Diritti dei migranti e antirazzismo

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“I rom. Una storia”, le recensioni

 

 

 

Di seguito le recensioni, i commenti e i dibattiti sul libro I rom. Una storia edito da Carocci editore (2022)

 

 

– Vittorio Feltri, Conviene rivalutare i rom, in «Libero», 20 Aprile 2022, pag. 27. Leggi testo dell’articolo dal sito Dagospia, oppure guarda PDF FILE PROTETTO

Redazione sito Letture.org, “I rom. Una storia” di Sergio Bontempelli, intervista rilasciata alla redazione sul mio libro, pubblicata sul sito Letture.org, 22 Maggio 2022. Leggi

– Daniele Barbieri, Le nostre scomode verità, in «Le Monde Diplomatique», edizione italiana, n. 5, Maggio 2022, pag. 22. FILE PROTETTO

– Stefano Galieni, Quanti recinti attorno ai rom, in «Left», settimanale, n. 22, 3-9 Giugno 2022, pagg. 26-29. FILE PROTETTO. Acquista sul sito di Left

– 13 Giugno 2022. Intervista rilasciata alla redazione di Fahreneit, Radiotre:

Ascolta l’intera puntata sul sito di Radiotre

Scarica l’intervista in formato mp3 normale o compresso

 

“I rom. Una storia” di Sergio Bontempelli

Articolo originariamente pubblicato sul sito Letture.org

Dott. Sergio Bontempelli, Lei è autore del libro I rom. Una storia edito da Carocci: quali stereotipi caratterizzano la percezione, da parte dell’opinione pubblica italiana, delle minoranze romanes e quali dinamiche essi alimentano?

Direi che il principale stereotipo è quello dell’arretratezza: coloro che si avvicinano per la prima volta al mondo dei rom e dei sinti pensano spesso di incontrare popolazioni che, vivendo isolate dal corpo sociale, hanno preservato culture, modi di vivere, mentalità e tradizioni di un passato ormai scomparso. In fondo quando si parla di “nomadi” si pensa proprio a questo: a un mondo arcaico, forse addirittura primitivo (erano “nomadi” i cacciatori-raccoglitori della preistoria…), in ogni caso rimasto ai margini della modernità.

Dico questo pensando anche alla mia esperienza personale. Mi capita spesso di essere contattato da fotografi, antropologi o giornalisti che mi chiedono di incontrare i rom, di fare una visita in qualche campo della mia città. E quasi sempre questa richiesta ne veicola un’altra, che in un primo momento rimane sotto traccia ma che non tarda poi a essere esplicitata: mi si chiede di poter assistere a qualche evento “rituale”, ad esempio a un matrimonio, a un battesimo, a una festa “tipica” o “tradizionale”. Il sottinteso è che i rom e i sinti, in quanto popolazioni arcaiche, abbiano da offrire qualche spettacolo esotico: che, insomma, incontrare i rom significhi fare un viaggio in un mondo misterioso, orientaleggiante, quasi magico. Questa idea sembrerebbe veicolare un’immagine romantica e positiva dei rom, ma si converte facilmente in una forma di stigmatizzazione: un gruppo rimasto ad uno stadio primitivo, per quanto affascinante possa apparire a un primo sguardo, sarà pur sempre caratterizzato da pratiche – per l’appunto – primitive, e quindi ad esempio da una mentalità patriarcale e misogina, o da un’organizzazione in clan familiari chiusi e violenti. Insomma, è come se si immaginasse una sorta di “sfasatura temporale”: mentre “noi” ci saremmo evoluti diventando moderni (e poi contemporanei e post-moderni), i rom sarebbero rimasti “indietro”, ancorati a culture del passato.

Nel mio testo cerco di mostrare in primo luogo che questa idea è del tutto sbagliata: i rom e i sinti non sono un corpo estraneo, ma fanno parte a pieno titolo della società italiana; vivono nel presente, nel nostro stesso mondo, contribuiscono ogni giorno a plasmarlo e ne sono a loro volta influenzati e condizionati. Ma c’è di più. Quel che cerco di mostrare nel libro è che questa immagine “esotica” dei rom e dei sinti è essa stessa il prodotto di una storia, perché nasce dalle politiche di segregazione e di discriminazione messe in atto prima dal regime fascista, e poi – ovviamente in modo molto diverso – dalla Repubblica italiana negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.

Cosa significa vivere da rom in Italia?
È difficile generalizzare, perché nel nostro paese i gruppi rom e sinti sono molti, e molto diversi tra loro. Uno dei tratti che li accomunano è sicuramente il fatto di subire una forte stigmatizzazione. Ad esempio, un giovane rom fatica a trovare un lavoro, perché nella percezione comune – che è anche la percezione di molti imprenditori – gli “zingari” sono pigri, fannulloni e imbroglioni, dunque non sono in grado di lavorare. O, ancora, una famiglia rom avrà più difficoltà di altre a trovare una casa in affitto: come segnalano ormai da decenni i report delle organizzazioni per i diritti umani, i proprietari privati si rifiutano spesso di firmare contratti di locazione con famiglie “zingare”, a prescindere dalla loro condizione economica. Anche quando riescono ad accedere al mercato dell’alloggio, i rom – ma la stessa cosa accade anche a molti stranieri – sono esposti a quella che si chiama discriminatory charge, cioè a un canone di affitto irragionevolmente più alto rispetto a quello richiesto ad altri inquilini.

Ancora più drammatiche sono le forme di discriminazione che subiscono i bambini rom, ad esempio nelle scuole: un bambino o una bambina etichettati come “zingari” sono guardati con sospetto e diffidenza dai loro compagni di classe, dal gruppo dei genitori, e a volte anche dagli insegnanti. Alcuni anni fa, un documento del Governo italiano denunciava ad esempio un «uso improprio del sostegno come strategia didattica»: in altre parole, il bambino rom in classe è percepito spesso come un bambino “problematico”, per cui si rende necessaria la presenza dell’insegnante di sostegno. E sempre lo stesso documento del Governo parlava di altissime percentuali di alunni rom (attorno al 30-40% del totale) certificati come portatori di handicap. Come se essere rom fosse, appunto, un handicap, una mancanza, un “problema”.

Questo è il quadro generale, ma non vanno trascurate le differenze. Chi abita di un alloggio ordinario – sia esso un appartamento in affitto, un’abitazione privata o una casa popolare – può occultare più facilmente le proprie origini rom, e dunque può difendersi meglio da queste forme di discriminazione (il che, sia chiaro, non è una bella cosa: significa che per avere dei diritti si è costretti a celare la propria identità, la propria appartenenza a un gruppo). Per chi invece vive in un “campo nomadi” le cose sono molto più difficili, perché in quel caso è impossibile nascondersi: quando il datore di lavoro vuole assumerti e ti chiede la carta di identità, vede subito dove abiti, e ti identifica immediatamente come “zingaro”… e la stessa cosa accade quando cerchi una casa, quando iscrivi il tuo bambino o la tua bambina a scuola, e così via.

