza difficile da sostenere, visto che Lucano era ed è rimasto poverissimo, e ha rifiutato a più riprese la candidatura in tornate elettorali – nazionali ed europee – nelle quali sarebbe stato sicuramente eletto.

Per i magistrati, però, l’idea che Domenico Lucano sia un delinquente comune sembra quasi un articolo di fede: tutti i fatti che potrebbero smentirla sono sistematicamente omessi, oppure distorti al punto da diventare irriconoscibili. In questo senso la sentenza sembra davvero il frutto di una tesi precostituita. E l’esempio del frantoio è ancora una volta illuminante.

Quando i fatti sono piegati al servizio delle teorie: ancora sul frantoio

Per i magistrati, si diceva, il progetto del frantoio serviva per l’arricchimento personale di Domenico Lucano. A riprova di questa tesi, nella sentenza si cita un’intercettazione ambientale (pagg. 311 e ss.), nella quale l’ex Sindaco sembra fare due conti: spiega che il frantoio appena acquistato ha un buon valore immobiliare (attorno ai 700-800mila euro), e dichiara la sua volontà di ritirarsi dalla scena pubblica.

Per i giudici non ci sono dubbi: da questi stralci di conversazione emergerebbe chiaramente la finalità esclusivamente privata del frantoio, che servirebbe a garantire una rendita al primo cittadino di Riace dopo la fine del suo mandato. Questa lettura, però, è in aperto contrasto con quello che Lucano dice pochi minuti dopo, sempre nella stessa intercettazione:

«Tutto sommato a me conviene chiudere (…). Basta. Ho dato il mio contributo per vent’anni. Perché poi Chiara mi ha detto (…): “abbiamo pensato a un lavoro con noi sulla cooperazione internazionale” (…). A me basta che mi danno uno stipendio di 1.200 euro al mese, quello che prenderei anche a scuola (…). Tutto sommato se mi danno questo lavoro, a me piace (…). Sul mio conto corrente ho 700 o 800 euro, per pagare la rata della macchina (…). Non ho conti in banca da nessuna parte…».

Come mai un Sindaco che si sarebbe arricchito in modo fraudolento, fino ad accumulare un patrimonio di 800mila euro, dichiara poi – in una conversazione privata – di voler vivere con appena 1.200 euro al mese? E come mai nel corso del colloquio non aggiunge che, accanto a quel modesto stipendio, può vivere con la rendita del frantoio? La risposta potrebbe essere molto semplice: perché le 800mila euro del frantoio non sono una ricchezza personale, ma un patrimonio dell’associazione Città Futura, destinato a promuovere un’attività sociale. I giudici non la pensano così, benché tutti i fatti depongano chiaramente a favore di questa lettura.

 

In un’altra intercettazione (pagg. 405 e ss.), Lucano discute con la sua compagna e con un’amica sull’avvenire del progetto politico di Riace. L’ex Sindaco suggerisce di rivedere tutti gli assetti dell’associazione Città Futura, quella che dovrebbe gestire materialmente il frantoio: vuole allontanare il Presidente, di cui non si fida, e nominare un nuovo gruppo direttivo inserendovi persone di sua fiducia. Chiede perciò alle due donne la loro disponibilità a entrare negli organi dirigenti dell’associazione. Secondo i giudici, questo colloquio dimostrerebbe la volontà di Lucano di «appropriarsi» in forma privata del frantoio.

Ma basta seguire passo passo le intercettazioni per capire che questa lettura è forzata e implausibile. Lucano non si fida del Presidente dell’associazione, e vuole allontanarlo proprio perché sospetta che lui voglia appropriarsi del frantoio per fini privati. E ha ragione a non fidarsi: il Presidente, in un colloquio privato con sua moglie (pagg. 429-430), dice chiaramente che «sono soldi dello Stato, però se lui [Lucano, ndr.] la imposta come laboratorio per… per gli immigrati… mica quello è un frantoio per l’integrazione agli immigrati».

Queste parole sono in evidente polemica col Sindaco («però se lui la imposta…»): i giudici, però, ne distorcono il senso, e le usano per dimostrare che era lo stesso Lucano a volersi arricchire col frantoio. E tutta la sentenza è percorsa da questa convinzione incrollabile. Persino in un colloquio privato con il figlio (pag. 416), Lucano continua a dire che il frantoio serve per l’integrazione degli immigrati: ma questo colloquio, per i giudici, è la prova che Lucano mentiva a tutti, anche ai suoi familiari più stretti. Tutte le prove che potrebbero, se non proprio scagionare l’ex Sindaco, almeno dimostrare la sua assoluta buona fede, vengono distorte e usate contro di lui.

Un processo a tesi precostituita

Insomma, leggendo attentamente le «carte», si ha davvero l’impressione amara che il processo sia servito non ad accertare la verità, ma a far rientrare i fatti all’interno dei limiti angusti di una tesi precostituita.

Forse ha ragione Cataldo Intrieri, quando sul giornale Il Dubbio segnala che proprio la lunghezza della sentenza finisce per coprire l’inconsistenza delle sue conclusioni: «900 pagine sono tante e (…) chi scrive così tanto in fondo coltiva la speranza che nessuno se le legga tutte, e che la mole schiacciante svolga una funzione dissuasiva».

Sergio Bontempelli

Il decreto Lamorgese, un Giano bifronte

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

In questi giorni il Governo ha varato un provvedimento che dovrebbe superare i decreti Salvini. Si tratta però di un testo contraddittorio, con alcune norme di rottura col passato, e altre che mantengono, e in qualche caso peggiorano, le contro-riforme dell’ex Ministro leghista. Ecco il decreto spiegato punto per punto

È davvero difficile dare un giudizio sul nuovo provvedimento che, nelle intenzioni, vorrebbe superare e abrogare i decreti Salvini su immigrazione e “sicurezza”. Siamo di fronte infatti a un testo assai complesso, il cui segno è tutt’altro che univoco: e in cui norme fortemente innovative – di autentica rottura con il passato – convivono con disposizioni che mantengono in vigore, e in qualche caso addirittura peggiorano, l’impianto repressivo e restrittivo delle politiche migratorie.

È dunque difficile, si diceva, dare un giudizio univoco. A una lettura attenta del testo, sembrano decisamente eccessivi gli entusiasmi di Luigi Manconi, secondo il quale da oggi, per il legislatore,«i migranti e i profughi tornano ad essere persone in carne ed ossa». Ma altrettanto fuori luogo appaiono le affermazioni di chi equipara il provvedimento a un “decreto Salvini tris”.

Se proprio volessimo dare una definizione sintetica, potremmo parlare piuttosto di un decreto «dottor Jekill e Mister Hyde», o di un Giano bifronte: con delle parti molto avanzate e altre che, invece, si muovono nel solco tracciato da Salvini. Come se il testo fosse opera di due diverse “manine”, a ciascuna delle quali è stato dato il compito di scrivere una parte diversa del decreto.

Proviamo allora a ripercorrere le principali novità: chi voglia approfondire le disposizioni di dettaglio può scaricare il testo sinottico, che mette a confronto le norme previgenti con le modifiche introdotte dal decreto.

