Regno Unito: lo scandalo degli “stranieri a casa propria”

Originariamente pubblicato sul sito di Adif

A Londra si dimette un ministro per lo “scandalo Windrush”: migliaia di persone arrivate decenni fa nel Regno Unito si ritrovano classificate come “clandestine” per un cavillo burocratico

Immaginate un cittadino italiano, una persona qualunque, che una Domenica qualunque, di sera, vada a dormire tranquillo, preparandosi alla sua consueta settimana di lavoro. Immaginate che al mattino si risvegli, prenda un autobus e vada in ufficio, come tutte le mattine che Dio mette al mondo.

Immaginate ora che, arrivando in ufficio, il datore di lavoro gli chieda il permesso di soggiorno, e lo minacci di licenziamento se il permesso non salta fuori. Immaginate che, improvvisamente, tutti gli chiedano il permesso di soggiorno: il medico che lo visita, la banca dove ha un conto corrente, l’agenzia delle entrate dove va a pagare le tasse, e persino la scuola dove vanno abitualmente i figli. E immaginate che, alla fine della giornata, si senta dire che rischia l’espulsione dal paese in cui è nato e vissuto. Un incubo degno di Kafka.

È quello che sta accadendo, nel Regno Unito, proprio in questi mesi: molti britannici – il numero esatto è sconosciuto, ma si tratta probabilmente di qualche migliaio – si sono ritrovati ad essere, letteralmente, “stranieri a casa propria”: da sempre cittadini, di fatto se non di nome, si ritrovano classificati come migranti, per di più irregolari e a rischio di rimpatrio.

È uno scandalo di cui in Italia non si è parlato quasi per nulla fino a quando, pochi giorni fa, la ministra dell’Interno britannica, Amber Rudd, è stata costretta a dimettersi: solo allora i giornali del Belpaese hanno dovuto darne notizia, peraltro senza chiarire un granché. Del resto la faccenda è maledettamente complessa, e per capirci qualcosa bisogna fare un salto indietro di settant’anni.

Atto primo, scena prima. La “Windrush Generation”

Eh sì, perché questa storia comincia addirittura nel 1945. La guerra è appena finita, nel Regno Unito l’economia sta ripartendo e le fabbriche hanno un disperato bisogno di manodopera. Il nuovo governo a guida laburista, presieduto da Clement Atlee, fa quel che può: fa arrivare i profughi di guerra dalla Germania, chiede all’Italia di inviare i suoi emigranti, ma i risultati lasciano a desiderare. E senza braccia, l’economia non può ripartire.

Nel 1948 viene approvata una nuova legge sulla cittadinanza britannica, il British Nationality Act, che in pratica conferisce la piena cittadinanza a tutti i sudditi coloniali. Per la precisione, la legge istituisce il nuovo status di “Cittadino del Regno Unito e delle Colonie” (Citizen of the United Kingdom and Colonies o CUKC). Da questo momento, solo per fare un esempio, un giamaicano ha gli stessi diritti di un inglese, o quasi: può circolare liberamente in tutto il territorio dell’Impero, e può andarsene a lavorare a Londra senza chiedere né visto né permesso di soggiorno. È una svolta epocale, perché in questo periodo l’Impero britannico è immenso: si è calcolato che quasi un quarto della popolazione di tutto il mondo si sia ritrovata ad avere lo status di CUKC, e dunque ad avere un diritto di ingresso, di soggiorno e di lavoro nella madrepatria inglese.

La nuova legge sulla nazionalità è stata approvata più per ragioni diplomatiche che per motivi legati all’immigrazione: il problema è soprattutto quello di garantirsi buone relazioni con i sudditi imperiali, che stanno un po’ ovunque rivendicando l’indipendenza. Ma gli effetti, in termini di flussi migratori, si fanno sentire subito.

