Napoli, il campo 2.0

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Un progetto di inserimento sociale, o un altro ghetto? Un’esperienza di “superamento dei campi nomadi”, o un ennesimo campo magari un po’ più “ecologico” del solito? Una proposta innovativa e sperimentale, o la solita zuppa, riscaldata con un po’ di retorica?

Sono questi gli interrogativi che suscita il programma di riqualificazione dell’insediamento rom di Via Cupa Perillo a Napoli, messo in campo dalla giunta De Magistris: e l’impressione è che la posta in gioco di questo dibattito, molto acceso nel capoluogo campano, vada ben al di là dei confini partenopei. Ma per capirci qualcosa, sarà bene procedere con ordine.

Il campo di Cupa Perillo
Cominciamo con qualche notizia sul campo. Via Cupa Perillo si trova nel quartiere Scampia. Si tratta di uno degli insediamenti più noti della città: vi abitano un centinaio di famiglie (circa 400 persone) suddivise in 5 insediamenti minori. I nuclei provengono per lo più dalla ex Jugoslavia, ma molti bambini sono nati in Italia, e sono “napoletani” a tutti gli effetti: il campo esiste da molti anni, un’intera generazione è nata e cresciuta lì, e definirlo “abusivo” oggi suona un po’ come beffa.

Come accade di frequente con i campi “abusivi”, Cupa Perillo è da sempre oggetto di polemiche: negli anni passati, in particolare, i “vicini di casa” si erano lamentati della spazzatura, spesso smaltita con il fuoco da alcune famiglie del campo, e non solo del campo. Una situazione pericolosa per la salute, dovuta per lo più alle carenze nel servizio comunale di raccolta dei rifiuti. Ma questa è un’altra storia, un’altra polemica, e ci porterebbe lontano.

La “riqualificazione” del campo: una piccola storia
Naturalmente, per “risolvere” il (presunto) “problema”, molti chiedevano di sgomberare l’insediamento, e di allontanare senza troppi complimenti i rom che vi risiedevano da decenni. L’amministrazione comunale (per fortuna, verrebbe da dire) decise di seguire altre strade, e già dal 2008 avviò un progetto di “riqualificazione” del campo. Ma proprio qui, come si suol dire, casca l’asino.

Nella prima stesura, infatti, il progetto prevedeva la costruzione di circa 70 “moduli abitativi” (leggi: container di lamiera), in grado di ospitare grosso modo 350 persone: meno degli abitanti effettivi. Che fine avrebbero fatto tutti gli altri? E si può definire “riqualificazione” un intervento che obbliga decine di famiglie ad abitare in container di metallo, gelidi d’inverno e roventi d’estate?

Il progetto, naturalmente, non ha mancato di suscitare contestazioni, soprattutto da parte degli stessi rom. Ma, nel pieno del dibattito cittadino, tutto finì per bloccarsi: nel 2009 si scoprì infatti che una parte dell’area interessata non era di proprietà del Comune, ma di un privato cittadino, che non voleva saperne di mettere a disposizione il suo terreno. Così, tra contenzioni e ricorsi, tutto si fermò.

La vicenda si riapre nell’aprile 2011, quando il Comune decide di “rimodulare” il progetto, e di costruire il “villaggio” in un’area più piccola (corrispondente ai terreni di proprietà pubblica). Nel frattempo, però, ci sono le elezioni e la vecchia Giunta viene sostituita dalla nuova, guidata da De Magistris. Il nuovo assessore al welfare viene sollecitato e incalzato da rom e associazioni: il progetto non va bene, va ripensato tutto da cima a fondo. Insomma, fermate l’autobus, vogliamo scendere…

L’Amministrazione prende atto, sospende l’avanzamento dei lavori e avvia un percorso di “progettazione partecipata”, per il quale viene persino coinvolta l’Università. Finalmente, vien da pensare, un intervento sui rom si fa con i rom e insieme ai rom.

