Diritti dei migranti e antirazzismo

Categoria: corriereimmigrazione

Siamo alla frutta: la guerra dei mirtilli

Articolo originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione

È scoppiata la guerra. Giovedì scorso, il 5 Settembre. Proprio così.
Ma come, Obama ha già bombardato la Siria? Non si era impegnato a consultare il Congresso? E chi ha sganciato la prima bomba, gli Stati Uniti o la Francia? Come ha reagito la Russia? E l’Italia, che fa l’Italia? Bombarda o si tiene fuori dalla mischia?

Calma. Nessun bombardamento a Damasco. Non il 5 Settembre, almeno. Perché quella in Siria è (sarebbe) una guerra un po’ tradizionale, dice che la fanno per il petrolio e per i gasdotti, per il controllo geopolitico dell’area mediorientale, per indebolire Assad che – dice – è amico di Putin. Roba vecchia, superata. La guerra, quella vera, è altrove. Si combatte – pensate – sulla Montagna Pistoiese, nel versante toscano dell’Appennino. E la posta in gioco non è il petrolio, ma un bene alimentare di prima necessità: i mirtilli.

A ragguagliarci sul tema è il quotidiano fiorentino La Nazione, la cui edizione pistoiese spara un bel titolo a furor di locandina: «Raccolta mirtilli, scoppia la guerra con gli stranieri». Dunque, non si tratterebbe di un conflitto qualsiasi, ma di un vero e proprio scontro di civiltà: una guerra etnica, italiani contro stranieri. Per i mirtilli. La balcanizzazione della marmellata, potremmo dire.

Per saperne di più, bisogna comprare l’edizione cartacea del quotidiano: un paginone intero è dedicato a questo dramma appenninico, che si sta consumando nel silenzio (colpevole) dell’intera comunità internazionale.

«Montanari contro stranieri», dice il titolo del pezzo (prendete nota: un montanaro non può essere straniero, e viceversa). «Tutto nasce», ci spiega l’articolo, «dall’invasione di raccoglitori di frutti di bosco stranieri: albanesi e stranieri in particolare». Ecco, gli stranieri coinvolti sarebbero di varie nazionalità, ma «in particolare» albanesi e stranieri. Il concetto degli stranieri che sarebbero «in particolare stranieri» fa venire un po’ le vertigini, ma non abbiamo tempo di attardarci, gli eventi incalzano.

Il Corpo Forestale informa che «vi sarebbero conferme di queste presenze». E tuttavia, aggiunge il cronista, «come queste persone siano arrivate, dove abitino e cosa facciano la sera, è uno dei misteri meglio custoditi dalla montagna». Abbiamo a che fare quindi con un nemico invisibile, una specie di “abominevole straniero delle nevi”, e c’è da aver paura davvero.

Le forze dell’ordine si stanno muovendo, dice ancora il cronista, e nelle ultime settimane hanno controllato cinquanta persone: di queste, ben tre sono state multate, cosa che dimostra il dilagare incontrollabile dell’abusivismo. Intanto, i residenti denunciano «l’invasione dei cercatori» che «saccheggiano i nostri mirtilli». La marmellata è a rischio, e con essa la pace. Chiamate Obama. Convocate l’ONU.

Sergio Bontempelli

11 Settembre 2013

Sicurezza, emergenza pinoli in Toscana

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione

Un giornale locale: il racket del pesto gestito dai romeni

Un secolo fa gli “stranieri nemici” per eccellenza erano gli ebrei: che, secondo gli antisemiti dell’epoca, controllavano banche, industrie, eserciti e Stati sovrani. Ordivano complotti e scatenavano guerre. In tempi più recenti, è venuto il turno degli “extracomunitari”: albanesi, maghrebini e africani sono stati accusati di controllare il mercato della droga e della prostituzione.

Oggi, in tempi di crisi economica, anche le fantasie xenofobe devono adeguarsi al clima di austerità: così, i nuovi mostri dell’immaginario – i romeni – non controllano né banche, né industrie, né eserciti. Non gestiscono il mercato mondiale degli stupefacenti, non organizzano il traffico delle prostitute dall’Est, e per la verità non fanno nemmeno scippi o furti nelle case. La nuova frontiera della criminalità è il traffico di pinoli. Da destinare – tenetevi forte – al “mercato nero del pesto”.