Poi ci sono altre differenze rilevanti: non è la stessa cosa essere un rom italiano o un rom straniero, abitare in un campo regolare o in un insediamento “informale” (cioè in terreno considerato “abusivo”), avere il permesso di soggiorno o non averlo, essere cittadino di un paese europeo o un immigrato extra-UE. Questi diversi status condizionano in modo significativo le traiettorie di vita dei rom in Italia.

Qual è lo scenario delle minoranze romanes in Italia?
Quando parliamo di rom, ci immaginiamo di avere a che fare con una comunità compatta, fortemente coesa, con un insieme di tratti culturali ben definiti e univoci. Nulla di più sbagliato: l’universo dei rom è stato definito giustamente “un mondo di mondi”, o anche “una galassia di minoranze”. Si tratta cioè di un insieme molto variegato di gruppi, che hanno ben poco in comune tra loro. Ci sono anzitutto rilevanti differenze linguistiche: non tutti i rom e i sinti parlano il romanes, l’antica lingua di derivazione indiana che viene considerata spesso il tratto unificante di queste popolazioni (e che non va confuso con il rumeno, lingua neolatina molto lontana dagli idiomi dei rom). Anche tra coloro che parlano romanes ci sono differenze molto importanti, perché – solo per fare qualche esempio – il romanes parlato in Romania è molto diverso dai dialetti dei sinti italiani, o da quelli dei rom abruzzesi…

Parliamo poi di una pluralità che non è esclusivamente “etnica”, che cioè non riguarda solo le differenze linguistiche e culturali. La pluralità va intesa in senso più radicale, come pluralità di status economici, di ricchezza, di riconoscimento sociale, e ancora di mestieri, di appartenenze religiose, di cittadinanza, di origine geografica ecc.

Infine, un elemento importante che differenzia i vari gruppi è la condizione abitativa. Nella loro stragrande maggioranza, i rom e i sinti abitano in alloggi convenzionali: eppure la percezione comune – soprattutto nel Nord e nel Centro Italia – identifica i rom con i “campi nomadi”, al punto che lo stesso termine “rom” è divenuto quasi un sinonimo di “abitante dei campi”. E invece le cose non stanno così: non solo la maggioranza dei rom abita in casa, ma vi sono – all’inverso – molte famiglie non-rom che per i motivi più vari sono finite ad abitare nei campi.

Quando e come avviene l’invenzione dei campi?
Dobbiamo anzitutto sfatare un mito molto diffuso: gli insediamenti di baracche e roulotte che vediamo nelle periferie delle nostre città non sono affatto il prodotto della “cultura rom”. Sono, piuttosto, il frutto di politiche abitative che hanno di fatto costretto molte famiglie a vivere nei campi. Tali politiche nascono da quel pregiudizio “esotizzante” di cui parlavo all’inizio: cioè dall’idea secondo cui i rom sarebbero uomini e donne caratterizzati da una cultura “nomade”, e per questo vorrebbero abitare all’aria aperta, comunque non in una casa.

Negli anni Sessanta e Settanta, le principali associazioni di volontariato e gli “esperti di zingari” dell’epoca cominciarono a diffondere la cosiddetta “tesi della deculturazione”. Secondo questa lettura, la marginalità sociale dei rom e dei sinti era dovuta alla loro incapacità di adattarsi alle sfide del mondo contemporaneo: i “mestieri tradizionali” erano stati travolti dall’industrializzazione, gli stili di vita itineranti si erano rivelati incompatibili con la rigida organizzazione del lavoro propria delle società sedentarie, e le culture arcaiche dei “nomadi” non si adattavano più a un mondo dominato dalla scienza e dal progresso tecnologico. I rom erano insomma – secondo questa interpretazione – gli ultimi superstiti di una civiltà preurbana e preindustriale sconfitta dalla storia. Incapaci di stare al passo con i tempi, erano condannati a perdere la loro cultura originaria (a “deculturarsi”, appunto) e a cadere nella devianza, nella marginalità e nella delinquenza.

Per contrastare questa deriva, si diceva all’epoca, i rom dovevano essere opportunamente rieducati, civilizzati, “modernizzati”, reinseriti nella vita sociale. Da un lato, essi avevano bisogno di luoghi di accoglienza specifici e riservati unicamente a loro: in particolare, data la cultura “nomade” e itinerante che caratterizzava gran parte dei gruppi, i rom dovevano essere ospitati in campi e aree attrezzate, non in vere e proprie case. Dall’altro lato, in questi “campi” andavano promosse azioni educative che favorissero l’inserimento sociale: i rom dovevano mandare i figli a scuola, seguire corsi di formazione professionale, e soprattutto “abituarsi alle regole” della società sedentaria (rispetto di tempi e orari, disciplina sul lavoro, pagamento regolare di bollette e utenze ecc.).

Sin dall’inizio i “campi nomadi” hanno avuto questa duplice caratteristica: erano pensati come spazi dove i rom potevano vivere secondo le loro (presunte) norme culturali, ma erano di fatto luoghi di “rieducazione”, cioè di disciplinamento sociale e di controllo. Da sempre gli insediamenti di rom e sinti hanno dovuto subire le occhiute attenzioni di assistenti sociali, funzionari comunali, educatori, poliziotti, magistrati minorili. I campi – e intendo dire quelli “ufficiali”, autorizzati o costruiti dai Comuni – sono stati e sono tuttora delle strutture correzionali, delle istituzioni disciplinari e “rieducative”. E non si tratta di un problema solo italiano: è famosa una vignetta francese, in cui un rom si lamenta dicendo “il mio campo è invaso dai topi”, e il suo interlocutore risponde sconsolato “beato te, il mio è invaso dagli assistenti sociali”…

Come si sono evolute negli ultimi decenni, nel nostro Paese, le politiche rivolte ai rom?
Se vogliamo tracciare per sommi capi una storia delle politiche rivolte ai rom, il primo punto da mettere in rilievo è la diffusione dei campi nomadi: negli anni Novanta e nei primi anni Duemila si moltiplicano gli insediamenti “regolari” – cioè costruiti dalle amministrazioni comunali – così come quelli cosiddetti “abusivi”, non autorizzati né voluti dalle istituzioni. Questo fenomeno è dovuto soprattutto al fatto che in Italia sono mancate per decenni adeguate politiche di accoglienza per gli immigrati, i profughi e i rifugiati: così, quando cominciano ad arrivare i rom jugoslavi in fuga dalla guerra, non vi sono luoghi dove ospitarli. Lo stesso problema si verifica quando arrivano i rom kosovari, anch’essi profughi di un sanguinoso conflitto armato, e poi i rom rumeni, che invece arrivano soprattutto perché attratti dalle opportunità di lavoro.

