La Kobane dei rifugiati

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

I guerriglieri della Rojava, nel Kurdistan siriano, accolgono decine di migliaia di profughi nel loro territorio. Ne abbiamo parlato con una delegazione del loro governo, ricevuta al Parlamento Europeo dall’on. Barbara Spinelli

Molto si è parlato, in questi mesi, della “battaglia di Kobane”, in cui i guerriglieri del YPG – l’organizzazione dei curdi siriani parallela al PKK – hanno sconfitto e costretto alla ritirata l’ISIS. I drammatici giorni dell’assedio sono stati raccontati magistralmente da Corrado Formigli, nella puntata di Piazza Pulita dell’8 Dicembre 2014:

Si è invece parlato meno della «Repubblica della Rojava», cioè dello straordinario esperimento di autogoverno promosso proprio dallo YPG nella parte nord e nord-est della Siria. Abbiamo usato anche noi, per esigenze di semplificazione giornalistica, il termine “guerriglieri curdi”, ma si tratta appunto di una semplificazione: come ci ha raccontato un anno fa un bell’articolo di Sandro Mezzadra, il PKK di Abdullah Öcalan ha promosso una vera e propria “svolta anti-nazionalista”, rifiutando di declinare la propria battaglia in termini di particolarismo “etnico”.

Rojava: non uno “stato curdo”, ma una repubblica pluralista

Anche sul versante siriano, i guerriglieri dello YPG non si battono per «l’indipendenza dei curdi», ma per l’autogoverno di una regione in cui convivono popoli, gruppi sociali e religiosi diversi.

Non a caso l’area controllata dallo YPG non si chiama “Kurdistan siriano”, ma “Repubblica della Rojava”: e nella sua “Carta Costitutiva” questa nuova entità politica – non riconosciuta né dall’ONU né dall’Unione Europea – si definisce come «confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni» (si veda il testo della “Carta del Contratto Sociale della Rojava” in traduzione italiana). Come dire che il territorio non appartiene a un solo gruppo “etnico”, ma a tutti coloro che lo abitano.

Nel Medio Oriente di oggi, dove la diversità religiosa o linguistica è il pretesto per guerre, massacri e pulizie etniche, esiste dunque una forza – e addirittura un’entità statale, sia pure autoproclamata – che promuove il pluralismo e la convivenza.

La Carta della Rojava prevede la libertà di religione e di culto (art. 31), la libertà di associazione e di espressione politica e culturale (art. 32), il diritto di sciopero (art. 34), l’uguaglianza tra uomo e donna (artt. 27 e 28) e il rispetto dei diritti umani stabiliti dalle convenzioni internazionali (art. 21).

Certo, questi diritti sono sanciti in una situazione difficilissima, nel mezzo di un assedio e di una guerra tra le più sanguinose dell’ultimo secolo: l’effettiva attuazione della “Carta” deve fare i conti con il clima di emergenza, con la penuria di beni materiali, con la distruzione fisica delle città e delle strade. Non si tratta dunque di uno “Stato perfetto” né di una “utopia realizzata”, ma di un tentativo – complesso, contraddittorio, precario, instabile – di dare un senso politico e democratico alla guerriglia. Da salutare dunque come tale, senza trionfalismi né sottovalutazioni.

Profughi e asilo politico nella Rojava

«Ogni essere umano», recita lapidario l’art. 37 della Carta della Rojava, «ha il diritto di chiedere asilo politico». E in una situazione di guerra, sono molti i profughi che fuggono dagli scontri e si rifugiano nel territorio controllato dallo YPG.

L’accoglienza delle decine di migliaia di “displaced persons” è stata l’oggetto di un incontro, tenutosi la settimana scorsa negli uffici del Parlamento Europeo a Bruxelles, tra una delegazione del Governo della Rojava e l’Onorevole Barbara Spinelli, deputata del gruppo GUE/NGL. All’incontro eravamo presenti anche noi di ADIF.