A disegnare la geografia di questo fenomeno criminale è «Il Tirreno», quotidiano diffuso in tutta la Toscana. Che apre l’edizione di Domenica 17 Marzo con un documentato reportage sul tema: «ormai si può parlare di una vera e propria “escalation”», dice il cronista. L’escalation dei pinoli. Roba da brividi.

Ma andiamo con ordine. Tutto comincia con una domanda: «perché stanno acciuffando uno dopo l’altro così tanti ladri da supermarket con giacche e borse imbottite di confezioni di pinoli?». Già, perché? La risposta non è difficile: «la via maestra sembra essere quella del pesto, basato proprio sul prezioso prodotto, che è sempre meno e sempre più costoso. Mercato clandestino».

Traffico di pinoli. Mercato nero del pesto. Organizzazioni criminali romene. Non ci credete? Vi sembra una bizzarria da giornalista a corto di idee? All’inizio anche gli inquirenti la pensavano così, ma si sono dovuti ricredere: perché questa “bizzarria”, ci spiega Il Tirreno, «ha ottenuto la promozione a traffico vero e proprio» in occasione dell’arresto di un romeno davanti a un supermercato di Borgo San Lorenzo, vicino Firenze. I carabinieri hanno trovato il malfattore «imbottito di 80 bustine di pinoli».

Non basta. «Controllando i suoi documenti abbiamo notato subito che era residente a Genova», raccontano i militari. Pinoli, Liguria, Genova: la conclusione si impone quasi da sola. E allora gli investigatori provano ad incastrare il ladro: «abbiamo chiesto spiegazioni di un furto così insolito, e lui ha risposto che la merce era destinata al mercato nero del pesto». Come volevasi dimostrare.

Il fenomeno, peraltro, non è limitato alla Toscana. Girovagando in rete, apprendiamo di un furto di pinoli a Savona, di un altro ad Albenga e di un altro ancora a La Spezia. Gli arrestati sono tutti romeni: si deve dunque supporre l’esistenza di una fitta rete criminale che congiunge Romania e Liguria. A cui si aggiunge Roma, dove a quanto pare si registrano due furti alla settimana. Genova, Roma, Bucarest. Il triangolo del pinolo.

Ci sono gli ingredienti per una nuova emergenza. A questo punto, si spera che le forze dell’ordine si mobilitino. E che arrestino velocemente il “palo della banda del pinolo”. Al momento, come dice il mio amico Stefano Galieni, sulle indagini è “buio pesto”.

Sergio Bontempelli

25 Marzo 2013

Femminismo tzigano

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione, ripubblicato su Zeroviolenza. Leggi anche la versione PDF

Ana Maria Cioaba aveva appena dodici anni quando – nel settembre 2003 – la sua famiglia organizzò il suo matrimonio con un coetaneo. Siamo a Sibiu, in Romania, nel quartiere dove vivono i rom Kalderash. Qui i matrimoni combinati sono pratica usuale, 
e quello di Ana Maria potrebbe passare inosservato: ma le cose, stavolta, vanno diversamente.

Per i giornali romeni, la cerimonia nuziale è una ghiotta occasione per scrivere un “pezzo di colore”, come si dice in gergo. La limousine, l’abito da sposa da 4.000 dollari, la collana di diamanti, le 2.600 bottiglie di vino: gli ingredienti per una storiella scandalistica ci sono tutti. Gli “zingari straccioni” con la Mercedes, del resto, sono sempre un buon argomento per i giornalisti a corto di idee. E poi c’è il padre di Ana Maria, uno che si fa chiamare “re dei rom” e che alla cerimonia arriva con la corona in testa. Uno scoop da non perdere.

La faccenda è talmente curiosa che fa il giro del mondo, ne parlano anche la Bbc e il New York Times. Ma allo scandalo iniziale si aggiungono le critiche. Emma Nicholson, inviata in Romania per conto della Ue, sollecita un’indagine della polizia: poiché il matrimonio è stato combinato dalle famiglie e la ragazza ha appena dodici anni, siamo di fronte – dice la Nicholson – alla violazione dei diritti di una minore.