Il progetto definitivo…
Sono passati più di tre anni dall’avvio del percorso di “progettazione partecipata”, e alla fine si è arrivati al progetto definitivo, approvato dal Consiglio comunale partenopeo nel mese di maggio.

Rispetto al disegno originario, ci sono diverse novità di natura – per così dire – “ecologica”. Il nuovo villaggio sarà dotato di pannelli fotovoltaici per la fornitura di energia elettrica; le unità abitative non saranno più container, ma vere e proprie “casette”, costruite con materiali bio-edilizi altamente riciclabili. Accanto agli edifici, saranno allestite delle aree verdi a disposizione degli abitanti. Un progetto “ambientalista”, o almeno così sembra. Ma non è tutto oro quel che luccica.

… e le polemiche
Questo progetto, infatti, non piace a molte famiglie rom che ne sarebbero beneficiarie. E non piace alle associazioni che hanno pazientemente seguito le vicende di Cupa Perillo. Il perché ce lo spiega Francesca Saudino, avvocatessa, dirigente nazionale di OsservAzione e agguerrita sostenitrice dei diritti dei rom: «Si spendono sette milioni di euro», dice Saudino, «per costruire un villaggio per soli rom. Quei soldi vengono in gran parte dall’Unione Europea, e le indicazioni europee ci dicono che gli insediamenti monoetnici sono un errore».

Dove sta l’«errore»? E perché gli insediamenti “monoetnici” sono sbagliati? «Qui in Italia ne abbiamo avuto la prova», ci spiega ancora Francesca Saudino. «Le politiche nazionali in materia di rom e sinti hanno privilegiato i campi nomadi, insediamenti monoetnici appunto. Tutte le leggi regionali che hanno creato i campi parlavano di integrazione sociale, ma di fatto si sono costruiti dei ghetti: sarebbe ora di voltar pagina, dopo più di venti anni di fallimenti. E invece si finisce per fare un altro campo: con abitazioni più dignitose, ma pur sempre un campo. Un campo di case, come lo chiamano i rom…».

Le case “per soli rom”
«Le case per soli rom», aggiunge Marco Marino in un articolo pubblicato sulla rivista Gli Asini, «sono ripensate con tettoie, verande e garage improvvisati, ai balconi hanno fioriere ed improbabili false anfore greche. Ma ci sono anche, per poter lavorare, residui di automobili smontate, e carretti per la raccolta del ferro vecchio. I rom stessi vogliono andare via dal “campo di case” perché vivere lì è fortemente discriminante. Quando si cerca un lavoro, quella zona è sinonimo di rom, ed è difficile trovare un impiego se sulla carta di identità c’è quell’indirizzo».

E poi, dice ancora Marino, le “case per soli rom” creano diffidenza e barriere con la popolazione circostante: «c’è sempre un’ auto della polizia fuori al villaggio, e se è successo qualcosa in città si pensa sia stato un rom, e tutte le case indistintamente vengono perquisite. L’insediamento monoetnico crea un forte controllo sociale e di polizia».

Detto in altri termini, il “villaggio per soli rom” è un po’ come il “villaggio per soli ebrei”: è un ghetto. E i ghetti, per l’appunto, ghettizzano: anche se hanno le fioriere e sono costruiti con materiale bio-edilizio.

Esiste un’alternativa? Giriamo la domanda, ancora una volta, a Francesca Saudino: «l’alternativa esiste eccome», ci spiega, «e sta nella condivisione, nella partecipazione, nel coinvolgimento degli stessi rom nelle politiche che li riguardano. L’alternativa è una vera politica dell’inclusione sociale, che non isoli e non crei nuove marginalità. L’alternativa è il superamento dei campi, come dice anche la Strategia Nazionale di Inclusione, che è pur sempre un documento del governo italiano…».

Che succederà adesso? Le associazioni sono agguerrite e hanno tutta l’intenzione di contestare il progetto. Il Comune, per ora, va avanti. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli