Addio Ginevra bella

Articolo originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere
Selezionare i profughi sulla base della nazionalità – ad esempio per accogliere i siriani e per respingere chi viene dall’Africa occidentale – viola la Convenzione di Ginevra. Un breve excursus storico lo dimostra

«Quattro indiani? E che ci fanno qui? C’è forse la guerra in India?». Così si espresse Matteo Salvini nel corso della sua visita al CARA di Mineo, il 5 Settembre scorso, incontrando alcuni profughi provenienti da un paese (a suo dire) “sbagliato”: non essendoci un conflitto dichiarato nel Subcontinente – questa, in sostanza, la tesi del leader leghista – non si capisce perché gli indiani debbano essere accolti come richiedenti asilo.

Poche settimane dopo, l’Unione Europea lanciava i cosiddetti «hot-spot», centri di identificazione e selezione dei migranti nei luoghi di sbarco. Secondo molte testimonianze, nei nascenti “hotspot” italiani i profughi vengono suddivisi per nazionalità: a coloro che provengono dall’Africa Occidentale (quindi da paesi come il Mali, il Senegal, la Nigeria o la Costa D’Avorio) viene spesso negata la possibilità di chiedere asilo (ne ha parlato anche la nostra Alessandra Ballerini, in un reportage dell’Ottobre scorso).

La logica è più o meno la stessa di Salvini: perché accogliere in Italia individui che non provengono da contesti di guerra, e che quindi sarebbero palesemente dei “falsi profughi”? Bruxelles ha addirittura proposto un elenco di “paesi terzi sicuri”, cioè di Stati democratici, non coinvolti in guerre e conflitti, i cui cittadini non dovrebbero essere ammessi allo status di rifugiati.

I rifugiati nel diritto internazionale: non solo “profughi di guerra”

Già, ma cosa c’è di sbagliato nel distinguere tra “vittime della guerra” (così vengono definiti i rifugiati da Salvini & co.), e semplici “persone in cerca di lavoro” (cioè migranti economici)? E perché, ad esempio, l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione in un suo documento ha sostenuto che «selezionare gli stranieri sbarcati sulla base della nazionalità» sarebbe una «violazione del diritto di asilo»?

In primo luogo, bisogna ricordare che, nel diritto internazionale, la definizione di rifugiato non coincide affatto con il concetto di “profugo di guerra”. Anche il nesso tra diritto di asilo e conflitti bellici – che Salvini dà per scontato, e che tanti giornalisti disinformati prendono per buono – non è rintracciabile nella Convenzione di Ginevra del 1951, quella che disciplina appunto il diritto di asilo.

Per rendersene conto basta dare un’occhiata veloce al primo articolo della Convenzione: qui, si stabilisce che il termine «rifugiato» si applica «a chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato (…), si trova fuori dello Stato di cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato». Dunque: è rifugiato chi ha un «fondato timore di persecuzione». E la persecuzione può essere una conseguenza della guerra, ma può benissimo avvenire anche in tempo di pace.

La selezione “per nazionalità”

È rifugiato “chiunque, nel giustificato timore di essere perseguitato…”

Ma c’è di più. Nel testo dell’articolo 1 – «chiunque, nel giustificato timore etc.» – la parola chiunque non è stata messa a caso: chi ha scritto la Convenzione intendeva dire che la persecuzione può avvenire in tempo di guerra e in tempo di pace, in Stati dittatoriali così come in paesi democratici, in aree culturalmente “arretrate” (o presunte tali) così come in territori “evoluti” e “civili”, nel Medio Oriente come in Africa, in America o in Europa.

Dunque, per decidere sulla legittimità di una domanda di asilo, è necessario valutare sempre il singolo caso, la storia del richiedente, la vicenda specifica che ha vissuto. Selezionare i richiedenti asilo sulla base della nazionalità – «i siriani sì perché in Siria c’è la guerra», «i senegalesi no perché il Senegal è un paese democratico» – è contrario alla lettera della Convenzione di Ginevra (a quel chiunque che campeggia nelle prime righe), ma soprattutto al suo spirito (all’intenzione di chi l’ha scritta e votata). E per capire lo “spirito” della Convenzione di Ginevra – e il significato di quel chiunque – sarà bene fare un piccolo flash-back storico.