Il 22 Giugno 1948, al porto di Tilbury a Londra, sbarca una ex nave militare, la SS Empire Windrush, con a bordo centinaia di giamaicani: è l’evento che simbolicamente segna l’inizio delle migrazioni coloniali in Gran Bretagna. Nel giro di pochi anni arrivano nel Regno Unito decine di migliaia di immigrati provenienti dai territori dell’Impero. Questa nuova e imprevista “ondata migratoria” risolve i problemi di reclutamento di manodopera – finalmente le fabbriche si riempiono di operai – ma provoca reazioni negative nella parte più conservatrice dell’elettorato: che un giamaicano, per di più nero, abbia gli stessi diritti di un londinese “puro” fa storcere il naso a più di un benpensante.

Ancora oggi, nell’immaginario collettivo le grandi migrazioni post-coloniali sono associate all’arrivo di quella nave, l’Empire Windrush: tanto che i lavoratori immigrati di quel periodo vengono spesso indicati come la “windrush generation”.

Atto primo, scena seconda. La graduale revoca della cittadinanza agli ex sudditi

La seconda parte di questa complicata vicenda si svolge tra gli Anni Sessanta e i primi Anni Settanta. Sulla scia di una virulenta campagna xenofoba, gli uomini e le donne della “windrush generation” vengono additati come causa di tutti i mali: insicurezza, criminalità, crisi economica, disoccupazione (vi ricorda qualcosa?). Un politico conservatore, Enoch Powell, invoca nel 1968 la reintroduzione dei controlli migratori, in un discorso famoso detto “dei fiumi di sangue” (qui una breve sintesi, qui la traduzione integrale in italiano).

Per reintrodurre i controlli migratori generalizzati (cioè per obbligare i migranti a richiedere un visto, un permesso di soggiorno, e soprattutto un’autorizzazione al lavoro) è però necessario revocare la cittadinanza agli ex sudditi dell’Impero, visto che sono loro a costituire la stragrande maggioranza degli stranieri nel Regno Unito. E così, a partire dal 1962 una serie di leggi introdurranno crescenti restrizioni nelle norme sulla nazionalità. Per molti anni, nel Regno Unito, la normativa sull’immigrazione è stata anche e soprattutto una normativa sulla cittadinanza.

Con la legge del 1971 (Immigration Act 1971) i “Cittadini del Regno Unito e delle Colonie” vengono divisi in due grandi categorie: coloro che sono nati nel Regno Unito, o che al momento dell’approvazione delle nuove norme vi risiedono da almeno cinque anni, restano cittadini a pieno titolo, e continuano a godere del diritto alla libera circolazione; tutti gli altri devono richiedere un permesso speciale per poter vivere e lavorare nel territorio della madrepatria. I primi vengono chiamati “patrial”, una parola dell’inglese arcaico che significa “del, o appartenente al, proprio paese natale”; tutti gli altri sono “non-patrial”, perdono gran parte dei diritti di cittadinanza che avevano nel 1948, e sono persino soggetti ad espulsione se non hanno i documenti in regola.

Questa nuova suddivisione tra “patrial” e “non-patrial” rischia però di compromettere i diritti acquisiti di molti lavoratori stranieri che soggiornano da anni nel paese. Così, all’indomani dell’approvazione della legge, il governo vara quella che è ricordata come la prima “sanatoria” del Regno Unito: l’11 Aprile 1974, alla Camera dei Comuni, il Ministro dell’Interno Roy Jenkins spiega di non aver «disposto l’allontanamento di alcun cittadino del Commonwealth o del Pakistan che sia entrato prima del 1 Gennaio 1973 [data di effettiva entrata in vigore della legge del 1971]». Dunque, chi dimostra di essere entrato nel territorio prima di quella fatidica data non è considerato irregolare, e anzi ottiene un Indefinite Leave to Remain, ossia un permesso di soggiorno a tempo indeterminato.

Atto primo, scena terza. Il “pasticcio” del mancato censimento

E qui accade il primo grande pasticcio, che è un po’ all’origine delle polemiche di questi giorni. Dopo la prima “sanatoria” del 1974, il Governo non tiene alcun “censimento” esatto delle persone regolarizzate. Molti, tra l’altro, sono bambini che non hanno un proprio passaporto, ma sono inseriti in quello dei genitori.

