Sgomberi alla romana

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Corriere delle Migrazioni ha assistito al trentesimo smantellamento di un campo rom, effettuato dalla Giunta Marino. Ecco come funzionano gli sgomberi nella capitale

È mercoledì 9 luglio, sono le otto del mattino. Le pattuglie della polizia locale di Roma irrompono nel piccolo insediamento di Val d’Ala, nella zona nord della città: qui, ai bordi della ferrovia, vivono una quarantina di rom rumeni – molti dei quali minorenni – accampati alla meglio con tende da campeggio e ricoveri di fortuna. Sono disorientati e timorosi, gli abitanti del campo, ma non sorpresi: lo sgombero è stato annunciato già da qualche giorno, l’arrivo delle forze dell’ordine era previsto.

Peraltro, ad attendere le pattuglie non ci sono soltanto i rom. Anzi, al campo si è formato un vero e proprio “comitato di accoglienza”: l’associazione 21 Luglio, che contesta lo sgombero, ha chiamato a raccolta i cittadini per monitorare le operazioni. Così, già di primo mattino, ci sono fotografi, giornalisti e volontari. Gli attivisti della 21 Luglio, riconoscibili dalle t-shirt con il logo dell’associazione, parlano con le famiglie, spiegano cosa sta per accadere, dispensano consigli e suggerimenti.

Arriva la polizia municipale
Forse i più sorpresi sono proprio loro, gli uomini della Municipale: abituati a trattare con i rom, ma non con gli attivisti e i “contestatori”. Parcheggiano, scendono dalle macchine, si guardano intorno e hanno l’aria perplessa. Uno di loro, che dirige le operazioni, si avvicina e arriva faccia a faccia con Carlo Stasolla, presidente della «21 Luglio». «Siamo qui per monitorare il rispetto dei diritti umani», dice Stasolla con voce calma. «Riteniamo che questo sgombero non sia conforme alle procedure di legge; non vogliamo ostacolare il vostro lavoro, ma intendiamo rimanere qui e documentare quel che succede». L’interlocutore è visibilmente innervosito: «Questo campo è abusivo e illegale», risponde con fare seccato, «e deve essere chiuso: non vedo dov’è il problema». Stasolla ha tutta l’aria di chi, prevista l’obiezione, aveva preparato per tempo la risposta: «Ci sono garanzie sancite da norme internazionali: in caso di sgombero, gli abitanti devono essere informati preventivamente, e deve essere proposta una soluzione altern…». Ma il dirigente non ha voglia di discutere e taglia corto: «Va bene, state qui, ma non ostacolate le operazioni».

La ruspa
Gli agenti chiamano a raccolta le famiglie, le allontanano dalle tende, e chiedono anche a noi di tenerci a distanza. Poi fanno passare una piccola ruspa, che si avvicina sotto gli occhi attoniti dei bambini. In pochi minuti tutto viene travolto: tende, baracche, effetti personali dei rom sono distrutti. La ruspa si muove veloce, mentre alcuni agenti raccolgono i resti e li ammucchiano da una parte. Le facce dei rom sono intimidite, ma anche rassegnate: nessuno degli abitanti del campo protesta. Il silenzio è quasi irreale. Assieme ad altri giornalisti mi avvicino per fare delle foto, ma gli uomini della Municipale mi fermano: «Non potete stare qui, dovete allontanarvi». Carlo Stasolla si impunta: «I cronisti devono documentare le operazioni», dice, «non hanno intenzione di ostacolarvi». Il dirigente è visibilmente seccato: «Documenteranno le operazioni quando saranno terminate». Che è un po’ come andare allo stadio e accendere la telecamera quando la partita è finita. Glielo facciamo notare, al dirigente, ma lui non sente ragioni: «e non fate foto alla mia faccia, che sennò vi denuncio». Va bene, niente foto alla sua faccia. Sennò si arrabbia.