Gestione delle frontiere: l’eredità di Salvini

Decreto Lamorgese e norme vigenti: leggi il quadro sinottico delle modifiche inttrodotte dal decreto

La parte forse peggiore del provvedimento è quella che riguarda la gestione delle frontiere: qui l’impostazione della norma, come vedremo tra un attimo, è in assoluta continuità con i decreti Salvini, e più in generale con le politiche migratorie restrittive e repressive degli ultimi anni. Per comprendere questo punto, sarà bene riassumere molto schematicamente le previsioni del decreto Salvini.

Le norme varate dall’allora Ministro leghista hanno ridisegnato tutta la procedura di gestione degli arrivi alla frontiera. È stato anzitutto previsto, per la prima volta in Italia, il trattenimento dei richiedenti asilo «a scopo identificativo»: i migranti che sbarcano sulle coste e che chiedono asilo possono cioè essere rinchiusi per trenta giorni in un «centro» (sia esso un hotspot, un centro per il rimpatrio o un hub: i nomi sono diversi, ma si tratta sempre di luoghi detentivi), se ciò è ritenuto necessario per stabilire l’identità o la nazionalità degli interessati.

Dato che tutte o quasi tutte le persone che giungono in Italia via mare non hanno un passaporto in tasca, una disposizione di questo genere può riguardare la totalità dei migranti in arrivo: in pratica, il trattenimento / detenzione diventa potenzialmente lo strumento ordinario di gestione degli «sbarchi».

Per coloro che chiedono asilo alla frontiera il decreto Salvini prevede inoltre una «procedura accellerata»: in pratica, le Commissioni – gli organismi incaricati di stabilire chi ha effettivamente il diritto di restare in Italia come rifugiato – sono obbligate a decidere sui singoli casi nel giro di pochi giorni o di poche ore; le audizioni si trasformano così in colloqui frettolosi, e i richiedenti non sono messi in condizione di far valere adeguatamente le loro ragioni.

Lo svilimento del diritto di asilo nei decreti Salvini: leggi il dossier di Chiara Favilli su Questione Giustizia

Infine, il decreto Salvini ha introdotto anche nell’ordinamento italiano la nozione di «paese di origine sicuro». Per capire il significato di questa strana espressione, bisogna ricordare che secondo la Convenzione di Ginevra l’asilo si fonda sull’esame della specifica situazione individuale dello straniero. Mentre, prima della Seconda Guerra Mondiale, l’asilo veniva concesso sulla base della semplice nazionalità (gli armeni, ad esempio, erano considerati rifugiati, mentre gli ebrei in fuga dalla Germania nazista non avevano un diritto alla protezione), con le nuove regole dettate a Ginevra le autorità dovevano valutare le domande caso per caso: potevano quindi respingere anche persone provenienti da paesi dittatoriali (se non avevano un fondato timore di persecuzione per se stesse) e, all’inverso, potevano accogliere anche stranieri provenienti da paesi democratici (se rischiavano effettivamente di essere perseguitati: perché non sempre i paesi formalmente democratici sono tali anche nei fatti…).

Il decreto Salvini sovverte questa impostazione, e introduce una lista di paesi «sicuri», cioè «sicuramente democratici», «sicuramente garantisti», «sicuramente rispettosi dei diritti umani» ecc.: paesi in cui, secondo il legislatore italiano, non possono verificarsi persecuzioni (o quasi). Il richiedente asilo che provenga da uno di questi paesi è dunque considerato «quasi sicuramente bugiardo»: e non dovrà avere lo status di rifugiato, a meno che non porti prove decisive della sua persecuzione. Nel decreto Salvini, i richiedenti che arrivano dai paesi «sicuri» sono sottoposti a procedure sommarie, che nei fatti compromettono il loro diritto alla protezione.

Le norme «Mr. Hyde»: frontiere blindate

Il decreto Lamorgese lascia inalterata questa impostazione dei decreti Salvini: restano dunque in vigore le norme relative al trattenimento in frontiera, alle procedure accellerate e al trattamento dei richiedenti che provengono da paesi di origine «sicuri».

Le modifiche introdotte dal provvedimento Lamorgese non sono sostanziali. A volte si tratta di piccoli miglioramenti: come quando si riduce il tempo massimo di trattenimento nei «centri per il rimpatrio» dagli attuali 180 giorni (6 mesi) a 120 giorni (4 mesi). Altre volte si interviene sulla qualità tecnica del testo normativo. Così, sempre per fare un esempio, si introduce una distinzione netta tra «esame prioritario» di una domanda di asilo (che avviene in sostanza quando la Commissione esamina quella domanda prima delle altre) e «procedura accellerata» (in cui la Commissione deve decidere in tempi brevi e senza un reale confronto con il richiedente): il decreto Salvini aveva fatto un po’ di confusione tra le due cose, che ora col nuovo provvedimento sono ben distinte e destinate a categorie diverse. Altre volte ancora, le norme salviniane vengono addirittura inasprite, come quando si prevede il giudizio direttissimo contro i migranti che hanno partecipato a rivolte e proteste all’interno dei Centri per il Rimpatrio.

Persino sui temi tanto dibattuti del soccorso in mare, della «chiusura dei porti» e della criminalizzazione delle Ong il testo Lamorgese non inverte la rotta rispetto all’impostazione Salvini. Rimane ad esempio il principio per cui è possibile vietare l’ingresso in acque italiane a navi non militari. Scompare la multa «astronomica» di un milione di euro, le ammende potranno variare da 10mila a 50mila euro e dovranno essere decise da un giudice: resta però, sia pure attenuata, la criminalizzazione delle Ong impegnate nelle attività di soccorso.

Fatti e mistificazioni sui soccorsi in mare: leggi l’articolo di Fulvio Vassallo Paleologo

Ma soprattutto si prevede che le operazioni di salvataggio «siano immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera, ed effettuate nel rispetto delle indicazione della competente autorità per la ricerca e il soccorso in mare». E questa dicitura apre alla possibilità che le Ong siano obbligate a far riferimento alla Guardia Costiera Libica: un fatto molto grave.

A guardar bene, siamo di fronte alla riconferma dell’impostazione salviniana: frontiere chiuse, trattamento detentivo o semi-detentivo dei migranti che tentano di attraversarle, e forti restrizioni al diritto di asilo.

Il problema non è che il decreto Lamorgese è «troppo timido», «poco coraggioso», «non ancora sufficiente», come pure è stato scritto: no, il dramma è che questa parte del nuovo decreto è pienamente interna alla filosofia punitiva di Salvini. Che è cosa molto più grave.

Il dott. Jekill e la protezione umanitaria

E tuttavia, si diceva, il decreto reca anche le tracce di un’altra «manina», di un dott. Jekill che – al contrario del suo collega Mr. Hyde – ha notevolmente migliorato alcune norme.

Il primo punto da sottolineare riguarda la reintroduzione della cosiddetta «protezione umanitaria» (ora ribattezzata «protezione speciale»). Affinché il lettore ci segua, sarà opportuno ricapitolare brevemente di cosa si tratta.

