Migranti, che cos’è la “protezione speciale” che il decreto Cutro vorrebbe abolire

Originariamente pubblicato in “Per un’Altra Città”, 16 Maggio 2023

Alla fine quello che molti di noi temevano è accaduto: il tristemente noto “Decreto Cutro” è stato convertito in legge: si tratta, come è stato scritto, di un provvedimento pesantissimo, che rischia di ricacciare nell’irregolarità migliaia di uomini e donne migranti, e che lede un diritto di asilo peraltro già compromesso dalle (contro)riforme degli ultimi anni. Tra le disposizioni più contestate c’è quella che ridimensiona fortemente – pur senza riuscire ad abrogarla del tutto – la cosiddetta «protezione speciale».

Ma cos’è esattamente la protezione speciale? Alcuni organi di stampa hanno cercato di spiegarlo, ma l’argomento è molto tecnico, e si ha l’impressione che gli stessi giornalisti facciano fatica a comprenderlo. Proviamo dunque a vederci più chiaro.

Le tipologie di protezione

La prima cosa da sapere è che nel linguaggio giuridico si chiama «protezione» il diritto a non essere espulsi e a rimanere legalmente in Italia: in prima approssimazione possiamo dire quindi che abbiamo a che fare con una specifica tipologia di permesso di soggiorno. Tuttavia, a differenza dei permessi di soggiorno «classici» – quelli, per intenderci, rilasciati per motivi di lavoro o di studio – la «protezione speciale» è pensata per tutelare i migranti che fuggono da violenze, abusi e violazioni subìte nelle loro terre di origine: insieme alle altre forme di «protezione», su cui ci soffermeremo tra un attimo, serve per garantire il diritto di asilo.

E qui le parole sono importanti. Abbiamo detto «diritto di asilo» e non semplicemente «asilo» perché, secondo le norme internazionali, l’Italia è obbligata ad accogliere gli stranieri vittime di persecuzioni o abusi. Un diritto è tale proprio perché ad esso corrisponde un dovere a carico dello Stato: non è dunque possibile limitare o comprimere l’asilo in nome di un’astratta «salvaguardia dei confini», come sembra pensare il Governo in carica.

Ma torniamo al nostro ragionamento. Lo straniero che, arrivato in Italia, intenda chiedere protezione al nostro Paese, può presentare una formale domanda di asilo. La domanda viene valutata dalla cosiddetta «Commissione Territoriale», che è l’organismo competente a decidere su queste materie. Esaminata la domanda, la Commissione può rifiutarla del tutto (e in questo caso l’interessato deve allontanarsi dall’Italia, salvo che non faccia ricorso al tribunale), oppure può riconoscere una delle tre «protezioni» previste dalla legge: lo status di rifugiato, la protezione «sussidiaria» o – appunto – la protezione «speciale».

Ed eccoci arrivati al dunque: cerchiamo di capire cosa sono esattamente queste tre forme di protezione, che come abbiamo visto corrispondono ad altrettanti permessi di soggiorno. La prima, lo status di rifugiato, è riconosciuta allo straniero che ha un «fondato timore di persecuzione», e che per questo non può o non vuole tornare al suo Paese di origine. La seconda, la «sussidiaria», viene accordata a chi fugge da guerre e conflitti armati, oppure a chi – in caso di rimpatrio – potrebbe subire una condanna a morte o una qualche forma di tortura.

Se queste formulazioni vi sembrano un po’ vaghe, generiche o addirittura confuse, non avete tutti i torti: da tempo giuristi, studiosi e magistrati si interrogano sul loro significato, senza arrivare a conclusioni univoche. Cosa si intende, ad esempio, con la parola «persecuzione»? Come si distingue la persecuzione da una generica ostilità, o da un controllo poliziesco più «occhiuto» del normale? Essere perseguitati significa necessariamente subire una qualche violenza, o può essere sufficiente una minaccia, un’intimidazione, un avvertimento? E ancora: perché la tortura – che a rigor di logica dovrebbe essere la forma più estrema di persecuzione – viene inserita nella protezione sussidiaria e non nello status di rifugiato? Le risposte a queste domande non si trovano direttamente nei testi normativi: sono i giuristi, i magistrati e i membri delle Commissioni che devono interpretare le leggi, conferendo un significato univoco a formulazioni ambigue o comunque problematiche.

