Immigrazione, un compleanno da (non) festeggiare

Articolo pubblicato su «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», n. 199, 19 Luglio 2023

Il 25 Luglio 1998 – esattamente venticinque anni fa – l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro emanava il «Testo Unico sull’Immigrazione», cioè la legge fondamentale che regolava e regola tuttora l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Italia. Nel linguaggio del diritto, si chiama «testo unico» un decreto che raccoglie, riordina e sistematizza tutte le norme in vigore relative a una specifica materia: nel nostro caso, il provvedimento del 1998 metteva insieme – per l’appunto – le leggi sull’immigrazione, la più importante delle quali era la cosiddetta Turco-Napolitano (legge 40/1998) approvata qualche mese prima sotto gli auspici di un governo di centro-sinistra.

 

Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti, e tante cose sono cambiate. Anche chi ha una conoscenza superficiale del tema sa che dopo la Turco-Napolitano è arrivata la Bossi-Fini (nel 2002), poi il “pacchetto sicurezza” di Maroni (2009), infine – in anni più vicini a noi – il decreto Minniti, il decreto Salvini e il recentissimo “decreto Cutro” (di cui abbiamo parlato in questo stesso giornale).

Meno noto è il fatto che tutte queste norme non hanno mai abrogato il Testo Unico, ma lo hanno via via modificato ed emendato: il che significa che, pur a fronte di cambiamenti anche molto rilevanti, l’impianto complessivo e l’approccio generale della normativa sull’immigrazione sono rimasti grosso modo quelli di allora. Per questo il “compleanno” che ricorre il 25 Luglio ha una sua importanza: le politiche migratorie nazionali – nate con il Testo Unico – sono arrivate alla maggiore età, oggi diventano compiutamente adulte, ed è arrivato il tempo dei bilanci.

Il binomio sicurezza-diritti

La filosofia di fondo della “Turco-Napolitano” – su cui come abbiamo visto si basava il Testo Unico nella sua versione originaria – era ben chiarita nella relazione introduttiva al disegno di legge. Secondo gli estensori della norma, se si volevano davvero garantire i diritti degli stranieri residenti bisognava limitare, arginare, contenere i flussi migratori diretti verso l’Italia: una presenza «eccessiva» avrebbe infatti «saturato» il mercato del lavoro, avrebbe innescato una pericolosa concorrenza con i lavoratori italiani e prodotto inevitabili reazioni di rigetto nell’opinione pubblica.

«Il fenomeno migratorio», si leggeva nella relazione presentata alle Camere, «non deve essere vanamente negato né fatalisticamente subito, ma contenuto e governato. Contenuto in misura sostenibile per il sistema economico e sociale italiano; governato nella sua composizione e nel suo impatto sulla convivenza civile (…). Non chiusure totali (…) ma nemmeno ammissioni indiscriminate». «Regole certe da far rispettare», e al contempo «diritti da riconoscere pienamente»: ecco il binomio su cui doveva basarsi una politica migratoria equilibrata, matura e moderna.

Sul fronte delle «regole», era necessario soprattutto limitare e arginare gli arrivi: l’Italia doveva accogliere non tutti i migranti, ma solo coloro che potevano entrare nel mondo del lavoro senza competere con i disoccupati italiani. Si sarebbero così evitate sia le «guerre tra poveri», produttrici di razzismi e intolleranze, sia gli afflussi incontrollati di individui senza lavoro, che potevano finire nei circuiti della criminalità di strada. Il governo era perciò chiamato a definire ogni anno con un proprio decreto – il cosiddetto «decreto flussi» – il numero massimo di lavoratori stranieri che l’Italia poteva ammettere sul proprio territorio. Le presenze irregolari, invece, non dovevano essere tollerate: la legge prevedeva l’espulsione, e persino la detenzione amministrativa per gli immigrati che dovevano essere espulsi (gli attuali «Centri per il Rimpatrio» – di cui abbiamo parlato in un precedente articolo – nacquero proprio con la Turco-Napolitano).

Sul versante dei diritti, la legge introduceva il principio della parità di trattamento tra lavoratori stranieri e lavoratori italiani, garantiva ai migranti l’accesso alle principali misure di welfare, e riconosceva alcune tutele anche agli irregolari: chi non aveva un permesso di soggiorno in tasca poteva accedere liberamente alle strutture sanitarie, poteva andare a scuola se era minorenne e chiamare un avvocato se era sottoposto a un’espulsione o a un procedimento penale.