Prima del decreto Salvini, le Commissioni incaricate di decidere sulle domande di asilo potevano prendere quattro diversi provvedimenti: diniego secco (la domanda di asilo non è accolta, e il richiedente non può restare in Italia, fatto salvo ovviamente il diritto di ricorso a un giudice); status di rifugiato (quando viene riconosciuto un «fondato timore di persecuzione»); status di protezione sussidiaria (quando il richiedente fugge da guerre, conflitti armati o dalla pena di morte); e, appunto, status di protezione umanitaria.

Il permesso di soggiorno per «protezione umanitaria» veniva rilasciato quando la Commissione verificava la presenza – così recitava la legge – di «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano». La norma era volutamente generica, perché alludeva a tutte quelle situazioni in cui il rilascio di un permesso di soggiorno si rendeva necessario per tutelare i diritti fondamentali di una persona.

Solo per fare alcuni esempi, poteva ottenere questo status chi avesse gravi problemi di salute, chi si trovasse in condizioni di vulnerabilità o chi avesse subito violenze e abusi (sia nel paese di origine che nei paesi di transito, come la Libia). Alcuni giudici, in sede di ricorso, avevano riconosciuto la protezione umanitaria anche ai richiedenti asilo che, ormai da tempo residenti in Italia, avevano maturato un loro radicamento sociale: un lavoro, una famiglia, una rete stabile di relazioni.

Il permesso di soggiorno per vita privata e familiare in Francia: leggi l’articolo sulla rivista «Plein Droit» (in francese)

La protezione umanitaria serviva infine per garantire la piena applicazione del dettato costituzionale. Nella nostra Carta fondamentale, infatti, il diritto di asilo è molto più ampio rispetto a quello definito dalla Convenzione di Ginevra, perché non richiede necessariamente una persecuzione individuale: secondo l’articolo 10 della Carta, ha diritto di asilo «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana».

La protezione umanitaria era stata abolita dal primo dei decreti Salvini, sulla base della (risibile) motivazione secondo cui la norma avrebbe avuto «contorni indefiniti» (così il Ministero dell’Interno nelle sue slide illustrative: una perla tutta da leggere…). Da tempo si parlava della possibile reintroduzione di questo istituto, e il decreto Lamorgese in effetti lo reintroduce. La disposizione dice che il permesso umanitario deve essere rilasciato quando ciò si renda necessario per garantire «il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano»: che è grosso modo la stessa formulazione della «vecchia» norma.

Ma il decreto Lamorgese va oltre, e prevede il rilascio di un permesso di soggiorno anche nei casi in cui «esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare». Si tratta di una novità nell’ordinamento italiano: è una norma che fa riferimento al famoso articolo 8 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU), che impone agli Stati il rispetto, per l’appunto, della vita privata e familiare delle persone. Di solito, nei paesi europei, l’art. 8 CEDU non è stato utilizzato per legittimare il diritto di soggiorno degli stranieri: a farlo è stata solo la Francia, con la legge Chevènement del 1998, che ha introdotto un vero e proprio permesso di soggiorno per «vita privata e familiare».

L’Italia si allinea a quella riforma transalpina, e ciò configura una protezione umanitaria più ampia di quella previgente: un passo avanti decisamente innovativo e inaspettato.

Un altro dott. Jekill: la conversione dei permessi di soggiorno

La convertibilità dei permessi di soggiorno dovrebbe essere uno dei pilastri di una nuova politica migratoria

C’è un altro «dottor Jekill» che ha messo mano alla riforma, e che ha partorito una norma di grande interesse: il decreto Lamorgese prevede infatti la possibilità di trasformare vari permessi di soggiorno di natura «provvisoria» (o ritenuta tale dal legislatore) in permessi di soggiorno per lavoro.

Diventano così «convertibili» i permessi per protezione speciale (la nuova protezione umanitaria prevista dal decreto), ma anche i permessi per calamità naturale nel paese di origine(ideati da Salvini), e quelli per attività sportiva, per lavoro artistico, per residenza elettiva o per motivi religiosi (su questi ultimi gravava un parere negativo del Consiglio di Stato).

Soprattutto, viene prevista la conversione del permesso per «assistenza minori», che è un documento rilasciato su autorizzazione del Tribunale per i Minorenni ai genitori irregolari di bambini presenti in Italia. In questi anni, molte coppie con bambini hanno chiesto e ottenuto questo permesso di soggiorno: hanno così avuto la possibilità di lavorare, di inserirsi, di costruire una vita nel nostro paese. Poi, però, alla scadenza del permesso di soggiorno, si sono trovati di nuovo irregolari, perché non era possibile «convertire»il loro documento, anche avendo già un contratto di lavoro.

I più fortunati hanno presentato una nuova domanda al Tribunale per i Minorenni, e hanno ottenuto una nuova autorizzazione e un nuovo permesso: ma hanno dovuto aspettare lunghi mesi prima di ricevere la risposta (e spesso hanno perso il lavoro, perché nel periodo di attesa sono rimasti senza documenti di soggiorno, in una condizione paradossale di semiregolarità). Tutti gli altri, i meno fortunati, sono tornati ad essere irregolari. Ora, col decreto Lamorgese, il permesso per assistenza minori diventa finalmente convertibile.

La questione della «convertibilità» dei permessi è decisiva, perché uno dei modi in cui si diventa irregolari è proprio questo: si entra in Italia regolarmente, o si riesce in qualche modo a regolarizzarsi, ma poi si torna ad essere «clandestini» per un cavillo burocratico, perché la legge non consente di rinnovare il soggiorno.

Ecco, su questo punto potremmo dire davvero che il decreto Lamorgese è «timido», «poco coraggioso»: che insomma va nella direzione giusta, ma in modo ancora troppo cauto e circospetto. Perché la convertibilità dei permessi di soggiorno dovrebbe essere uno dei pilastri di una nuova politica migratoria.

Perché non pensare ad esempio di rendere «convertibili» anche i visti turistici? Oggi, chi entra in Italia per motivi di turismo può restare solo tre mesi, e alla scadenza di questo periodo di tempo non ha alcuna possibilità di rimanere sul territorio: anche se ha trovato un lavoro, anche se è in grado di mantenersi autonomamente, è costretto a fare le valigie, solo perché il visto turistico non si può trasformare in permesso di soggiorno per lavoro. È esattamente in questo modo che le nostre politiche migratorie fabbricano i «clandestini», che poi si vogliono espellere.

E perché non rendere convertibili almeno una parte dei permessi per richiesta di asilo? Un richiedente asilo che soggiorna in Italia da tre o quattro anni non potrebbe avere il diritto di avere un «normale» permesso per lavoro, se è stato regolarmente assunto?

Accoglienza e residenza

Positive (anche se in qualche modo più «scontate») sono le disposizioni che riguardano l’accoglienza e il diritto di residenza per i richiedenti asilo.

Sull’accoglienza si torna sostanzialmente alla situazione «pre-Salvini», con i centri Cas – gestiti dalle Prefetture – destinati ad accogliere i richiedenti asilo appena arrivati, e le strutture ex-Sprar gestite dai Comuni pensate per la seconda accoglienza e per i percorsi di inserimento sociale. Lo Sprar viene ora ribattezzato Sai, Sistema di accoglienza e integrazione, ma la sostanza non cambia.