Così, quando il passaporto di un adulto scade e si procede al rinnovo, l’amministrazione non ha modo di verificare se il possessore ha effettivamente un diritto di soggiorno (all’epoca il diritto di soggiorno è inserito con una menzione nel passaporto). E la stessa cosa accade per i minori che arrivano alla maggiore età: chiedono il loro passaporto, ma non hanno modo di documentare il loro diritto a restare nel territorio.

La cosa però passa sotto silenzio, perché quei lavoratori stranieri abitano in Gran Bretagna ormai da anni, e nessuno contesta loro il diritto di rimanere.

Atto secondo, scena prima. La legge del 2014, un “pacchetto sicurezza” in salsa britannica

La vicenda esplode nel 2014, quando viene approvata una nuova legge particolarmente restrittiva sull’immigrazione, l’Immigration Act 2014. Come spiega un avvocato inglese nel suo documentatissimo blog, «la Parte Terza della legge si intitola “Accesso ai Servizi” e disciplina l’accesso dei migranti a servizi importanti come l’affitto di un alloggio. Con le nuove norme, i proprietari di casa sono soggetti a sanzioni (multe fino a 3.000 sterline) se affittano locali a migranti che non soggiornano legalmente nel Regno Unito; in virtù di una successiva modifica alla legge del 2014, essi possono essere puniti con la detenzione fino a 5 anni».

Con disposizioni che ricordano quelle varate in Italia nel 2009 con il “Pacchetto Sicurezza”, tutti coloro che prestano servizi ai migranti – i proprietari che affittano alloggi, gli imprenditori che assumono, le banche che aprono conti correnti, e così via – sono obbligati a verificare la regolarità del soggiorno dei loro utenti o clienti stranieri.

La norma è coerente con le intenzioni dichiarate da Theresa May nel 2012, espresse con una formula rimasta famosa: «creare un ambiente ostile all’immigrazione irregolare, in modo da scoraggiarla». Ossia rendere la vita impossibile ai migranti privi di permesso di soggiorno, in modo da costringerli ad andarsene. Una strategia che, tra l’altro, non ha mai funzionato (e l’esperienza italiana lo dimostra con dovizia di prove…).

Atto secondo, scena seconda. Il dramma degli “windrush”

Così, tutti gli stranieri si sono visti richiedere il permesso di soggiorno dai loro datori di lavoro, dalle loro banche o dai loro proprietari di casa. E anche gli immigrati della windrush generation, o i loro figli, hanno dovuto esibire i documenti che attestavano la regolarità della loro presenza: molti, quindi, hanno dovuto andare a caccia di “prove” per dimostrare la loro presenza prima del fatidico anno 1973.

Il problema è che queste prove sono nel frattempo sparite. Tra l’altro, come ha rivelato di recente il Guardian, l’amministrazione ha pensato bene di distruggere, nel 2010, anche le carte di imbarco della fatidica nave Empire Windrush: documenti che potevano essere utilizzati appunto come prova della presenza sul territorio britannico.

L’ultimo atto del dramma e le polemiche di questi giorni

Il resto è cronaca di queste ultime settimane. Nei primi mesi dell’anno, il Guardian pubblica numerose testimonianze, a metà tra il tragico e il grottesco: si va da Paulette Wilson, 61 anni di cui 50 trascorsi in Gran Bretagna, ex cuoca alla “buvette” della Camera dei Comuni, diventata “clandestina” e addirittura trattenuta in un centro di detenzione, fino a Renford McIntyre, che dopo una vita trascorsa a lavorare nel paese si è ritrovato irregolare e senza fissa dimora per aver perso l’alloggio…

Il Governo inglese, messo alle strette sia dall’opinione pubblica interna che dai capi di governo dei paesi ex-coloniali caraibici, ha inanellato un passo falso dietro l’altro, e alla fine la ministra dell’Interno britannica, Amber Rudd, è stata costretta alle dimissioni.

Resta la tragica realtà, che dovrebbe far riflettere anche qui in Italia. La “guerra all’immigrazione clandestina” rischia di colpire anche chi è “immigrato” per modo di dire: perché è soltanto figlio di immigrati, o perché è arrivato trenta, quaranta, cinquant’anni fa. E rischia di colpire anche tutti i cittadini e lo stato di diritto.

Sergio Bontempelli

 

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