«Ad oggi», ci hanno spiegato i dirigenti dello YPG, «è difficile anche per noi avere dati precisi sulla presenza dei rifugiati nel nostro territorio». La Rojava è in guerra, e l’apparato statale – ancora assai esile – si confonde e si sovrappone con le unità militari che sfidano ogni giorno le milizie islamiste: è dunque comprensibile che non esista un equivalente dell’ISTAT in grado di fornire dati attendibili e aggiornati. Eppure, al di là delle statistiche, la situazione sul terreno è insieme drammatica e interessante. Vediamola brevemente.

I rifugiati di Sinjar

Sinjar è una città collocata nel Nord-Ovest dell’Irak, nel territorio curdo-iracheno vicino al confine con la Siria. Si trova nell’area dove vivono gli yazidi, una minoranza religiosa curda, perseguitata con ferocia dall’ISIS. Nell’Agosto 2014 le milizie del sedicente stato islamico hanno occupato la città, e hanno commesso violenze e massacri di ogni tipo contro i suoi abitanti (vedi qui sotto il reportage video di Formigli).

Rifugiatisi nelle vicine montagne del Jebel Sinjar, gli yazidi hanno vissuto per settimane sotto assedio, circondati dai combattenti islamisti, senza cibo sufficiente per sopravvivere. Avrebbero dovuto liberarli i cosiddetti peshmerga, ossia le milizie della Regione Autonoma del Kurdistan iracheno (da non confondere con i guerriglieri curdi del PKK turco o dello YPG siriano). Invece sono stati proprio i combattenti della Rojava ad aprire un “corridoio” e a consentire così la fuga degli yazidi. «I peshmerga sono fuggiti, e ci hanno lasciato soli a combattere contro l’ISIS», ci spiegano i nostri interlocutori, ribadendo quel che già l’anno scorso avevano riferito molti media indipendenti.

I campi profughi della Rojava

Campo profughi “Newroz” a Derik-Al Malikiyah / Galleria di Thomas Rossi Rassloff – da  Flickr

 

 

Campi profughi nel Kurdistan siriano – Galleria © Corbis

Gli yazidi hanno abbandonato le montagne del Jebel Sinjar, e hanno raggiunto il territorio siriano, accampandosi nella città che i curdi chiamano Derik, e i siriani Al-Malikiyah. È nato così il principale campo profughi della Rojava, chiamato “Newroz” dal nome del capodanno curdo.

Nel Febbraio 2015, quando fu visitato da una delegazione della ONG Un Ponte Per… (una delle poche a fornire aiuti umanitari in quest’area), il campo ospitava circa 7.000 persone. Oggi, stando a quanto dicono i nostri interlocutori, nella struttura abitano decine di migliaia di profughi: molti sono yazidi, ma ci sono anche arabi siriani fuggiti da Raqqa e da altre zone controllate dall’Isis.

«Il campo è nato come insediamento spontaneo», ci spiegano ancora i delegati della Rojava, «il nostro governo ha cercato per quanto possibile di attrezzarlo». Molte tende hanno il simbolo dell’UNHCR, che però qui non è molto presente: «abbiamo enormi difficoltà a rapportarci con le organizzazioni internazionali», ci spiegano i nostri interlocutori, «perché la nostra Repubblica non è riconosciuta dall’ONU, né dagli Stati. Spesso gli aiuti delle Nazioni Unite arrivano grazie alla mediazione delle ONG, della Mezzaluna Rossa o della Croce Rossa».

Altra situazione critica è rappresentata da Kobane. «Molti abitanti della città erano fuggiti prima dell’assedio», ci spiegano, «oggi stanno tornando, ma le loro case sono completamente distrutte: così, intere famiglie – circa 25mila persone – vivono in tende e sistemazioni di fortuna».

In realtà, l’intero territorio della Rojava è costellato di insediamenti e di “campi profughi”, dove vivono sia i rifugiati veri e propri – coloro che sono fuggiti dalle aree di conflitto in Siria e in Iraq – sia i cosiddetti “IDP – internally displaced persons”, ossia gli sfollati interni (coloro che già risiedevano nella Rojava e vi sono rimasti, ma hanno perduto le loro case). La loro accoglienza è una delle sfide che la nuova Repubblica deve affrontare.

Sergio Bontempelli