Preoccupa solo la «clausola di invarianza finanziaria» introdotta dall’articolo 11 del decreto: secondo la quale tutte le nuove norme devono essere attuate «mediante l’utilizzo delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente». In pratica, lo Stato modifica e riforma, ma non mette un soldo in più: ed è difficile pensare a una riforma seria del sistema di accoglienza se non si prevede uno stanziamento di risorse aggiuntive.

Infine, viene abolita l’odiosa norma del decreto Salvini che, nelle intenzioni del Ministro leghista, doveva impedire ai richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe. Qualcuno – come Emilio Santoro – aveva già spiegato che quella norma non poteva impedire di riconoscere la residenza a nessuno; poi la Corte Costituzionale l’aveva abrogata. Oggi, finalmente, quella disposizione viene in via definitiva consegnata al passato.

Sergio Bontempelli

Verso la regolarizzazione: una proposta concreta

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

Si è riaperto in questi giorni il dibattito sulla “sanatoria” degli immigrati. Vogliamo contribuire a questo dibattito con una nostra proposta tecnica: un possibile testo di legge, fondato sulla regolarizzazione di chi è qui senza documenti, sull’abrogazione dei decreti Salvini e sulla reintroduzione della protezione umanitaria

Il dibattito sulla regolarizzazione dei migranti senza permesso di soggiorno, che sembrava essersi arenato nei mesi scorsi, si è riacceso nelle ultime settimane, complice anche la drammatica carenza di manodopera che sta colpendo settori produttivi come l’agricoltura.

Pochi giorni fa, il Corriere della Sera ha pubblicato una bozza di provvedimento, su cui i Ministri del governo Conte II stanno ancora discutendo. Si tratta di un testo che, se approvato, limiterebbe la regolarizzazione solo ad alcuni comparti produttivi (agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura). A poter presentare le domande, inoltre, sarebbero solo e soltanto i datori di lavoro: un meccanismo pericoloso, quest’ultimo, già utilizzato in altre sanatorie, che rischia di alimentare situazioni di sfruttamento e di ricatto.

Noi continuiamo a pensare che sia possibile una regolarizzazione non strettamente vincolata al lavoro, che consenta l’emersione diretta degli stranieri coinvolti: un meccanismo che potrebbe sfociare nel rilascio di un permesso di soggiorno per “attesa occupazione”.

Al contempo, in vista di un più ampio dibattito su una riforma complessiva delle politiche migratorie, è quanto mai urgente abolire i decreti Salvini, che hanno stravolto il diritto fondamentale all’asilo previsto dalla Costituzione italiana.

Ci siamo già soffermati su queste proposte in un post pubblicato sul nostro sito alcuni giorni fa. Qui di seguito proviamo a trasformarle in un vero e proprio articolato di legge: è un nostro contributo tecnico-politico al dibattito in corso.

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Art. 1. Permesso di soggiorno per motivi umanitari

1. Al decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) All’articolo 1, comma 1, alle parole «della qualifica di beneficiario di prote­zione internazionale» sono aggiunte le parole «e umanitaria»;

b) Il Capo IV è rubricato «Protezione sussidiaria e umanitaria»;

c) Dopo l’articolo 15 è aggiunto il seguente articolo 15 bis:

«Articolo 15-bis. La Commissione territoriale di cui all’articolo 27, primo comma, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, riconosce la prote­zione umanitaria quando non sussistono i presupposti per il riconoscimen­to della protezione internazionale, ma vi sono fondati motivi di ritenere che lo straniero interessato:

  • Non può godere nel suo paese di un effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, come prescritto dall’articolo 10 della stessa;
  • ha subito gravi violazioni dei suoi diritti fondamentali nel paese di origine o nei paesi che ha attraversato prima di arrivare in Italia;
  • ha intrapreso il viaggio per arrivare in Italia quando era ancora mi­norenne;
  • Abita in Italia da tempo, e ha maturato legami affettivi, familiari e sociali tali da rendere irragionevole e impraticabile un suo ritorno al paese di origine;
  • Abita in Italia da tempo, e si è stabilmente inserito nel mercato del lavoro»

d) All’articolo 16, comma 1, dopo le parole «lo status di protezione sussidia­ria», sono aggiunte le parole «e quello di protezione umanitaria»

e) All’articolo 16, comma 1, la lettera d-bis è sostituita dalla seguente: «costitui­sca un pericolo concreto ed attuale per l’ordine e la sicurezza pubblica, desumi­bile da circostanze di fatto che devono essere indicate nel provvedimento di re­voca»

f) All’articolo 23 è aggiunto i seguenti commi 3 e 4:

«3. Ai titolari dello status di protezione umanitaria è rilasciato un per­messo di soggiorno per protezione umanitaria, della durata di due anni. Tale permesso di soggiorno consente l’accesso al lavoro e allo studio ed è convertibile in un permesso per motivi di lavoro, sussistendone i requisiti.

4. Il permesso di soggiorno di cui al comma 3 può essere richiesto anche al Questore, al di fuori della procedura di protezione internazionale».

Art. 2. Abrogazione delle norme in materia di domande manifestamente infondate e di procedure accelerate

1. Al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti mo­dificazioni:

a) L’articolo 2-bis è abrogato

b) All’articolo 9, il comma 2-bis è abrogato

c) All’articolo 10, comma 1, le parole da «L’ufficio di polizia informa il richie­dente» a «può essere rigettata ai sensi dell’articolo 9, comma 2-bis» sono abroga­te;

d) All’articolo 10, comma 2, la lettera d-bis) è abrogata

e) All’articolo 28, comma 1, lettera c-ter) è abrogata

f) L’articolo 28-bis è abrogato;

g) L’articolo 28-ter è abrogato;

h) All’articolo 32, comma 1, la lettera b-bis) è abrogata.

Art. 3. Norme per fronteggiare l’emergenza Covid-19

1. All’articolo 35 comma 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo la lettera e), è aggiunta la seguente lettera f): «L’accesso al Medico di Assistenza Primaria e al Medico di Continuità Assistenziale».

2. Fino al 31 Dicembre 2020, l’accesso alle prestazioni di cui all’articolo 35 com­ma 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 è garantito anche ai cittadini stranieri soggiornanti con un visto di breve durata, nonché ai cittadini degli Sta­ti Membri dell’Unione Europea che non siano autorizzati all’iscrizione al Servi­zio Sanitario Nazionale. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394.

3. I permessi di soggiorno in scadenza nell’anno 2020 sono prorogati fino al 31 Dicembre 2020.

4. La disposizione di cui al comma 3 si applica anche ai permessi di soggiorno che, alla data dell’entrata in vigore della presente legge, erano stati già rifiutati, revocati o annullati.

5. Fino al 31 Dicembre 2020 sono sospesi tutti i procedimenti di revoca dei per-messi di soggiorno.

6. Il termine temporale di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 può essere ulteriormente prorogato, per ragioni legate all’emergenza sanitaria da Covid-19, con decreto del Ministero dell’Interno, emanato di concerto con il Ministero della Salute.