«Soluzioni» alternative
Gli uomini della Municipale si muovono con sicurezza, e hanno una strana confidenza con i rom: li salutano, li chiamano per nome, sorridono, fanno battute, elargiscono affettuose pacche sulle spalle. «Ormai li conosciamo da anni», mi dice il solito dirigente, che ha una gran voglia di parlare con me (forse deve discolparsi dei modi un po’ rudi che ha usato finora). «Sa, noi non ce l’abbiamo con loro, facciamo solo il nostro mestiere…». Un piccolo drappello di agenti si dispone vicino alle macchine. Una vigilessa chiama a raccolta le donne rom, convocandole ad una ad una. Un suo collega, che parla rumeno (un rumeno un po’ maccheronico, a dir la verità) e che per questo fa l’interprete, pone a tutte le stessa domanda: «Vuoi che ti troviamo una sistemazione per stasera? Possiamo darti un posto letto per te e per il tuo bambino, ma non puoi portare tuo marito». La risposta è sempre la stessa: «No, non voglio separarmi da mio marito». Ed è una risposta così scontata, che gli agenti hanno tutta l’aria di conoscerla già. Nessuna delle donne rom fa domande, nessuna protesta: sembra quasi che tutti – rom e agenti – recitino un copione mandato a memoria. Ogni volta che viene pronunciato il fatidico «no», il dirigente assume un’aria sbrigativa e si rivolge al collega interprete, «Vabbè dai, abbiamo capito, passiamo alla seconda domanda». La «seconda domanda» viene rivolta anche agli uomini: «Vuoi tornare in Romania? Possiamo darti un aiuto per le spese del viaggio». Qui le risposte sono meno scontate, e c’è qualcuno che accetta l’offerta. «Va bene, lasciaci il numero di telefono, ti richiamiamo noi».

Il tutto si svolge in una tranquillità irreale. È una specie di teatro dell’assurdo: i rom dovrebbero essere furibondi per la distruzione delle baracche, e invece sembrano tranquilli (o almeno rassegnati). La proposta di dividere le famiglie – accogliendo donne e bambini, e separandoli dagli uomini – è un po’ grottesca e un po’ umiliante, ma qui nessuno sembra farci caso: per gli agenti è «la prassi», e i rom ci hanno fatto l’abitudine. Per la verità anche io ci sono abituato, e infatti lì per lì non ci faccio caso: solo una collega giornalista, alla sua prima esperienza di sgombero, mi fa notare quanto sia assurda tutta la vicenda. In realtà, la proposta di separare le famiglie ha una sua logica, per quanto contorta: serve per poter dire, alla stampa e alle televisioni, che ai rom è stata offerta una «soluzione alternativa», e che sono stati loro a rifiutare. E succede spesso che i giornalisti (non tutti, solo quelli pigri e acquiescenti) prendano per buona la versione ufficiale, e ci ricamino sopra: ecco, i soliti zingari ingrati, che rifiutano le generose offerte del Comune…

La vertenza
Le operazioni sono durate sì e no un’ora. Adesso le baracche sono state distrutte, e il palcoscenico si chiude. I rom si allontanano dal campo e si dirigono verso il Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune: vanno a protestare contro lo sgombero, e a rivendicare una soluzione alternativa. Assieme a loro ci sono gli instancabili volontari della 21 Luglio, e anche Matteo de Bellis, dirigente di Amnesty International. Il resto è cronaca degli ultimi giorni. Lo sgombero è stato duramente contestato sia dall’Associazione 21 Luglio, sia da Amnesty International. Con due comunicati stampa congiunti, il primo il 9 luglio e il secondo l’11 luglio, le due organizzazioni hanno dapprima denunciato le violazioni dei diritti umani, e poi rivolto un appello urgente al sindaco di Roma al fine di trovare una soluzione immediata per far fronte all’emergenza. Poi, finalmente, nella giornata di venerdì, si è trovata una soluzione-tampone: «I rom», ha annunciato un comunicato della 21 Luglio, «sono stati trasferiti provvisoriamente in una struttura di accoglienza in città, dove risiederanno fino all’individuazione di ulteriori soluzioni». Un “tampone”, appunto. Che lascia aperto il nodo di sempre: a chi e a cosa servono gli sgomberi?

Sergio Bontempelli, 16 Luglio 2014