L’asilo costituzionale e la «terza protezione»

I lettori più attenti avranno notato che in questo discorso manca qualcosa: e quel «qualcosa» è la Carta Costituzionale, vero e proprio «elefante nel tinello» di tutto il ragionamento sulla protezione. Come si sa, l’articolo 10 comma 3 della nostra legge fondamentale stabilisce che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica».

In queste poche e semplici parole si delinea un concetto di asilo assai più ampio di quello definito dalle norme sulla «protezione». Non si parla (solo) di persecuzioni, torture, condanne a morte o pericoli derivanti da situazioni di conflitto armato; non si allude (solo) a una minaccia che incomba su un individuo, e che lo costringa a fuggire. Si prevede invece una tutela molto più estesa, da garantire a tutti coloro che non hanno la fortuna di vivere in Paesi democratici e rispettosi delle libertà fondamentali.

Per comprendere la differenza tra questo «asilo costituzionale» e lo «status di rifugiato» è utile rileggere una sentenza del Tribunale di Catania, risalente all’ormai lontano 2004 e riguardante un cittadino iracheno appartenente alla minoranza curda. Nel suo Paese l’uomo aveva lavorato come guardia carceraria in un istituto di pena, ed era stato accusato (ingiustamente) di complicità nell’evasione di alcuni detenuti: era perciò fuggito, si era rifugiato in Italia e aveva chiesto asilo, sostenendo di essere perseguitato dal regime di Saddam Hussein. Il Tribunale osservò che, dopo l’invasione dell’Iraq da parte della coalizione a guida americana, l’amministrazione facente capo a Saddam si era quasi completamente dissolta, e non poteva perciò «perseguitare» nessuno: di conseguenza, l’uomo non ottenne lo status di rifugiato. I giudici decisero però di riconoscere l’asilo «costituzionale», perché in Iraq le potenze occupanti non garantivano i diritti della popolazione civile, e non erano in grado di mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica. Morale della favola: senza l’articolo 10 della nostra Carta, quel cittadino iracheno non avrebbe mai ottenuto il permesso di soggiorno.

Attorno alla metà degli anni Duemila, proprio per dare attuazione al dettato costituzionale, le amministrazioni cominciarono a usare una norma semi-nascosta del Testo Unico sull’immigrazione, cioè della legge che regolava (e regola tuttora) l’ingresso e la permanenza degli stranieri in Italia. L’articolo 5 comma 6 del Testo Unico consentiva di rilasciare un permesso di soggiorno quando ricorrevano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali»: il riferimento era dunque alla Costituzione ma anche agli accordi multilaterali firmati dall’Italia, in primis la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

Nacque così una terza forma di protezione – la cosiddetta «protezione umanitaria»che andò ad aggiungersi allo status di rifugiato e alla «sussidiaria». E la Corte di Cassazione – in una sua storica sentenza del 2012 – invitò i giudici a non accordare più l’asilo sulla base dell’articolo 10 della Costituzione, perché – dissero gli ermellini – «il diritto di asilo [previsto dall’art. 10, ndr.] è oggi (…) interamente attuato (…) dalla esaustiva normativa [vigente]». Cioè perché esisteva una terza forma di protezione, chiamata ad attuare il dettato costituzionale.