Prima della Convenzione di Ginevra: i profughi dell’anteguerra

La Convenzione di Ginevra non è stata la prima a definire lo status di rifugiato. Già all’indomani della Prima Guerra Mondiale, dopo che violenze e pulizie etniche avevano insanguinato l’Europa, gli Stati aderenti alla Società delle Nazioni (l’«antenata» dell’ONU) decisero di garantire una qualche protezione ai profughi che, in fuga dai conflitti, erano stati privati della cittadinanza e non potevano dunque tornare nei loro paesi di origine.

Nel 1926, la Società delle Nazioni varò l’«Accordo relativo ai certificati di identità per i rifugiati russi e armeni». Gli armeni erano stati vittime del genocidio compiuto dalle autorità ottomane: nel frattempo si erano visti negare la cittadinanza dalla nuova Repubblica turca, e avevano perciò perduto il diritto ad avere un passaporto. Una situazione analoga riguardava i profughi russi, ai quali un decreto del 28 ottobre 1921 aveva tolto la nazionalità. Senza più documenti identificativi, i rifugiati vivevano da “irregolari” nei paesi di accoglienza.

Il “passaporto Nansen” per i rifugiati

Per rimediare a questa situazione, l’Accordo del 1926 prevedeva il rilascio di uno speciale passaporto internazionale, detto “certificato Nansen” dal nome dell’esploratore artico – Fridtjof Nansen, appunto – che era stato anche il primo Alto Commissario per i rifugiati: il certificato, rilasciato dalla Società delle Nazioni e riconosciuto internazionalmente, sostituiva il passaporto, e consentiva di ottenere permessi e titoli di soggiorno. Gli odierni “titoli di viaggio”, cioè i documenti che ancora oggi i paesi di accoglienza rilasciano ai rifugiati, sono un’eredità dei “certificati Nansen” dell’anteguerra.

I rifugiati “per categorie”

Le disposizioni dell’Accordo del 1926, come abbiamo visto, erano riservate esclusivamente ai rifugiati russi e armeni. Negli anni successivi, però, altri profughi si trovarono a fuggire dai loro paesi: assiri, curdi, ebrei tedeschi e molti altri si presentarono alle frontiere dei paesi “civili” per chiedere protezione.

Ogni volta che un nuovo gruppo si andava ad aggiungere alla tragica lista dei fuggiaschi, bisognava convocare una nuova Conferenza Internazionale, e ratificare una specifica convenzione dedicata a quella categoria di profughi: così, nel 1928 venne approvato l’accordo per assiri, assiro-caldei, curdi e turchi, nel 1935 fu la volta degli abitanti della regione della Saar annessa alla Germania, nel 1939 fu il turno dei profughi della zona dei Sudeti, e così via.

Questi accordi erano sostanzialmente identici: pressoché tutti prevedevano il rilascio del “certificato Nansen”, e la possibilità di soggiornare legalmente nei paesi di accoglienza. Sarebbe stato più saggio – e soprattutto più equo – introdurre una definizione generale di “rifugiato”, applicabile a tutti i perseguitati indipendentemente dall’origine etnica e dalla nazionalità: in questo modo, ogni gruppo di profughi avrebbe ottenuto immediatamente protezione, senza attendere una Conferenza Internazionale specifica. Ma gli Stati preferirono mantenere il sistema “per categorie”, che consentiva – per così dire – di non prendere impegni a lungo termine [1].

La “svolta” di Ginevra

La situazione cambiò completamente all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. I regimi dittatoriali erano caduti, gli statisti e i leader politici di molti paesi avevano vissuto, negli anni del conflitto, dure persecuzioni, e a volte – come nel caso italiano – erano stati essi stessi profughi, sfollati e rifugiati.

I Plenipotenziari firmano la Convenzione di Ginevra

Così, quando si decise di varare una nuova “Convenzione per lo Status di Rifugiato”, era diffusa la convinzione che si dovesse adottare un sistema più efficace ed equo rispetto al passato.

Fu la Francia la prima a proporre una definizione “universale”, che abbandonava il vecchio sistema “per categorie” (cioè per nazionalità): nel testo proposto dal Governo transalpino, doveva considerarsi rifugiato «chiunque abbia lasciato il paese di origine, e rifiuti di tornarvi avendo un timore giustificabile di persecuzione» [2].