Un equilibrio instabile

Fin qui ho cercato di riassumere le principali disposizioni dell’«originario» Testo Unico in modo piano, senza enfatizzazioni polemiche, aderendo il più possibile al linguaggio e allo stile argomentativo adottato dai suoi estensori. Raccontate così, le norme della Turco-Napolitano possono sembrare ragionevoli, equilibrate e persino innovative: non a caso, proposte come quella di «accogliere solo chi può essere integrato», o quella di «impedire la guerra fra poveri» pur senza «demonizzare i migranti» vengono periodicamente rilanciate da commentatori «di sinistra» tanto autorevoli quanto disinformati, ignari del fatto che le politiche migratorie italiane funzionano già così da ben venticinque anni.

Ho detto «funzionano così»: ma funzionano davvero? Queste scelte così «equilibrate» e «ragionevoli» hanno prodotto gli effetti desiderati? Qui la risposta non può che essere negativa. Le tanto temute «reazioni di rigetto» dell’opinione pubblica, per esempio, non sono affatto scomparse: i sondaggi d’opinione segnalano la persistente ostilità di molti cittadini italiani nei confronti degli immigrati, mentre sono aumentate notevolmente le discriminazioni e i crimini d’odio (come documentano i periodici Libri Bianchi curati da Lunaria). Evidentemente, il contenimento dei flussi non è un argine al dilagare del razzismo…

Ma c’è di più. Come abbiamo visto, nel corso degli anni si sono succedute varie leggi che hanno modificato ed emendato il Testo Unico: tutte queste (contro)riforme hanno pian piano scardinato gli aspetti più progressivi del provvedimento – quelli che riconoscevano diritti e tutele ai migranti – e hanno inasprito invece le misure repressive ed espulsive. In una sorta di spirale perversa, ogni norma di garanzia è stata percepita come un’indebita «concessione», se non addirittura come un «fattore attrattivo» per i flussi irregolari (secondo l’infausta, e infondata, teoria del «pull factor»).

Se la sicurezza «mangia» i diritti…

Si potrebbero citare un’infinità di casi di questo tipo. Un esempio tipico è quello del ricongiungimento familiare, cioè della procedura che consente ad un immigrato regolare di «chiamare» il coniuge e i figli minori ancora all’estero, allo scopo di vivere con loro. In origine il ricongiungimento era pensato come un diritto del lavoratore straniero. Poi, l’arrivo dei familiari dei migranti è stato percepito (erroneamente) come un fenomeno «incontrollabile», e si sono imposti requisiti sempre più restrittivi di reddito e di alloggio: il ricongiungimento ha cessato di fatto di essere un diritto, ed è divenuto un privilegio riservato a pochi stranieri economicamente benestanti.

O, ancora, pensiamo ai decreti flussi, che dovevano selezionare gli immigrati più utili e meritevoli. Ben presto, anche questo meccanismo è apparso troppo «generoso», e si sono imposte numerose limitazioni: niente più ingressi di lavoratori domestici o di operai generici, solo manodopera stagionale e temporanea, quote annuali ridotte al minimo o quasi azzerate, procedure sempre più complesse e farraginose, e così via. Oggi, il sistema delle «quote annuali» serve a chiudere ermeticamente le frontiere, più che a «governare» i fenomeni migratori.

Per farla breve, nel corso degli anni il tanto sbandierato equilibrio tra «diritti» e «regole» è saltato: le cosiddette «regole» (cioè le disposizioni più repressive) hanno finito per fagocitare e cancellare non solo i diritti degli immigrati già residenti, ma anche le opportunità di ingresso legale dei lavoratori stranieri.

L’introiezione della cultura securitaria

Forse l’errore sta proprio nel punto di partenza: nell’idea che i fenomeni migratori siano un «problema», e che quindi debbano essere limitati, arginati, contenuti, contingentati, tenuti sotto controllo. Perché – per dirla in modo schematico e un po’ brutale – se i migranti sono davvero fonte di potenziali pericoli, la scelta migliore sarà sempre quella di tenerli lontani dalle nostre frontiere: farne entrare solo pochi e ben selezionati rischia di apparire, nel lungo periodo, non come una soluzione saggia e lungimirante, ma come un «cedimento», come la rottura di un argine. E rompere un argine, si sa, può provocare un’inondazione.