La metto, la tolgo, la rimetto: l’altalena della protezione umanitaria

Con l’arrivo di Salvini al Ministero dell’Interno la protezione umanitaria divenne però il bersaglio di mille polemiche. Il nuovo inquilino del Viminale, dimostrando una crassa ignoranza sulla materia, protestò per i «troppi» migranti che accedevano a questo permesso (come se un diritto fondamentale potesse essere limitato a un «numero massimo» di beneficiari). Gli alti funzionari ministeriali, per assecondare i furori del loro comandante, scrissero – in una serie di slide illustrative di involontaria e irresistibile comicità – che si era «determinata una situazione paradossale, [con] un altissimo numero di permessi di soggiorno per cosiddetti (sic!) motivi umanitari, comprensivi delle più svariate ipotesi».

Sulla base di questi presupposti, nel 2018 il decreto Salvini abolì la norma del Testo Unico, e al suo posto introdusse una nuova forma di protezione, chiamata «protezione speciale», che poteva essere riconosciuta solo in presenza di circostanze ben precise e limitate. In particolare, poteva ottenere il permesso di soggiorno chi avesse gravi motivi di salute, chi provenisse da Paesi dove si erano verificate calamità naturali (terremoti, alluvioni ecc.), o ancora chi, in caso di rimpatrio, corresse il pericolo di subire forme di tortura o di persecuzione (e qui la norma era confusionaria e incoerente, perché faceva riferimento a fattispecie già ricomprese nelle altre forme di protezione).

Dopo la (temporanea) uscita di scena del leader della Lega, la nuova Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese abrogò il decreto Salvini e reintrodusse la «vecchia» protezione umanitaria, aggiungendovi però un ulteriore e importante tassello: il permesso di soggiorno poteva essere rilasciato ora non solo per ottemperare agli «obblighi costituzionali o internazionali», come era scritto nella storica norma del Testo Unico, ma anche quando «l’allontanamento [dello straniero dall’Italia] [poteva comportare] una violazione del diritto alla vita privata e familiare».

Qui la legge faceva riferimento alla posizione assunta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: nella sentenza «Hamidovic contro Italia» del 2012, i giudici di Strasburgo avevano condannato il nostro Paese per aver espulso una donna rom che viveva da anni sul territorio assieme al marito e ai figli piccoli. Secondo la Corte, era illegittimo allontanare dai suoi affetti familiari una cittadina straniera, anche se quest’ultima non aveva il permesso di soggiorno ed era irregolare.

Il decreto Cutro ha davvero abrogato la «protezione speciale»?

Il resto è cronaca di oggi: il decreto Cutro ha cercato di abolire, o comunque di ridimensionare fortemente, l’istituto della «protezione speciale», così come era stato delineato dalla riforma Lamorgese. In primo luogo, è stata abolita la convertibilità dei permessi per protezione, cioè la facoltà di trasformarli in permessi «normali» per lavoro o per studio. In secondo luogo, è stata modificata la norma istitutiva della protezione. Al Senato, Maurizio Gasparri ha addirittura proposto di cancellare del tutto il riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali»: poi, a quanto pare, è intervenuto Mattarella per ricordare che la Costituzione e i trattati internazionali si applicano lo stesso, anche quando la legge non lo dice. Povero Gasparri: nessuno lo aveva informato di come funziona uno Stato di diritto, e lui era all’oscuro di tutto…

Il riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali» è dunque rimasto in piedi – e questa è senz’altro una buona notizia – ma la norma sul «diritto alla vita privata e familiare» è stata cancellata. E tuttavia, così come la Costituzione si applica sempre e comunque, anche se la legge non lo specifica, allo stesso modo la Convenzione Europea sui diritti dell’uomo si applica sempre e comunque, anche se la legge non lo dice. Come hanno detto i giudici di Strasburgo, l’Italia è in ogni caso obbligata a tutelare la vita privata e familiare degli stranieri, anche riconoscendo loro un permesso di soggiorno. Nei prossimi mesi si apre dunque lo spazio per un’ampia battaglia politica e giuridica: dobbiamo ribadire che la protezione speciale non è stata affatto abolita, semplicemente perché il Parlamento non aveva e non ha il potere di abolirla. E dunque, come si diceva tanti anni fa, al lavoro, alla lotta!

Sergio Bontempelli