Il 2 ottobre esce un editoriale del quotidiano Evenimentul Zilei (che in rumeno suona più o meno come “il fatto quotidiano”, ma che non ha nessun legame con il giornale di Padellaro e Travaglio): Dan Tapalaga, autore del pezzo, si chiede come risolvere il conflitto tra le «tradizioni rom» e la «legge romena». Ricordiamo questa dicotomia, perché dovremo tornarci tra poco: da un lato la “tradizione”, arretrata, incivile, violenta; dall’altro la “legge”, per definizione evoluta, civile e “femminista”.

Il femminismo rom alla prova
La zia di Ana Maria, Luminita Cioaba, è una poetessa, un’intellettuale e un’esponente del movimento femminista rom. E’ contraria ai matrimoni tra minori: perciò si arrabbia col fratello – padre di Ana Maria – e cerca di convincerlo a non dare in sposa la figlia. Ma quando la vicenda fa il giro del mondo, si rende conto che le polemiche sono solo un pretesto per criminalizzare i rom: e passa, per così dire, dall’altra parte della barricata, diventando sostenitrice delle “tradizioni zingare”.
Il 2 ottobre rilascia un’intervista di fuoco al solito Evenimentul Zilei: «ci avete fatto passare per barbari stupratori», dice, «noi abbiamo le nostre leggi non scritte, e nessuno deve sfidarle».
Una storia emblematica, quella di Luminita. Perché i suoi valori di donna impegnata e femminista sembrerebbero scontrarsi con la “cultura” rom: le “tradizioni” contro la “legge”, ancora una volta. Ma le cose stanno davvero così? Il nuovo femminismo rom, che sta emergendo nell’Europa dell’Est e non solo, ha fatto del “caso Cioaba” un banco di prova per proporre un’interpretazione diversa. Vediamo meglio.

Diffidare dei “salvatori”
Il “caso Cioaba” è ricco di aspiranti “salvatori” (e salvatrici) della piccola Ana Maria. L’inviata dell’Unione Europea Emma Nicholson, lo abbiamo visto, ha sollecitato l’intervento della polizia a protezione della minore: ma non ha mai mosso un dito per denunciare le discriminazioni che proprio le donne rom subiscono, in Romania, nell’accesso alla scuola, al lavoro e all’assistenza sanitaria.

I giornali, dal canto loro, sono pronti alle lacrime se una rom è sfruttata e oppressa dagli uomini della sua comunità. Ma “dimenticano” le violenze che le stesse donne subiscono ad opera della società maggioritaria. Alexandra Oprea, esponente del femminismo rom romeno, cita un caso concreto: nei giorni in cui la stampa solidarizzava con la piccola Ana Maria, un’altra rom, Olga David, moriva per le percosse di una guardia giurata a Petrosani. In una fredda giornata d’inverno, per scaldare i figli aveva rubato del carbone in una miniera. Nessun giornale romeno si occupò del caso.

Quella delle autorità pubbliche e della stampa è insomma una solidarietà a geometria variabile, pelosa e interessata. In Italia le cose non vanno diversamente, come dimostra il caso della “sposa bambina” a Pisa. Qui sono stati versati fiumi d’inchiostro per difendere la minorenne «segregata e violentata dai maschi zingari» (ma la sentenza dice che non è vero, come spieghiamo su questo stesso giornale). Quando invece il Comandante della Polizia Municipale, nel 2010, si recò al campo ad insultare una donna rom, minacciando di toglierle il bambino, nessun giornalista locale si mostrò indignato.

La “tradizione” contro la “legge”?
E poi c’è la faccenda della “tradizione” contro la “legge”. Davvero i matrimoni combinati sono frutto di una cultura tradizionale, premoderna e arretrata? Da una ricerca condotta nel 2011 dall’Amalipe Center, una Ong bulgara, emerge anzitutto che le pratiche variano da gruppo a gruppo. Lo studio prende in esame i Balcani, con una particolare attenzione per Romania, Bulgaria e Grecia: in questa ampia area geografica, le comunità rom sono molto diverse tra loro, e le pratiche matrimoniali – l’età degli sposi, il ruolo delle famiglie di origine, l’uso della dote ecc. – variano in modo considerevole. Difficile parlare, in un quadro così complesso, di “tradizione”.