Non bisogna dimenticare che la Turco-Napolitano nacque in un clima di grandi tensioni: erano gli anni degli «sbarchi» degli albanesi sulle coste della Puglia. Incalzato dai giornali, che agitavano lo spettro di flussi «fuori controllo», l’esecutivo di centro-sinistra (guidato da Romano Prodi) dispose addirittura il blocco navale per fermare gli arrivi. Era un provvedimento senza precedenti – fu riproposto poi da Giorgia Meloni meno di un anno fa, quando era all’opposizione del Governo Draghi – che non mancò di provocare tragedie: il 28 Marzo 1997 una corvetta della Marina Militare speronò la «Katër i Radës», un’imbarcazione carica di donne e bambini migranti, provocando la morte di più di ottanta naufraghi.

Il centro-sinistra di allora, insomma, introiettò e fece proprie le ansie securitarie e repressive della destra, anche se cercò di «temperarle» con un’attenzione – certo parziale, ma non del tutto retorica – alle libertà individuali e alle garanzie del diritto. Era però un equilibrio che non poteva tenere, perché nel frattempo i grandi media seminavano allarme, e le forze politiche democratiche facevano ben poco per proporre un’immagine diversa dei fenomeni migratori. Ed è proprio su questo punto – sull’immagine dei fenomeni migratori – che occorrerebbe oggi un cambio di passo.

Il diritto di migrare

Cosa accadrebbe se pensassimo l’immigrazione non come un «problema», e neppure come un «fenomeno da governare» – come dicono i commentatori meno ostili ai migranti – ma come un vero e proprio diritto da garantire e tutelare? Cosa accadrebbe se la libera circolazione internazionale fosse pensata soprattutto come un diritto dei lavoratori e delle lavoratrici, in qualche modo affine al diritto di abbandonare il proprio posto di lavoro per cercarne uno diverso e più dignitoso?

Può apparire, questa, una prospettiva lontana e utopica, visto che oggi quasi nessun Paese del mondo ha le frontiere completamente aperte. Eppure, a livello internazionale ne stanno discutendo giuristi, sociologi, storici ed economisti, e alcune elaborazioni in questo senso sono apparse anche in Italia (ad esempio nei testi della filosofa Donatella di Cesare o in quelli del giurista Luigi Ferrajoli).

Quanto è davvero utopica questa prospettiva? In realtà lo è molto meno di quanto si pensi, perché molti Paesi hanno già oggi una qualche forma di «diritto di migrare», sia pure limitato ad alcune specifiche categorie o nazionalità. Nell’Unione Europea, per esempio, tutti i cittadini possono liberamente circolare nei vari Paesi membri: un italiano può andare liberamente in Francia, in Germania o in Spagna, e un rumeno o un bulgaro può trasferirsi quasi senza restrizioni in Italia o in Belgio.

Nel 2004, quando l’Unione si aprì ad Est, consentendo l’ingresso di Polonia, Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, Slovacchia e di altri Paesi ex comunisti, molti commentatori paventarono inevitabili «invasioni» di migranti poveri e spiantati: oggi, a venti anni di distanza, dobbiamo riconoscere che non c’è stata nessuna invasione, e anzi l’apertura delle frontiere interne ha per molti aspetti favorito i processi di integrazione tra le diverse aree del Vecchio Continente.

D’altra parte, la libera circolazione nel territorio Ue non significa affatto «assenza di controlli», perché ogni cittadino che si trasferisce in un Paese europeo diverso dal proprio deve comunque registrarsi e richiedere un documento di soggiorno, e nei casi più gravi – quando vi sono reati o situazioni effettivamente pericolose – anche un cittadino «comunitario» può essere espulso. I controlli ci sono, dunque, ma funzionano in un quadro di complessivo riconoscimento di un diritto soggettivo alla mobilità.

Nulla, se non il nostro pervicace e mai sopito razzismo, ci impedirebbe di estendere ai migranti africani, asiatici o latino-americani questo diritto alla mobilità, che abbiamo finora riservato ai soli «bianchi» europei. E dunque, per una sinistra che voglia essere tale, la sfida che si apre in occasione del «compleanno» del Testo Unico è proprio questa: ripensare le politiche migratorie a partire dalla «ius migrandi», dal diritto di circolare liberamente lungo le frontiere. È un’utopia molto più concreta, realistica e realizzabile di quanto non sembri a prima vista.

Sergio Bontempelli