In mancanza di luoghi di accoglienza, i rom migranti vengono sistemati nei campi nomadi già esistenti, o in quelli di nuova costruzione. In questo modo, il “campo” diventa il luogo principale, e per certi aspetti l’unico, dove accogliere tutti coloro che giungono dall’estero, e che si identificano (o sono identificati) come rom.

Poi, attorno alla seconda metà degli anni Duemila, il clima politico si fa più cupo: arrivano anche in Italia le politiche cosiddette “securitarie”, che vedono negli immigrati stranieri, e nelle fasce più povere della stessa popolazione italiana, un pericolo per la “sicurezza” dei cittadini. Sono gli anni delle ordinanze comunali contro i lavavetri, contro i clochard, contro i senza fissa dimora che dormono nelle stazioni o che si lavano alle fontane pubbliche: una vera e propria “guerra ai poveri”, voluta e promossa per contrastare una presunta, ma in realtà mai esistita, “guerra tra poveri”. Le politiche securitarie travolgono anche i rom e i sinti: tra gli amministratori locali si diffondono le pratiche degli sgomberi, delle espulsioni, delle “ruspe” contro le baracche… È un clima di forte ostilità contro gli “zingari”, che culmina addirittura nella dichiarazione dello “stato di emergenza” nel 2008: di fatto, la presenza dei rom e dei sinti viene equiparata a una calamità naturale, come se fosse un terremoto, un’inondazione, un’eruzione vulcanica…

Per riassumere, schematicamente, potremmo dire che le politiche sui rom e sui sinti si sono mosse lungo due direttrici: la costruzione di nuovi campi, e la diffusione degli sgomberi. Sono state politiche disastrose, che hanno alimentato marginalità e sofferenze.

Quali prospettive per i rom in Italia?
Negli ultimi anni le politiche securitarie non hanno cessato di esistere, ma si sono rivolte ad altri bersagli, in particolare ai richiedenti asilo e ai rifugiati africani che sbarcano sulle coste meridionali del paese: i rom sembrano oggi meno “appetibili” per le forze politiche che cercano di costruire le proprie fortune elettorali sui temi della sicurezza e dell’ordine pubblico. Al contempo, si sono pressoché esauriti i flussi migratori dei rom stranieri. Molti rom bosniaci, macedoni, kosovari o rumeni sono tornati ai loro paesi, o hanno intrapreso nuovi percorsi migratori in altre aree dell’Unione Europea. Gli ultimi dati ci dicono che gli abitanti dei campi (sia dei campi “ufficiali” che di quelli non autorizzati e informali) sono sensibilmente diminuiti.

Non sarebbe difficile, in questo clima meno “infuocato”, promuovere anche a livello locale delle politiche efficaci di inserimento sociale e di fuoriuscita dalla marginalità. Manca ancora, purtroppo, una precisa volontà politica in questo senso.

Sergio Bontempelli, operatore legale ed esperto di immigrazione, è stato tra i fondatori della ONG OsservAzione e ha pubblicato numerose ricerche su rom e sinti

I rom, una storia. Carocci editore

Copertina libro

Gli “zingari” occupano spesso le cronache e sono al centro di accesi dibattiti politici, eppure del mondo dei rom e dei sinti si sa poco. L’immagine di popolazioni nomadi, e dunque premoderne, primitive, legate a miti, riti e tradizioni di un passato a noi estraneo, ha alimentato dinamiche di esclusione da parte dell’opinione pubblica. Il libro ricostruisce la storia delle minoranze romanes in Italia e l’evoluzione delle politiche loro rivolte. Ne emerge un quadro che consente di problematizzare molte idee di senso comune: in particolare, la storia degli ultimi decenni dimostra che i rom e i sinti non sono un corpo estraneo o esotico, ma una “galassia di minoranze”, molte delle quali fanno parte a pieno titolo della società italiana e hanno contribuito a costruirla.

Sergio Bontempelli, I rom. Una storia, Carocci editore, Roma 2022

Acquista dal sito di Carocci editore

Buona lettura

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Emergenza migranti e campi rom: un convegno a Bruxelles

Il 9 Dicembre 2015 si è tenuta, presso il Parlamento europeo, la proiezione di “Dragan aveva Ragione”, organizzata da Barbara Spinelli (GUE/NGL).

Il documentario è stato preceduto da un dibattito sulla discriminazione dei Rom e sullo scandalo «Mafia Capitale», che ha rivelato un diffuso sistema di corruzione e frode finalizzato a sfruttare centri di accoglienza e campi rom (e profughi) nella regione Lazio.

Sono intervenute le eurodeputate Soraya Post (S&D) e Laura Ferrara (EFDD), l’autore del film Gianni Carbotti insieme a Moni Ovadia, Dijana Pavlovic, Sergio Bontempelli e Marco Brazzoduro. Continue reading

Napoli, il campo 2.0

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Un progetto di inserimento sociale, o un altro ghetto? Un’esperienza di “superamento dei campi nomadi”, o un ennesimo campo magari un po’ più “ecologico” del solito? Una proposta innovativa e sperimentale, o la solita zuppa, riscaldata con un po’ di retorica?

Sono questi gli interrogativi che suscita il programma di riqualificazione dell’insediamento rom di Via Cupa Perillo a Napoli, messo in campo dalla giunta De Magistris: e l’impressione è che la posta in gioco di questo dibattito, molto acceso nel capoluogo campano, vada ben al di là dei confini partenopei. Ma per capirci qualcosa, sarà bene procedere con ordine.

Il campo di Cupa Perillo
Cominciamo con qualche notizia sul campo. Via Cupa Perillo si trova nel quartiere Scampia. Si tratta di uno degli insediamenti più noti della città: vi abitano un centinaio di famiglie (circa 400 persone) suddivise in 5 insediamenti minori. I nuclei provengono per lo più dalla ex Jugoslavia, ma molti bambini sono nati in Italia, e sono “napoletani” a tutti gli effetti: il campo esiste da molti anni, un’intera generazione è nata e cresciuta lì, e definirlo “abusivo” oggi suona un po’ come beffa.

Come accade di frequente con i campi “abusivi”, Cupa Perillo è da sempre oggetto di polemiche: negli anni passati, in particolare, i “vicini di casa” si erano lamentati della spazzatura, spesso smaltita con il fuoco da alcune famiglie del campo, e non solo del campo. Una situazione pericolosa per la salute, dovuta per lo più alle carenze nel servizio comunale di raccolta dei rifiuti. Ma questa è un’altra storia, un’altra polemica, e ci porterebbe lontano.

La “riqualificazione” del campo: una piccola storia
Naturalmente, per “risolvere” il (presunto) “problema”, molti chiedevano di sgomberare l’insediamento, e di allontanare senza troppi complimenti i rom che vi risiedevano da decenni. L’amministrazione comunale (per fortuna, verrebbe da dire) decise di seguire altre strade, e già dal 2008 avviò un progetto di “riqualificazione” del campo. Ma proprio qui, come si suol dire, casca l’asino.

Nella prima stesura, infatti, il progetto prevedeva la costruzione di circa 70 “moduli abitativi” (leggi: container di lamiera), in grado di ospitare grosso modo 350 persone: meno degli abitanti effettivi. Che fine avrebbero fatto tutti gli altri? E si può definire “riqualificazione” un intervento che obbliga decine di famiglie ad abitare in container di metallo, gelidi d’inverno e roventi d’estate?

Il progetto, naturalmente, non ha mancato di suscitare contestazioni, soprattutto da parte degli stessi rom. Ma, nel pieno del dibattito cittadino, tutto finì per bloccarsi: nel 2009 si scoprì infatti che una parte dell’area interessata non era di proprietà del Comune, ma di un privato cittadino, che non voleva saperne di mettere a disposizione il suo terreno. Così, tra contenzioni e ricorsi, tutto si fermò.

La vicenda si riapre nell’aprile 2011, quando il Comune decide di “rimodulare” il progetto, e di costruire il “villaggio” in un’area più piccola (corrispondente ai terreni di proprietà pubblica). Nel frattempo, però, ci sono le elezioni e la vecchia Giunta viene sostituita dalla nuova, guidata da De Magistris. Il nuovo assessore al welfare viene sollecitato e incalzato da rom e associazioni: il progetto non va bene, va ripensato tutto da cima a fondo. Insomma, fermate l’autobus, vogliamo scendere…

L’Amministrazione prende atto, sospende l’avanzamento dei lavori e avvia un percorso di “progettazione partecipata”, per il quale viene persino coinvolta l’Università. Finalmente, vien da pensare, un intervento sui rom si fa con i rom e insieme ai rom.

Il progetto definitivo…
Sono passati più di tre anni dall’avvio del percorso di “progettazione partecipata”, e alla fine si è arrivati al progetto definitivo, approvato dal Consiglio comunale partenopeo nel mese di maggio.

Rispetto al disegno originario, ci sono diverse novità di natura – per così dire – “ecologica”. Il nuovo villaggio sarà dotato di pannelli fotovoltaici per la fornitura di energia elettrica; le unità abitative non saranno più container, ma vere e proprie “casette”, costruite con materiali bio-edilizi altamente riciclabili. Accanto agli edifici, saranno allestite delle aree verdi a disposizione degli abitanti. Un progetto “ambientalista”, o almeno così sembra. Ma non è tutto oro quel che luccica.

… e le polemiche
Questo progetto, infatti, non piace a molte famiglie rom che ne sarebbero beneficiarie. E non piace alle associazioni che hanno pazientemente seguito le vicende di Cupa Perillo. Il perché ce lo spiega Francesca Saudino, avvocatessa, dirigente nazionale di OsservAzione e agguerrita sostenitrice dei diritti dei rom: «Si spendono sette milioni di euro», dice Saudino, «per costruire un villaggio per soli rom. Quei soldi vengono in gran parte dall’Unione Europea, e le indicazioni europee ci dicono che gli insediamenti monoetnici sono un errore».

Dove sta l’«errore»? E perché gli insediamenti “monoetnici” sono sbagliati? «Qui in Italia ne abbiamo avuto la prova», ci spiega ancora Francesca Saudino. «Le politiche nazionali in materia di rom e sinti hanno privilegiato i campi nomadi, insediamenti monoetnici appunto. Tutte le leggi regionali che hanno creato i campi parlavano di integrazione sociale, ma di fatto si sono costruiti dei ghetti: sarebbe ora di voltar pagina, dopo più di venti anni di fallimenti. E invece si finisce per fare un altro campo: con abitazioni più dignitose, ma pur sempre un campo. Un campo di case, come lo chiamano i rom…».

Le case “per soli rom”
«Le case per soli rom», aggiunge Marco Marino in un articolo pubblicato sulla rivista Gli Asini, «sono ripensate con tettoie, verande e garage improvvisati, ai balconi hanno fioriere ed improbabili false anfore greche. Ma ci sono anche, per poter lavorare, residui di automobili smontate, e carretti per la raccolta del ferro vecchio. I rom stessi vogliono andare via dal “campo di case” perché vivere lì è fortemente discriminante. Quando si cerca un lavoro, quella zona è sinonimo di rom, ed è difficile trovare un impiego se sulla carta di identità c’è quell’indirizzo».

E poi, dice ancora Marino, le “case per soli rom” creano diffidenza e barriere con la popolazione circostante: «c’è sempre un’ auto della polizia fuori al villaggio, e se è successo qualcosa in città si pensa sia stato un rom, e tutte le case indistintamente vengono perquisite. L’insediamento monoetnico crea un forte controllo sociale e di polizia».

Detto in altri termini, il “villaggio per soli rom” è un po’ come il “villaggio per soli ebrei”: è un ghetto. E i ghetti, per l’appunto, ghettizzano: anche se hanno le fioriere e sono costruiti con materiale bio-edilizio.

Esiste un’alternativa? Giriamo la domanda, ancora una volta, a Francesca Saudino: «l’alternativa esiste eccome», ci spiega, «e sta nella condivisione, nella partecipazione, nel coinvolgimento degli stessi rom nelle politiche che li riguardano. L’alternativa è una vera politica dell’inclusione sociale, che non isoli e non crei nuove marginalità. L’alternativa è il superamento dei campi, come dice anche la Strategia Nazionale di Inclusione, che è pur sempre un documento del governo italiano…».

Che succederà adesso? Le associazioni sono agguerrite e hanno tutta l’intenzione di contestare il progetto. Il Comune, per ora, va avanti. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli

“Zingari”, turisti e gelatai

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Le stazioni di Firenze e Roma cacciano i rom per attrarre i turisti. Ma tre gelati nella Capitale costano 42 euro. Da chi e da cosa vanno tutelati i turisti?

«Turisti ostaggio di rom e ladri» (Quotidiano Nazionale, 10 Luglio). «Firenze, assedio ai turisti in stazione» (Corriere della Sera, 7 Luglio). «Barriere anti-rom per salvare i turisti» (Il Giornale, 17 Luglio). A sentire i giornali di questi giorni, le “barriere anti-mendicanti” alla Stazione di Firenze dovrebbero proteggere i tanti visitatori che, soprattutto dall’estero, vengono a trascorrere le loro tranquille vacanze nel nostro Bel Paese.

Che questo sia lo scopo principale dell’iniziativa, lo conferma un comunicato di NTV, l’azienda che gestisce i famosi treni “Italo”: «l’immagine che offriamo alle migliaia di turisti», dice la nota, riferendosi ai mendicanti che chiedono l’elemosina alla stazione, «è una brutta cartolina del nostro Paese». E lo certifica anche il Sindaco di Firenze Dario Nardella, quando afferma che i rom «provocano un grave danno d’immagine alla città».

Insomma: se vogliamo rilanciare l’economia delle nostre città d’arte, se vogliamo valorizzare il patrimonio culturale e artistico del paese, bisognerà prendere iniziative che invitino a visitare l’Italia, che la presentino come un luogo attraente e pulito. E si dovranno, dunque, allontanare gli “straccioni” che ci fanno fare brutta figura nel mondo.

È per questo che la Prefettura, la Questura e il Comune, in accordo con l’azienda che gestisce la stazione ferroviaria, hanno preso il provvedimento che ha fatto tanto discutere: l’accesso alle biglietterie è stato transennato, e i mendicanti sono stati allontanati dalle forze dell’ordine. Ne ha parlato mezza Italia, e non staremo qui a dare per l’ennesima volta la notizia: ci interessa piuttosto soffermarci sull’impatto reale che una cosa del genere può avere sull’economia turistica delle nostre città.

Il turismo in crisi
Partiamo da un dato di fatto: non è un mistero che il turismo in Italia stia vivendo una drammatica fase di crisi. Ce lo dicono le cifre dell’organizzazione mondiale per il turismo (Unwto), che mostrano un crollo spaventoso del settore. Nel 1950 la quota di viaggiatori che sceglievano l’Italia per le loro vacanze era del 19%: nel mondo, dunque, un turista su cinque visitava il nostro paese. La cifra è scesa al 7,7% nel 1970, e al 6,1% nel 1990. Il picco negativo è stato raggiunto l’anno scorso (2013), quando la percentuale è crollata al 4,4%. Siamo passati da un turista su cinque a uno su ventitrè…

Si dirà: colpa della crisi economica. La gente non ha più soldi e viaggia sempre meno. Non è vero. Secondo un recente studio della Coldiretti, nel 2013 l’intera Europa ha registrato un incremento del +5% di flussi rispetto all’anno precedente. E il turismo, a livello globale, è uno dei pochi settori a non essere toccato dalla crisi. Tra l’altro, paesi in gravissima difficoltà economica hanno registrato incrementi significativi nel 2013: la Grecia il +13,2%, il Portogallo +7,1%.

Le ragioni del crollo…
Quali siano le ragioni del crollo, provano a spiegarcelo alcune inchieste dettagliate e ben fatte. Va detto che l’argomento è complesso, e i fattori sono tanti: vediamo di elencarne alcuni. La già citata indagine Coldiretti, ad esempio, ci spiega che l’Italia è la meta più costosa del Mediterraneo: qui da noi, alberghi e ristoranti costano il 10% in più rispetto alla media europea. Sempre a paragone con la media continentale, in Spagna si spende il 9% in meno, in Grecia -12%, Portogallo e Croazia viaggiano attorno a -20%, e così via.

Ma è soprattutto la qualità dell’offerta che lascia a desiderare. In proposito, un recente dossier del Touring Club (ben sintetizzato da Gian Antonio Stella sul Corriere) è letteralmente impietoso: prezzi alti, servizi scadenti e sciatti, scortesia diffusa, scarsa conoscenza delle lingue straniere da parte degli operatori. E poi musei e negozi chiusi nei giorni festivi, poca cultura dell’ospitalità, informazioni non chiare o inaccessibili. Infine, incapacità di innovare l’offerta: «come se tutto ci fosse dovuto», dice Stella, «in quanto “Paese più bello del mondo”». Per non parlare di Pompei che cade a pezzi (e stendiamo un velo pietoso).

… e i bidoni
Per chiudere questo simpatico quadretto, bisogna aggiungere che l’Italia è notoriamente il «paese dei bidoni». Soprattutto nelle città d’arte. Dove – è la notizia di questi giorni – tre gelati possono costare 42 euro (è successo a Roma). Dove un giro in gondola, nella romantica Venezia, può costare al turista straniero il doppio del dovuto (è accaduto pochi mesi fa). Dove per due lattine di coca e un caffè si rischia di spendere venti euro (è accaduto giusto giusto a Firenze, l’anno scorso, e l’ha denunciato lo scrittore Fabio Volo).

Queste cose i turisti le sanno, e grazie a internet e ai social network le notizie girano. Solo qualche anno fa, i quotidiani giapponesi lanciarono una vera e propria campagna contro lo Stivale, accusato di truffe ai danni dei visitatori stranieri, di prezzi insostenibili, di servizi scadenti, insomma delle cose che sappiamo e che sono sotto gli occhi di tutti.

Cosa c’entrano i rom?
Già, ma cosa c’entrano, in tutto questo discorso, gli “zingari”? Qui la faccenda è un po’ complicata, perché per un verso i rom – poveretti – non c’entrano nulla, per un altro verso sono loro i protagonisti di questa storia. Prima di spiegare il perché, partiamo da una domanda: cosa si dovrebbe fare per risollevare dalla crisi il settore turistico?

Come sempre, servirebbero risposte politiche complesse, articolate, multidimensionali. Bisognerebbe investire nella formazione degli operatori, nell’innovazione dell’offerta, nella competitività del sistema. Bisognerebbe aver cura del nostro patrimonio storico e artistico, vera e propria miniera d’oro su cui siamo seduti. Andrebbe avviata una politica dei prezzi che tenga conto dello straordinario valore delle nostre città d’arte, ma anche della ragionevolezza e dell’equità: tre gelati non possono costare 42 euro. E i nostri alberghi non possono essere i più cari del Mediterraneo…

Ma tutto questo è difficile, troppo difficile. Chi amministra la cosa pubblica è abituato a risposte semplici e schematiche, da dare in pasto a giornali e TV. E quindi, invece di avviare una discussione sulla crisi del turismo, si lancia un’iniziativa di sicuro effetto: cacciare gli “zingari”, i mendicanti, gli accattoni, gli “straccioni”. Prendersela con i poveri, si sa, funziona sempre. E non costa nulla.

Intendiamoci. Che molti turisti siano “infastiditi” dalle richieste di elemosina, è assai probabile. Il mendicante che chiede spiccioli alla Stazione non è – da che mondo è mondo – un “problema di sicurezza” (siamo seri, per favore!), ma può essere sicuramente motivo di fastidio: perché ti chiede soldi mentre stai cercando di capire come funziona quella maledetta biglietteria automatica che non ti ha dato il resto, perché magari insiste un po’ troppo, perché per dargli gli spiccioli dovresti cercare nelle tasche e hai altro da fare. O perché ti ripete in modo ossessivo che ha bisogno di denaro, mentre tu di denari ne hai già dati troppi a Trenitalia, al tassista, all’albergatore, al barista, al cameriere…

Insomma, per i mille motivi che sappiamo, un mendicante può essere fastidioso: è, comunque, meno molesto di un gelataio che esige 42 euro per tre coni striminziti. E però, siccome si vogliono “attrarre i turisti” senza irritare troppo i gelatai, la cosa più semplice da fare è prendersela coi soliti noti, i rom (invece che con i gelatai).