Art. 4. Regolarizzazione

1. Il cittadino straniero dimorante sul territorio nazionale, ma privo di un tito­lo di soggiorno, può dichiarare entro il 30 Giugno 2020 la sua presenza al Que­store della provincia in cui dimora, e la sua volontà di regolarizzare il proprio status giuridico.

2. La dichiarazione di cui al comma 1 è effettuata con modalità telematiche de­finite dal Ministero dell’Interno.

3. Il Questore, verificata la sussistenza dei requisiti per l’ingresso in Italia di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, rilascia un permes­so di soggiorno per attesa occupazione.

4. Il permesso di cui al comma 3 è rilasciato in deroga ai requisiti di previa re­golarità del soggiorno, di perdita del posto di lavoro e di iscrizione ai Centri per l’Impiego di cui all’articolo 22, comma 11 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

5. Per il rinnovo o la conversione del permesso di cui al comma 3 si applicano, in quanto compatibili, le norme di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e all’articolo 37 del Decreto Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394.

6. La ricevuta della dichiarazione di cui al comma 1, unitamente al passaporto dell’interessato in corso di validità, è titolo idoneo per l’iscrizione al Servizio Sa­nitario Nazionale.

 

Il Collettivo di Adif

Migranti e Covid-19, alcune proposte

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

La condizione di irregolarità in cui vivono molti migranti è da tempo insostenibile e inaccettabile, e lo è a maggior ragione nella fase di pandemia che stiamo vivendo in queste settimane. In primo luogo, la presenza di uomini e donne «invisibili», senza diritti, compromette la coesione sociale e rende più difficile l’attuazione delle misure di profilassi. In secondo luogo, l’irregolarità alimenta i circuiti del lavoro nero, grigio e sommerso, mette a repentaglio la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolti, e genera un’imponente evasione contributiva. Infine, interi settori produttivi (come l’agricoltura) registrano serie carenze di manodopera, anche per il venir meno di quasi 1 milione di lavoratori stagionali provenienti dai paesi UE.

In una fase così straordinaria non si possono continuare a utilizzare gli strumenti ordinari di regolazione dei fenomeni migratori: tanto più che questi strumenti si sono rivelati lesivi dei diritti fondamentali, e spesso inefficaci rispetto ai loro (discutibili) scopi dichiarati.

Per questo, guardiamo con favore ai diversi appelli circolati in questi giorni (lanciati, ad esempio, da alcuni dirigenti sindacali, dai Radicali o dalla Campagna Ero Straniero) nei quali si propone una regolarizzazione degli stranieri che vivono nel nostro paese. In particolare, come Adif abbiamo aderito all’appello «Siamo Qui: Sanatoria Subito», sottoscritto da numerose associazioni, che chiede – in attesa di «un profondo ripensamento delle politiche migratorie» – l’avvio di una regolarizzazione «che abbia come unico presupposto la presenza in Italia a oggi».

Condividendo pienamente quest’ultima proposta, riteniamo utile suggerire alcune misure concrete, che potrebbero rappresentare – se attuate – un primo, tangibile risultato a beneficio degli uomini e delle donne migranti presenti in Italia, e che al contempo potrebbero «smuovere le acque» di un contesto politico e sociale in movimento. Avanziamo qui di seguito alcune proposte, che ovviamente potranno essere integrate da suggerimenti e valutazioni che cercheremo di recepire.

Moratoria su dinieghi, preavvisi di rigetto e revoche di titoli di soggiorno

Nel contesto di drammatica emergenza sanitaria che stiamo vivendo, molte Questure continuano a notificare preavvisi di rigetto, dinieghi e revoche dei permessi di soggiorno. Allo stesso modo, le Prefetture continuano a notificare i rifiuti delle richieste di protezione internazionale emessi dalle Commissioni Territoriali. Si tratta a nostro avviso di comportamenti irresponsabili e inaccettabili, lesivi – tra l’altro – dei diritti di difesa e di partecipazione al procedimento amministrativo (si ricorda che è molto difficile, nell’attuale situazione di isolamento in casa, trovare un avvocato). È dunque necessario e urgente sospendere, almeno fino al 15 Giugno prossimo, tutti i dinieghi, preavvisi di rigetto e tutte le revoche dei titoli di soggiorno: si tratterebbe di una misura coerente con le finalità del cosiddetto «decreto cura-Italia» (n. 18/2020), che all’articolo 103 prevede una proroga di tutti i permessi e di tutte le autorizzazioni in scadenza; la norma andrebbe opportunamente ampliata, o interpretata in modo estensivo.

Al tempo stesso, anche al fine di ridurre il contenzioso, si dovrebbe prevedere il riconoscimento d’ufficio di una protezione umanitaria a tutti coloro che hanno presentato istanza (anche reiterata) e che abbiano ricevuto un rifiuto, e a coloro che sono ancora in attesa di essere convocati per l’audizione in Commissione. Infine, è opportuno prorogare fino a 21 anni i permessi di soggiorno per minore età in scadenza.

Proroga visti o presenze per turismo e possibilità di conversione

Molti cittadini stranieri si trovano oggi in Italia con visti per turismo, oppure sono entrati in esenzione di visto, potendo soggiornare per un periodo massimo di tre mesi. Il citato «decreto cura-Italia» n. 18/2020 prevede all’articolo 103 che «tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti abilitativi comunque denominati, in scadenza tra il 31 Gennaio e il 15 Aprile 2020, conservano la loro validità fino al 15 Giugno 2020». Il visto turistico è da intendersi come un’autorizzazione, e rientra senz’altro in questa norma: si tratterebbe tuttavia di specificarlo, anche con circolare interpretativa. Sarebbe opportuno inoltre prevedere, almeno in questa fase di emergenza, la possibilità di convertire il soggiorno turistico (anche nei casi di esenzione del visto) in un permesso di soggiorno per inserimento stabile.

Iscrizione al Servizio Sanitario per tutti

Le Regioni non garantiscono un’adeguata assistenza sanitaria agli stranieri irregolari. Leggi il dossier Naga/Simm

È oggi quanto mai urgente garantire a tutti l’assistenza medica prevista dal Servizio Sanitario Nazionale. In teoria, anche i migranti irregolari possono accedere alle «cure urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative», come recita l’art. 35 comma 3 del Testo Unico Immigrazione; all’atto pratico, però, le Regioni non garantiscono un’effettiva assistenza a coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Come documenta una recente inchiesta condotta dal Naga e dalla Simm, in molti casi gli irregolari possono accedere solo ad ambulatori gestiti dal volontariato, o sono costretti ad andare al Pronto Soccorso: cosa, quest’ultima, che le linee guida emanate dal Ministero della Salute raccomandano esplicitamente di non fare in tempi di coronavirus. Vi sono infine i cittadini stranieri che soggiornano per motivi di turismo, che sono esclusi dall’accesso all’STP e non possono iscriversi al SSN.