Anche il Regno Unito propose una formulazione simile: doveva considerarsi rifugiato, secondo le autorità d’Oltremanica, «un individuo che, avendo lasciato il paese di residenza abituale per motivi legati alla persecuzione o al fondato timore di persecuzione, ha buone ragioni per non tornare in tale paese» [3].

Gli Stati Uniti continuarono a sostenere invece il vecchio sistema «per categorie»: il testo da loro presentato era lunghissimo – una lenzuolata, si direbbe oggi – ed elencava una ad una tutte le singole nazionalità che potevano accedere alla protezione. La proposta fu bocciata da tutti i paesi europei, e alla fine si arrivò al testo che conosciamo, con quel «chiunque» che rappresentava una scelta di campo precisa e determinata.

Lo spirito di Ginevra e le “nostre tradizioni”

Lo spirito della Convenzione di Ginevra è quindi chiaro: bisogna valutare i singoli casi individuali, perché la persecuzione può avvenire anche in contesti formalmente democratici, in paesi che non sono in guerra o che non vivono sotto dittatura.

In quello che potremmo chiamare lo spirito di Ginevra, insomma, chi richiede asilo deve essere accolto, deve avere il tempo per raccontare la sua storia, deve essere ascoltato, e le sue dichiarazioni devono essere attentamente soppesate: ne va dei diritti umani e delle libertà fondamentali degli individui.

È interessante osservare che, nel dibattito che portò alla Convenzione di Ginevra, anche gli italiani sostennero la necessità di una definizione “generale” di rifugiato: «la delegazione italiana», spiegarono i rappresentanti del Governo di Roma, «preferirebbe una definizione più ampia e più conforme alla situazione attuale», anche perché «il diritto di asilo è uno dei principi essenziali della Costituzione Italiana» [4]. Ricordare questo dettaglio è forse utile per Salvini: perché la tutela dei rifugiati fa parte delle «nostre radici», sancite dalla Costituzione. E si sa che la Lega ci tiene tanto, alle radici…

Sergio Bontempelli

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Note

[1] Per approfondire il sistema di protezione dei rifugiati nell’anteguerra vedi:
– Giovanni Ferrari, La Convenzione sullo Status dei rifugiati. Aspetti storici, Relazione tenuta all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Facoltà di Scienze Politiche, Cattedra di Diritto Internazionale, il 16 gennaio 2004, nell’ambito del XII° Corso Multidisciplinare Universitario “Asilo: dalla Convenzione di Ginevra alla Costituzione Europea” (12 dicembre 2003 – 14 maggio 2004). Leggi
– Paolo Farci (a cura di), Storia sulle origini e sulle cause dell’apolidia in Europa nel XX° secolo, Firenze 2015, dal sito Apolidia.org (ultimo accesso 3 Novembre 2019). Leggi
– René-Marie Rampelberg, Le passeport Nansen, 2012, dal sito Russky Most (ultimo accesso 18 Gennaio 2016)

[2] UN Ad Hoc Committee on Refugees and Stateless Persons, Ad Hoc Committee on Statelessness and Related Problems, Corrigendum to the Proposal for a Draft Convention Submitted by France, 18 Gennaio 1950, E/AC.32/L.3/Corr.1, disponibile su Refworld (ultimo accesso 3 Novembre 2019). Leggi

[3] UN Ad Hoc Committee on Refugees and Stateless Persons, Ad Hoc Committee on Statelessness and Related Problems, United Kingdom: Revised Draft Proposal for Article 1 (E/AC.32/2), 19 Gennaio 1950, E/AC.32/L.2/Rev.1, disponibile su Refworld (ultimo accesso 3 Novembre 2019). Leggi

[4] Comité spécial pour les réfugies et les apatrides, Deuxième session: Réfugiés et apatrides. Relevé des observations présentées par les Gouvernements et les institutions spécialisées au sujet du rapport du Comité spécial de l’apatridie et des problèmes connexes, 10 Agosto 1950 (document E/1618) (Note du Secrétaire général), disponibile su Refworld (ultimo accesso 3 Novembre 2019). Leggi