Ora, al di là di considerazioni etiche che tanto non ascolta più nessuno, il dubbio è che una strategia del genere non funzioni. Perché, certo, il turista sarà contento di avere i questuanti fuori dai piedi. Ma quando avrà visto i prezzi (e la qualità) dei treni, degli alberghi e dei gelati, è probabile che scappi a gambe levate dall’Italia. Vorrà dire che il prossimo anno gli spiegheremo che anche il gelataio, in fondo in fondo, è “zingaro”. E al prossimo gelato da 42 euro, sgombereremo un altro campo rom.

Sergio Bontempelli

7 Agosto 2014

Sgomberi alla romana

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Corriere delle Migrazioni ha assistito al trentesimo smantellamento di un campo rom, effettuato dalla Giunta Marino. Ecco come funzionano gli sgomberi nella capitale

È mercoledì 9 luglio, sono le otto del mattino. Le pattuglie della polizia locale di Roma irrompono nel piccolo insediamento di Val d’Ala, nella zona nord della città: qui, ai bordi della ferrovia, vivono una quarantina di rom rumeni – molti dei quali minorenni – accampati alla meglio con tende da campeggio e ricoveri di fortuna. Sono disorientati e timorosi, gli abitanti del campo, ma non sorpresi: lo sgombero è stato annunciato già da qualche giorno, l’arrivo delle forze dell’ordine era previsto.

Peraltro, ad attendere le pattuglie non ci sono soltanto i rom. Anzi, al campo si è formato un vero e proprio “comitato di accoglienza”: l’associazione 21 Luglio, che contesta lo sgombero, ha chiamato a raccolta i cittadini per monitorare le operazioni. Così, già di primo mattino, ci sono fotografi, giornalisti e volontari. Gli attivisti della 21 Luglio, riconoscibili dalle t-shirt con il logo dell’associazione, parlano con le famiglie, spiegano cosa sta per accadere, dispensano consigli e suggerimenti.

Arriva la polizia municipale
Forse i più sorpresi sono proprio loro, gli uomini della Municipale: abituati a trattare con i rom, ma non con gli attivisti e i “contestatori”. Parcheggiano, scendono dalle macchine, si guardano intorno e hanno l’aria perplessa. Uno di loro, che dirige le operazioni, si avvicina e arriva faccia a faccia con Carlo Stasolla, presidente della «21 Luglio». «Siamo qui per monitorare il rispetto dei diritti umani», dice Stasolla con voce calma. «Riteniamo che questo sgombero non sia conforme alle procedure di legge; non vogliamo ostacolare il vostro lavoro, ma intendiamo rimanere qui e documentare quel che succede». L’interlocutore è visibilmente innervosito: «Questo campo è abusivo e illegale», risponde con fare seccato, «e deve essere chiuso: non vedo dov’è il problema». Stasolla ha tutta l’aria di chi, prevista l’obiezione, aveva preparato per tempo la risposta: «Ci sono garanzie sancite da norme internazionali: in caso di sgombero, gli abitanti devono essere informati preventivamente, e deve essere proposta una soluzione altern…». Ma il dirigente non ha voglia di discutere e taglia corto: «Va bene, state qui, ma non ostacolate le operazioni».

La ruspa
Gli agenti chiamano a raccolta le famiglie, le allontanano dalle tende, e chiedono anche a noi di tenerci a distanza. Poi fanno passare una piccola ruspa, che si avvicina sotto gli occhi attoniti dei bambini. In pochi minuti tutto viene travolto: tende, baracche, effetti personali dei rom sono distrutti. La ruspa si muove veloce, mentre alcuni agenti raccolgono i resti e li ammucchiano da una parte. Le facce dei rom sono intimidite, ma anche rassegnate: nessuno degli abitanti del campo protesta. Il silenzio è quasi irreale. Assieme ad altri giornalisti mi avvicino per fare delle foto, ma gli uomini della Municipale mi fermano: «Non potete stare qui, dovete allontanarvi». Carlo Stasolla si impunta: «I cronisti devono documentare le operazioni», dice, «non hanno intenzione di ostacolarvi». Il dirigente è visibilmente seccato: «Documenteranno le operazioni quando saranno terminate». Che è un po’ come andare allo stadio e accendere la telecamera quando la partita è finita. Glielo facciamo notare, al dirigente, ma lui non sente ragioni: «e non fate foto alla mia faccia, che sennò vi denuncio». Va bene, niente foto alla sua faccia. Sennò si arrabbia.

«Soluzioni» alternative
Gli uomini della Municipale si muovono con sicurezza, e hanno una strana confidenza con i rom: li salutano, li chiamano per nome, sorridono, fanno battute, elargiscono affettuose pacche sulle spalle. «Ormai li conosciamo da anni», mi dice il solito dirigente, che ha una gran voglia di parlare con me (forse deve discolparsi dei modi un po’ rudi che ha usato finora). «Sa, noi non ce l’abbiamo con loro, facciamo solo il nostro mestiere…». Un piccolo drappello di agenti si dispone vicino alle macchine. Una vigilessa chiama a raccolta le donne rom, convocandole ad una ad una. Un suo collega, che parla rumeno (un rumeno un po’ maccheronico, a dir la verità) e che per questo fa l’interprete, pone a tutte le stessa domanda: «Vuoi che ti troviamo una sistemazione per stasera? Possiamo darti un posto letto per te e per il tuo bambino, ma non puoi portare tuo marito». La risposta è sempre la stessa: «No, non voglio separarmi da mio marito». Ed è una risposta così scontata, che gli agenti hanno tutta l’aria di conoscerla già. Nessuna delle donne rom fa domande, nessuna protesta: sembra quasi che tutti – rom e agenti – recitino un copione mandato a memoria. Ogni volta che viene pronunciato il fatidico «no», il dirigente assume un’aria sbrigativa e si rivolge al collega interprete, «Vabbè dai, abbiamo capito, passiamo alla seconda domanda». La «seconda domanda» viene rivolta anche agli uomini: «Vuoi tornare in Romania? Possiamo darti un aiuto per le spese del viaggio». Qui le risposte sono meno scontate, e c’è qualcuno che accetta l’offerta. «Va bene, lasciaci il numero di telefono, ti richiamiamo noi».