In concreto, il Governo potrebbe emanare un decreto urgente che sospenda temporaneamente l’attuazione di alcune norme del Testo Unico, in particolare l’art. 34 comma 1 che subordina l’accesso al SSN alla regolarità del soggiorno. In via provvisoria, l’iscrizione al Servizio Sanitario dovrebbe essere garantita alle persone presenti a qualsiasi titolo sul territorio, indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno e dalla residenza anagrafica.

Ricordiamo che queste proposte sono attualmente il modo migliore per dare attuazione alle norme costituzionali in materia di diritti fondamentali, in particolare quelle di cui all’articolo 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo») e all’articolo 32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti»).

Negli 8 CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) attualmente in funzione risultavano presenti, alla data del 31 Marzo, 344 persone (fonte Garante per i detenuti). Pensiamo da sempre che il sistema CPR (come ogni altra forma di detenzione amministrativa) sia da abolire ma, mai come oggi, questo obiettivo si rende urgente.

L’Italia potrebbe far propria la raccomandazione del 26 Marzo scorso, con cui la Commissaria per i diritti umani al Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic invitava a chiudere le strutture di detenzione e a bloccare qualsiasi nuovo ingresso. La circolare della Ministra dell’Interno Lamorgese, anch’essa del 26 Marzo, non segue affatto tali indicazioni, e prevede misure in molti casi impraticabili e insufficienti (tra cui l’isolamento di alcuni detenuti). La “sospensione” della libertà di circolazione nell’area Schengen rende ancor più priva di senso la detenzione amministrativa.

Da ultimo la chiusura biunivoca delle frontiere impedisce di rimpatriare gli irregolari, e rende quindi del tutto irrealistiche – oltre che illegittime per violazione dell’art. 15 della Direttiva 115/2008 – le misure di espulsione e il connesso trattenimento nei Cpr.

Per tale ragione si impone la necessità di sospendere anche formalmente tutte le espulsioni, e di chiudere tutti i CPR, garantendo sistemazione in accoglienza volontaria alle persone ad oggi trattenute. Chiediamo alle istituzioni che si utilizzi questo periodo di chiusura per rivedere radicalmente il tema delle espulsioni, le ragioni e le modalità con cui queste sono state finora, pressoché illegittimamente, eseguite.

Riesame delle domande di asilo, reintroduzione della protezione umanitaria

Oggi che è scoppiata anche in Italia la pandemia da COVID-19 e che le prospettive di ritorno nei paesi di origine sono comunque azzerate, a fronte della situazione di emergenza sanitaria che si vive nei CAS, più che nei centri SIPROIMI – ex SPRAR, e della chiusura di tutte le frontiere anche per le operazioni di rimpatrio forzato, chiediamo con forza provvedimenti amministrativi di riesame delle decisioni di diniego ed il rilascio a tutti i richiedenti di un permesso di soggiorno provvisorio, convertibile alla scadenza in un permesso per ricerca lavoro.

Occorre accelerare al massimo le procedure istruttorie ancora aperte, senza procedere ad ulteriori audizioni, per riconoscere a tutti coloro che sono arrivati in Italia in condizioni di minore età un permesso di soggiorno per integrazione sociale e per eliminare gli effetti perversi dell’applicazione retroattiva della legge n. 132 del 2018. Occorre anche una modifica legislativa che reintroduca l’istituto della protezione umanitaria, in attuazione di una previsione costituzionale (art. 10 Cost.), con la conseguente abrogazione, per la parte che la riguarda, della legge n. 132 del 2018. Occorre, infine, sospendere anche formalmente i trasferimenti previsti dal Regolamento Dublino.

Una regolarizzazione per «ricerca di lavoro»

Si propone una regolarizzazione non immediatamente vincolata ad un rapporto di lavoro, né ad un’offerta di impiego (requisiti che difficilmente possono venir soddisfatti in un periodo di pandemia): una regolarizzazione «per ricerca di lavoro», dunque, il cui esito potrebbe essere il rilascio del permesso di soggiorno «per attesa occupazione» di cui all’articolo 22 comma 11 del Testo Unico Immigrazione. In considerazione della straordinaria situazione economica e sanitaria, non sarebbero richiesti – ai fini del rilascio di tale documento – i due requisiti indicati nel Testo Unico: la previa titolarità del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, e la perdita del posto di lavoro.

Come previsto dalla legge, il permesso così rilasciato avrebbe validità di un anno (eventualmente rinnovabile ai sensi della Circolare del Ministero dell’Interno prot. n. 0040579 del 03-10-2016), e dovrebbe – alla scadenza – poter essere convertito in altro permesso, qualora lo straniero ne abbia i requisiti.

Le domande di regolarizzazione dovrebbero essere inviate in forma telematica, mediante il Portale Nulla-Osta, il sito Cupa Project, o con altro strumento. La ricevuta dell’istanza, unitamente al passaporto, potrebbe valere come titolo di soggiorno provvisorio, valido anche per svolgere attività lavorativa ed ottenere la residenza anagrafica.

Adif- Associazione Diritti e Frontiere

9 Aprile 2020

La regolarizzazione: necessaria, ma non sufficiente

Originariamente pubblicato sul sito di Adif- Associazione Diritti e Frontiere

È circolato in questi giorni un appello, sottoscritto da numerose associazioni e realtà della società civile, che chiede una regolarizzazione degli immigrati sans papiers presenti in Italia.

Come ricordano i firmatari, la Camera dei Deputati aveva approvato il 23 Dicembre scorso un ordine del giorno in cui si chiedeva al Governo di «valutare l’opportunità di (…) un provvedimento (…) [di] regolarizzazione dei cittadini stranieri irregolari»: una formula molto cauta, a cui aveva fatto seguito una dichiarazione della Ministra Lamorgese altrettanto prudente, ma pur sempre di apertura («l’intenzione del Governo (…) è quella di valutare le questioni poste dall’ordine del giorno (…), nel quadro più generale di una complessiva rivisitazione delle (…) politiche migratorie»). A queste prime, timidissime dichiarazioni non è seguito però alcun passo concreto, e anche il dibattito pubblico sul tema si è presto ridotto al silenzio.

La regolarizzazione: un provvedimento necessario…

Eppure, un provvedimento di regolarizzazione è ormai urgente e non più procastinabile. È urgente soprattutto per quelle decine di migliaia di cittadini stranieri che soggiornano in Italia, e che sono attualmente condannati ad una condizione permanente di invisibilità. Bisogna ricordare infatti:

  1. che la normativa proibisce in linea di principio (salvo pochissime eccezioni) l’emersione di uno straniero irregolare, anche in presenza di un datore di lavoro disposto ad assumere;
  2. che coloro che entrano nel nostro paese con un visto turistico, valido per tre mesi, non possono ottenere un permesso di soggiorno per lavoro;
  3. che le quote annuali di ingresso – uno strumento che per alcuni anni aveva consentito una modalità sia pur tortuosa e impropria di regolarizzazione – sono state azzerate a partire dal 2012, con il risultato che oggi le frontiere sono chiuse agli ingressi per lavoro;
  4. che, infine, i decreti Salvini hanno di fatto smantellato il sistema di asilo, e hanno condannato all’irregolarità migliaia di richiedenti.