Il tutto si svolge in una tranquillità irreale. È una specie di teatro dell’assurdo: i rom dovrebbero essere furibondi per la distruzione delle baracche, e invece sembrano tranquilli (o almeno rassegnati). La proposta di dividere le famiglie – accogliendo donne e bambini, e separandoli dagli uomini – è un po’ grottesca e un po’ umiliante, ma qui nessuno sembra farci caso: per gli agenti è «la prassi», e i rom ci hanno fatto l’abitudine. Per la verità anche io ci sono abituato, e infatti lì per lì non ci faccio caso: solo una collega giornalista, alla sua prima esperienza di sgombero, mi fa notare quanto sia assurda tutta la vicenda. In realtà, la proposta di separare le famiglie ha una sua logica, per quanto contorta: serve per poter dire, alla stampa e alle televisioni, che ai rom è stata offerta una «soluzione alternativa», e che sono stati loro a rifiutare. E succede spesso che i giornalisti (non tutti, solo quelli pigri e acquiescenti) prendano per buona la versione ufficiale, e ci ricamino sopra: ecco, i soliti zingari ingrati, che rifiutano le generose offerte del Comune…

La vertenza
Le operazioni sono durate sì e no un’ora. Adesso le baracche sono state distrutte, e il palcoscenico si chiude. I rom si allontanano dal campo e si dirigono verso il Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune: vanno a protestare contro lo sgombero, e a rivendicare una soluzione alternativa. Assieme a loro ci sono gli instancabili volontari della 21 Luglio, e anche Matteo de Bellis, dirigente di Amnesty International. Il resto è cronaca degli ultimi giorni. Lo sgombero è stato duramente contestato sia dall’Associazione 21 Luglio, sia da Amnesty International. Con due comunicati stampa congiunti, il primo il 9 luglio e il secondo l’11 luglio, le due organizzazioni hanno dapprima denunciato le violazioni dei diritti umani, e poi rivolto un appello urgente al sindaco di Roma al fine di trovare una soluzione immediata per far fronte all’emergenza. Poi, finalmente, nella giornata di venerdì, si è trovata una soluzione-tampone: «I rom», ha annunciato un comunicato della 21 Luglio, «sono stati trasferiti provvisoriamente in una struttura di accoglienza in città, dove risiederanno fino all’individuazione di ulteriori soluzioni». Un “tampone”, appunto. Che lascia aperto il nodo di sempre: a chi e a cosa servono gli sgomberi?

Sergio Bontempelli, 16 Luglio 2014

Palermo, bambino rapito, ma è un “errore”

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni, 21 Maggio 2014 (vedi copia di Archive.org)

Le cronache raccontano di rom che cercano di rapire un bambino: ma la storia fa acqua da tutte le parti…

Palermo, 10 maggio 2014: siamo a Settecannoli, un quartiere popolare nella zona sud della città. Un bambino di dieci anni scende di casa per comprare il pane: una piccola commissione per conto della famiglia, che il ragazzo sbriga volentieri. È una bella giornata di primavera, e nonostante l’ora tarda – sono le sette di sera – il sole è ancora alto nel cielo.

Andrea – così i giornali chiamano il bambino, la cui identità non è stata resa nota dagli inquirenti – è quasi arrivato al panificio, quando viene afferrato e strattonato da due brutti ceffi. Si divincola, urla e si mette a piangere: teme di essere portato via, di essere rapito. Ma le sue grida non restano inascoltate: alcuni passanti si fermano, e nel giro di pochi minuti gli aggressori vengono circondati da una folla inferocita e presi a calci.

Questa, almeno, è la versione raccontata dal quotidiano La Repubblica, edizione Palermo. Che peraltro non ha dubbi sull’identità degli aggressori: «La folla – scrive il giornale – sventa il sequestro di un bambino e scatta il pestaggio di due nomadi». Insomma, i colpevoli sono “zingari”: del resto lo sanno tutti, che i rom rubano i bambini, e il caso del piccolo Andrea ne è l’ennesima conferma. O no?

Il campo della Favorita e l’inserimento abitativo dei rom
In realtà, l’episodio di Settecannoli è tutt’altro che chiaro. E infatti – lo vedremo tra poco – la stampa locale è stata costretta a cambiare versione, nel corso degli ultimi giorni. Per capirci qualcosa, però, sarà bene andare con ordine, e raccontare gli antefatti di questa strana vicenda da romanzo giallo.

Tutto ha inizio nella parte opposta della città, nell’area che i palermitani chiamano «Parco della Favorita». Qui c’è il campo rom “autorizzato”, allestito nei primi anni ‘90 per i profughi della ex Jugoslavia, e che oggi ospita circa 110 persone originarie di Kosovo, Montenegro e Serbia. Il campo è isolato dal resto della città, e si configura come un vero e proprio ghetto. Da anni le associazioni ne chiedono la chiusura, e da qualche tempo l’Amministrazione comunale ha fatto propria questa richiesta.

Per la verità, al momento non esiste un vero e proprio “piano” per smantellare l’insediamento. Ma la volontà c’è: l’assessore Giusto Catania, l’8 maggio scorso, ha dichiarato di voler chiudere la Favorita, e di voler collocare i rom in alloggi “normali” (trovate l’intervista nel video qui sotto). Nel frattempo, la Giunta guidata da Leoluca Orlando ha avviato alcuni lavori di pulizia nel campo, con la demolizione delle baracche abbandonate e l’allestimento di un’area attrezzata con giochi per bambini.

Ma proprio l’intervista di Catania, rilasciata al giornale online Livesicilia, suscita un vespaio di polemiche. «Vogliono dare la casa agli zingari, invece che ai palermitani»: questo, in sintesi, l’atto di accusa che il centro-destra lancia all’indirizzo della Giunta. Nel frattempo, sui social network e sui siti web comincia a girare la notizia – falsa – secondo cui il Comune vorrebbe assegnare le case ai rom, magari “soffiandole” agli “autoctoni” (si veda ad esempio qui).

La scena del rapimento
Un autorevole politico della Prima Repubblica diceva che «a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina». Mai come in questo caso un’affermazione del genere, per così dire, calza a pennello: un bambino “rapito dagli zingari”, nel bel mezzo delle polemiche sulla Favorita, è una «coincidenza così coincidente che viene da pensar male» (per usare un’espressione del romanziere Luigi Bernardi). Il problema, però, è che i conti non tornano. Nel senso che l’episodio di Settecannoli è pieno di punti oscuri: vediamoli, uno per uno.

Anzitutto, il (presunto) rapimento del bambino ha poco a che fare con i rom della Favorita. Settecannoli – lo abbiamo visto – si trova nella parte opposta della città, e i rom che abitano nel quartiere vengono tutti dalla Romania, non dalla ex-Jugoslavia. Anche ammesso (e non concesso) che il rapimento sia avvenuto davvero, i residenti del campo “storico” di Palermo sono sicuramente estranei alla vicenda.

Non solo. Nel giro di poche ore, la notizia si sgonfia. Già nell’edizione online di Repubblica, uscita dopo quella cartacea, molte cose sono cambiate. Gli aggressori non sono più “zingari”, ma semplici rumeni («inizialmente identificati dalla polizia come rom dell’accampamento di viale del Fante», dice con candore l’autrice del pezzo…). E poi, non è detto che il bambino sia stato effettivamente vittima di un tentato rapimento: «la versione dei rumeni, rilasciata durante quattro ore di interrogatorio, non convince i poliziotti ma il quadro probatorio non è abbastanza solido per disporre un arresto», dice ancora la giornalista.