In pratica, chi oggi non ha un permesso di soggiorno non ha alcuna possibilità di ottenerlo: è evidente che una situazione del genere non è sostenibile. Da questo punto di vista, un provvedimento di regolarizzazione è assolutamente urgente e necessario: oltretutto una misura di questo tipo – come ha osservato la Campagna «Ero Straniero» ­ comporterebbe notevoli benefici per l’economia nazionale, e per lo stesso bilancio dello Stato.

Infine, nel drammatico periodo di emergenza pandemica che stiamo vivendo, un provvedimento di regolarizzazione aiuterebbe a far emergere le molte situazioni di marginalità abitativa, lavorativa e sociale in cui vivono i migranti irregolari. Hanno dunque ragione i firmatari dell’appello, quando dicono che «il tema (…) non può essere accantonato e rimandato a tempi migliori; anzi, diventa ancor più rilevante e urgente nella contingenza che ci troviamo ad attraversare».

… ma non sufficiente

Chiudere i Centri per il Rimpatrio
Leggi l’appello delle associazioni

Se però si guarda all’emergenza dettata dalla pandemia, un provvedimento di regolarizzazione appare certo necessario, ma non sufficiente. E ciò per almeno due motivi.

In primo luogo, perché una regolarizzazione incide sullo status giuridico delle persone straniere (cioè sulla regolarità del loro soggiorno), e non tutti i problemi posti dall’epidemia sono riconducibili allo status. Per fare solo un esempio, vi sono migliaia di richiedenti asilo perfettamente regolari, che vivono in strutture di accoglienza sovraffollate dove è molto alto il pericolo di contagio: in questo caso, il problema non è il permesso di soggiorno, ma la condizione abitativa in cui queste persone si trovano a vivere.

In secondo luogo perché – come vedremo tra un attimo – i tempi inevitabilmente lunghi di una «sanatoria» non consentirebbero di affrontare le urgenze connesse alla diffusione del Covid-19.

Svuotare i CPR, chiudere i centri di accoglienza sovraffollati

Sono dunque necessari provvedimenti che impediscano il diffondersi del virus in situazioni di sovraffollamento. Proprio in questi giorni, alcune associazioni hanno avanzato alcune proposte concrete, che andrebbero attuate immediatamente. Qui di seguito elenchiamo le più significative:

  • Chiusura di tutti i Centri di Accoglienza Straordinaria di media e grande dimensione, e ricollocazione degli ospiti in un sistema di accoglienza diffusa;
  • Accesso alle strutture Siproimi (ex Sprar) anche per i titolari di permessi di soggiorno attualmente esclusi (motivi umanitari, casi speciali regime transitorio, protezione speciale, richiesta di asilo etc.);
  • Proroga, almeno fino al 30 Aprile 2020, delle misure di «emergenza freddo», in modo da garantire un adeguato alloggio alle persone senza fissa dimora;
  • Sospensione dei provvedimenti di cessazione/revoca dell’accoglienza, nonché riammissione nelle strutture di coloro che ne sono stati allontanati;
  • Immediata sospensione di ogni nuovo ingresso nei CPR (centri per il rimpatrio) e, per tutti i migranti già trattenuti, attuazione delle misure alternative al trattenimento (come richiesto anche da una lettera aperta inviata al Ministero, il 12 Marzo scorso, da decine di avvocati e associazioni).

Perché la regolarizzazione non basta

Quanto ai provvedimenti che attengono allo status giuridico dei migranti, la regolarizzazione deve accompagnarsi ad altre misure che tengano conto dell’urgenza in cui stiamo vivendo. Per quanto si possano accellerare i tempi, infatti, una «sanatoria» richiederebbe mesi prima di concludersi: sarebbe necessario prevedere una prima fase di inoltro delle domande, poi la relativa valutazione da parte delle Questure, infine la consegna materiale dei permessi ai richiedenti.

Queste procedure rischierebbero di subire ritardi proprio a causa della pandemia. Se la fase di invio delle domande può essere affidata senza troppi problemi a strumenti informatizzati (come già accade, ad esempio, per le richieste di ricongiungimento familiare e di concessione della cittadinanza), per la consegna dei documenti è necessaria la presenza fisica dell’interessato: ed è difficile pensare di questi tempi a lunghe file in Questura per il ritiro dei permessi di soggiorno. Tra l’altro, lo straniero dovrebbe recarsi in Questura anche per le impronte digitali, obbligatorie per legge (Testo Unico Immigrazione, art. 5, comma 2-bis).

Nel periodo tra la presentazione delle domande e la conclusione della regolarizzazione, gli stranieri disporrebbero inoltre di una semplice ricevuta. Se questa ricevuta fosse in formato Pdf (come accade oggi per le procedure informatizzate del ricongiungimento e della cittadinanza), difficilmente potrebbe valere come documento sostitutivo del permesso di soggiorno. Si tratterebbe infatti di un file che non avrebbe i requisiti per costituire un documento di identificazione (DPR 445/00, art. 1 lettera d), a meno che non si trovi il modo di includervi la fotografia dell’interessato: cosa tecnicamente non facile da fare in tempi brevi.

Infine, per quanto le maglie di una «sanatoria» possano essere larghe, è ovvio che si debbano prevedere requisiti minimi di accesso (nelle regolarizzazioni del passato era richiesto di solito un contratto di assunzione o un’offerta di lavoro). Chi non avesse tali requisiti resterebbe comunque al di fuori: e vi sono alcune misure di prevenzione del Covid-19 che debbono essere applicate alla totalità della popolazione, senza distinzioni di status.

Cosa si dovrebbe fare, oltre alla «sanatoria»

La regolarizzazione, dunque, è un provvedimento importante, che però nell’attuale fase di emergenza deve essere accompagnato da altre misure. In particolare, è assolutamente indispensabile sospendere, almeno in via temporanea, il legame tra il permesso di soggiorno e l’accesso a determinati diritti e servizi.

Il problema riguarda in primo luogo l’alloggio: secondo l’art. 40 del Testo Unico Immigrazione, tutti i servizi di carattere abitativo (case popolari, alloggi di emergenza, centri collettivi etc.) sono riservati esclusivamente agli immigrati regolari. Prima del 2002, la legge consentiva ai Sindaci – qualora vi fossero particolari «situazioni di emergenza» – di alloggiare anche stranieri «non in regola con le disposizioni sull’ingresso e sul soggiorno», ma questa clausola fu abrogata dalla legge Bossi-Fini. Oggi, con lo sguardo retrospettivo di un’epoca che sta affrontando davvero una «situazione di emergenza», si vedono gli effetti sciagurati di norme così inutilmente vessatorie: eppure, ci dissero all’epoca, la Bossi-Fini serviva per tutelare «la nostra sicurezza»…

Con questa norma, è difficile oggi – se non impossibile – trovare una sistemazione dignitosa e sicura ai tanti cittadini stranieri che si trovano in condizioni di precarietà abitativa: dai braccianti che vivono nelle baraccopoli agricole del Sud, ai rom costretti nei «campi nomadi» informali, fino agli irregolari che alloggiano in sistemazioni di fortuna nelle periferie delle grandi città.