L’ennesima bufala?
Certo, per capire cosa sia successo esattamente a Settecannoli bisognerà attendere le indagini degli inquirenti. Ma è forte la sensazione di trovarsi di fronte all’ennesima bufala. «Ieri mattina», scriveva Giusto Catania nella sua pagina Facebook, il 12 maggio scorso, «Repubblica di Palermo sparava come prima notizia il tentato rapimento di un bambino da parte di due Rom. Un articolo pieno di contraddizioni ed evidenti storture. Oggi improvvisamente la notizia è scomparsa dal sito… Vuoi vedere che era falsa?».

«Siamo di fronte», concludeva l’assessore, «all’ennesima leggenda sugli “zingari rapitori”, mai avvalorata dai fatti: in Italia mai un Rom è stato condannato per aver rapito o tentato di rapire un bambino». E – aggiungiamo noi – nella vicenda di Settecannoli la leggenda ha un’evidente finalità politica: serve a gettare discredito sui rom della Favorita, e a impedire il progetto di smantellamento del campo e di inserimento abitativo. Le false notizie, in questo come in altri casi, servono sempre a qualcosa e a qualcuno…

Sergio Bontempelli

 

Si ringrazia Giulia Veca per la preziosa consulenza (ovviamente, la responsabilità di quanto scritto è esclusivamente nostra)

Ungheria, razzismo di governo

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni, 24 Febbraio 2014 (vedi copia di Archive.org)

Guardare la “questione rom” dall’Italia – ma anche dalla Francia, dalla Spagna, e dall’Europa occidentale in generale – significa avere lo sguardo strabico. Perché nel nostro paese le minoranze rom e sinte sono appena lo 0,2% della popolazione, in Francia lo 0,5%, e nella Spagna – che lo stereotipo vorrebbe “terra dei gitani” inventori del flamenco – appena l’1,6%.

In realtà, le comunità più consistenti si trovano ad Est, nei paesi dell’Europa orientale. Solo per fare qualche esempio: in Romania e in Bulgaria, le minoranze rom rappresentano più dell’8% della popolazione, nella Repubblica Ceca sono il 2,4% dei residenti, mentre in Ungheria la percentuale sale al 3,1% (e se vi sembra un numero basso, ricordate che è quindici volte quello dell’Italia).

L’apparente “marginalità” di questi paesi nello scacchiere geopolitico del Vecchio Continente – parliamo di territori poveri, e di Stati che hanno scarsa incidenza nelle decisioni politiche dell’Unione Europea – non dovrebbe far dimenticare il loro ruolo nella diffusione dell’«antiziganismo» (cioè della forma specifica di razzismo che si rivolge contro rom e sinti). Qui, spesso, vengono sperimentate forme di segregazione e di discriminazione che finiscono per “contagiare” anche i paesi più ricchi.

È per questo che le nuove e violente forme di razzismo esplose in Ungheria non dovrebbero essere sottovalutate. E dovrebbero anzi suonare come un campanello d’allarme per tutta l’Europa (Italia compresa).

Guerra ai poveri: aggressioni, pogrom, addestramenti armati

È dell’inizio di febbraio il Rapporto pubblicato dall’Università di Harvard proprio sulla condizione dei rom ungheresi, il cui titolo è già significativo: Accelerating Patterns of Violence Against Roma in Hungary Sound Alarms (che si potrebbe tradurre, un po’ liberamente, come «un campanello d’allarme: l’escalation di violenza contro i Rom in Ungheria»). Ed è da questa pubblicazione, scaricabile gratuitamente dal web, che abbiamo tratto alcune notizie significative.

Anzitutto, la condizione sociale dei Rom nel paese magiaro è tra le più drammatiche del Vecchio Continente. Il 60% dei Rom vive in luoghi di segregazione abitativa: aree rurali isolate, ghetti urbani, periferie degradate o veri e propri slum (non nei “campi nomadi” però, che sono come noto un’invenzione tutta italiana). Il 70% si trova al di sotto della soglia di povertà, e l’aspettativa di vita è inferiore di dieci anni rispetto alla media nazionale.

Numerose sono poi le forme di discriminazione e di esclusione. Il 20% dei bambini rom – uno su cinque – frequenta la scuola in classi separate e speciali. Secondo un’indagine condotta nel 2011 dal Dipartimento di Stato Usa, quasi il 90% dei rom in età da lavoro si trova in condizioni di disoccupazione (poche sono le ditte disposte ad assumere uno “zingaro”). I cittadini rom sono spesso vittime di abusi e violenze da parte delle forze di polizia, e sono oggetto di frequenti controlli di carattere vessatorio.

È in questo clima generale di esclusione e di disprezzo che sono maturate negli ultimi anni vere e proprie esplosioni di violenza contro le comunità rom. Tra il 2008 e il 2012, l’European Roma Rights Center ha censito 61 episodi di violenza e ben nove omicidi (sette adulti e due bambini).

Ma c’è di più. In Ungheria proliferano i partiti politici e i movimenti di estrema destra, spesso legati alla galassia internazionale neo-nazista, che propagandano idee esplicitamente razziste e antisemite. Questi gruppi organizzano periodicamente veri e propri campi di addestramento paramilitare per i loro militanti: l’obiettivo è quello di formare “quadri politici” armati, pronti ad aggredire le minoranze, a scatenare disordini nelle manifestazioni e a organizzare azioni di tipo squadristico. Recentemente si è scoperto che il Fronte Nazionale Ungherese (uno dei gruppi più forti della galassia neonazista) organizza campi di formazione paramilitare praticamente ogni mese. E gli effetti si vedono.

Le contiguità con la politica “ufficiale”

Ma non è solo la violenza dell’estrema destra a preoccupare i ricercatori dell’Università di Harvard. Il vero problema è che le formazioni ultranazionaliste e xenofobe hanno solidi agganci e forti contiguità con la politica “ufficiale”, cioè con il Governo, con le amministrazioni locali e con le burocrazie statali.

Un dato è in questo senso significativo: i campi di addestramento paramilitare sono illegali – in Ungheria come in tutta Europa –, eppure nessuno finora è stato indagato né condannato per queste iniziative. Al contrario, le milizie dell’estrema destra agiscono spesso con la copertura delle forze di polizia, mentre leggi recenti hanno autorizzato il possesso di armi per la “difesa personale”.

Il Governo raramente stigmatizza gli episodi di violenza contro i rom, e le autorità di polizia raramente aprono inchieste contro i responsabili di crimini a sfondo razziale. Il clima diffuso di impunità fa da moltiplicatore agli episodi di violenza: secondo quanto riferiscono numerose Ong attive in Ungheria, i linciaggi sono ormai percepiti come una forma legittima di “punizione collettiva”. Un po’ come accadeva nel Sud degli Stati Uniti cento anni fa. E come potrebbe accadere in tanti altri paesi (Italia inclusa) se non si promuovono efficaci politiche di contrasto all’antiziganismo.

Sergio Bontempelli

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