Le Regioni non garantiscono un’adeguata
assistenza sanitaria agli irregolari.
Leggi il dossier Naga/Simm

Ma il problema riguarda anche l’assistenza sanitaria. Perché è vero che, in teoria, anche i migranti irregolari possono accedere alle «cure urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative», come recita l’art. 35 comma 3 del Testo Unico Immigrazione; ma è altrettanto vero che, all’atto pratico, le Regioni non garantiscono un’effettiva assistenza sanitaria a coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Come documenta una recente inchiesta condotta dal Naga e dalla Simm, in molti casi gli stranieri irregolari possono accedere solo ad ambulatori gestiti dal volontariato, o sono costretti ad andare al Pronto Soccorso per avere qualunque forma di assistenza, anche la più banale: cosa, quest’ultima, che le linee guida emanate dal Ministero della Salute raccomandano esplicitamente di non fare in tempi di coronavirus.

Una proposta concreta

In concreto, il Governo potrebbe emanare un decreto urgente che sospenda temporaneamente la validità di alcune norme del Testo Unico, come l’art. 34 comma 1 (accesso al Servizio Sanitario Nazionale per gli stranieri regolarmente soggiornanti), l’art. 40 (accesso agli alloggi sociali e di emergenza abitativa, sempre per gli stranieri regolari) e l’art. 41 (accesso alle prestazioni del servizio sociale riservato ai titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno). In via provvisoria, tutti questi servizi (alloggio, provvidenze sociali, iscrizione al SSN ecc.) dovrebbero essere garantiti alle persone presenti a qualsiasi titolo sul territorio, indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno e dalla residenza anagrafica.

La sospensione temporanea di alcune norme, peraltro, non sarebbe una novità assoluta nelle politiche migratorie del nostro paese. Ad esempio, da anni ormai i cittadini stranieri non possono utilizzare le autocertificazioni nelle procedure relative all’immigrazione. C’è una legge secondo cui possono farlo, ma la validità di questa legge è per l’appunto sospesa, e da tempo la «sospensione» viene prorogata di anno in anno, nel classico provvisorio che diventa definitivo. Se il governo lo ha fatto sulle autocertificazioni, perché non dovrebbe farlo per una questione assai più importante, e cioè la tutela della salute in un periodo di epidemia?

Sergio Bontempelli

Ungheria, il reato di solidarietà

Originariamente pubblicato sul sito di A-dif

In Ungheria, il governo di Viktor Orban ha presentato in Parlamento un “pacchetto” di misure – che comprendono anche una modifica alla Costituzione – volte a “contrastare l’immigrazione irregolare”.

La stampa magiara ha ribattezzato le riforme col nome di “Stop Soros”, perché lo scopo dichiarato dal governo è quello di colpire le Ong impegnate in attività di solidarietà e di sostegno ai richiedenti asilo e ai rifugiati: e poiché alcune di queste Ong fanno capo a George Soros, o ricevono finanziamenti dalle sue Fondazioni, tutto viene presentato come una battaglia tra il premier ungherese e lo stesso Soros.

In realtà, ciò che Orban intende colpire è quella parte della società civile ungherese che si impegna per fornire assistenza ai rifugiati, ma anche per garantire i diritti umani dei migranti e dei transitanti. Così, le riforme proposte dall’esecutivo Orban sono un esempio, sicuramente estremo, di una tendenza che si va diffondendo in Europa: quello di criminalizzare la solidarietà e l’impegno civile, trasformandoli in reati.

Chi scrive non è esperto di cose ungheresi, né conosce a fondo il dibattito che si è sviluppato nel paese magiaro. Per la vicenda della riforma cosiddetta “Stop Soros” si rimanda, in lingua italiana, agli articoli usciti in questi giorni su Il Manifesto, Il Fatto Quotidiano, o su Il Post. Chi è in grado di leggere in inglese può rivolgersi al Guardian, o può vedere i comunicati dell’Hungarian Helsinki Committee, una delle Ong prese di mira dalla furia di Orban.

Qui, più semplicemente, si propone la traduzione in italiano di una delle norme più controverse del “pacchetto”, quella che riguarda appunto il reato di solidarietà.

Il testo che trovate qui sotto è tradotto dalla versione non ufficiale in inglese a cura dello stesso Hungarian Helsinki Committee. È quindi la “traduzione di una traduzione”, con i limiti che questo può comportare, e che si possono facilmente immaginare: ma sembra comunque utile per capire più a fondo le forme e i modi in cui viene articolato il “reato di solidarietà” nel dispositivo della riforma. I fortunati lettori che sono in grado di leggere in lingua ungherese possono trovare la versione originale qui.

 

Governo ungherese, disegno di legge n. T333, che modifica alcune leggi relative a provvedimenti di contrasto all’immigrazione irregolare

Magyarország Kormánya, T/333. számú törvényjavaslat egyes törvényeknek a jogellenes bevándorlás elleni intézkedésekkel kapcsolatos módosításáról

Articolo 11

(1) Nella legge C/2012 recante Codice Penale di Ungheria (di seguito indicata come “Codice Penale”), all’articolo 353 è aggiunto il seguente articolo 353-bis:

«Articolo 353 bis. Favoreggiamento dell’immigrazione illegale
(1) Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, è punito con l’arresto fino a due anni chiunque si impegni in attività organizzate al fine di
(a) consentire l’avvio di una procedura di asilo in Ungheria in favore di uno straniero che nel paese di origine, in quello di residenza abituale o in quello di transito, non è stato oggetto di persecuzione per motivi di razza, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, religione o opinione politica, o il cui timore di persecuzione non è fondato,
(b) ovvero al fine di ottenere un permesso di soggiorno per uno straniero che entri o soggiorni illegalmente in Ungheria.
(2) Chiunque fornisca mezzi finanziari per commettere il reato di cui alla comma 1, o che svolga regolarmente tali attività organizzate, è punibile con una pena detentiva fino a un anno.
(3) Sono punibili ai sensi del comma 2, coloro che commettono il reato di cui al comma 1:
a) a fine di lucro, oppure
b) fornendo supporto a più di una persona, oppure
c) agendo entro un’area di 8 km dalle frontiere esterne dell’Ungheria, così come definite all’articolo 2 punto 2 del Codice Frontiere Schengen, o dalle segnalazioni di confine.
(4) La pena relativa ai reati di cui al comma 1 può essere ridotta, e può essere altresì revocata in casi particolari, quando l’autore del reato rivela le circostanze del reato prima che venga avviata l’accusa.
(5) Ai fini del presente articolo, si considera impegnato in attività organizzata, in particolare se agisce per le finalità indicate al comma 1, colui che
a) organizza una sorveglianza alle frontiere esterne dell’Ungheria così come definite all’articolo 2 punto 2 del Regolamento (UE) 2016/399 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, che istituisce un codice dell’Unione relativo al regime di attraversamento delle frontiere (codice frontiere Schengen).
b) prepara o distribuisce materiali informativi, ovvero commissiona ad altri tale attività,
c) crea o gestisce un network».

 

Sergio Bontempelli

1 Giugno 2018

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