La diversità di pratiche matrimoniali determina anche profonde differenze nel ruolo della donna. Matrimonio combinato (cioè pianificato dai genitori) non significa necessariamente matrimonio forzato (imposto alle ragazze contro la loro volontà): rituali e tradizioni cambiano da gruppo a gruppo, e cambia anche il grado di libertà garantito alle giovani spose. Nella maggior parte dei casi, il consenso delle ragazze è un elemento fondamentale nel determinare la scelta del matrimonio.

Ma c’è di più. «La nostra indagine», ha spiegato a Radio Bulgaria Deyan Kolev, uno degli estensori della ricerca, «ha messo in luce tre fattori significativi legati all’età precoce del matrimonio. Il fattore più importante è il grado di istruzione: i rom che non hanno terminato le scuole elementari si sposano in media attorno ai sedici anni, mentre tra i laureati l’età media del matrimonio si aggira intorno ai venticinque. Gli altri due fattori sono le condizioni economiche e quelle abitative».

In altre parole, c’è un nesso tra pratiche matrimoniali ed emarginazione sociale. Ne spiega le ragioni la già citata Alexandra Oprea in un articolo illuminante: «la mancanza di opportunità di istruzione e di lavoro per le giovani rom determina in molti casi le decisioni famigliari. Detto in altri termini, i genitori finiscono per pensare “mia figlia non sta facendo nulla nella vita, tanto vale che si sposi…”. Migliori opportunità di istruzione e di lavoro favorirebbero l’emancipazione delle donne rom, agevolando la loro mobilità sociale e ampliando il ventaglio delle scelte di vita possibili».

Attiviste rom romene come Alexandra Oprea e Nicoleta Bitu si soffermano molto su questo punto: le pratiche dei matrimoni combinati non sono espressione della “cultura rom”. Nessuna cultura, del resto, è monolitica e impermeabile, e tutte le pratiche sociali – ivi incluse quelle delle minoranze – sono il prodotto di interazioni con il mondo circostante: la discriminazione, il mancato accesso alla scuola e al lavoro, la segregazione abitativa sono fattori che determinano le pratiche cosiddette tradizionali.

Una rivendicazione “antica”: diritto di scelta, autodeterminazione
Il femminismo rom non nega l’esistenza di conflitti all’interno delle proprie comunità. Tutt’altro. Quella che viene contestata è, piuttosto, l’immagine manichea fornita dalla stampa e dal sistema dei media: da una parte il mondo dei rom, arretrato e patriarcale, dall’altra la società “moderna”, civile e “femminista”.

In questa visione manichea, la donna rom non è un soggetto attivo e consapevole. Non decide le forme e le modalità della propria emancipazione. Non ha il diritto di trovarsi un lavoro o di andare a scuola. Non è autorizzata a negoziare il proprio ruolo all’interno della coppia e della comunità di appartenenza. Deve essere “salvata” dall’esterno: dalla polizia, dagli assistenti sociali, dalle autorità pubbliche.
Un po’ come accade in certe città italiane durante gli sgomberi: alle donne viene offerto un posto letto, sempre temporaneo, purché si separino dai mariti: purché accettino di essere “liberate dall’oppressione”, consegnate agli assistenti sociali “liberatori”.

In questo senso, il nuovo femminismo rom dell’Europa dell’Est rivendica un principio in fin dei conti semplice e “antico”: il diritto all’autodeterminazione e la libertà di scelta della donna rom. Un principio che chiama in causa le comunità di appartenenza, ma anche (e forse soprattutto) la nostra società e le nostre istituzioni, sedicenti “libere” e “progredite”.

Sergio Bontempelli, 18 Marzo 2013

La sposa bambina e il processo ai rom

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione, poi ripubblicato da Mahalla

Un “matrimonio combinato” in un campo rom dà il via a una lunga vicenda giudiziaria: i rom sono accusati di aver ridotto in schiavitù la giovane sposa. Ma la versione dell’accusa non regge. Ecco cosa è successo

Tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, violenza sessuale di gruppo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sono i pesantissimi capi di imputazione a carico di cinque rom, tutti residenti nel campo di Coltano a Pisa: colpevoli, secondo l’accusa, di aver portato in Italia una minorenne kosovara, costringendola prima a sposarsi con un giovane del campo, poi a vivere segregata nella sua baracca. Il processo in Corte d’Assise, durato più di due anni, sta arrivando alle battute conclusive: Venerdì si sono tenute le arringhe del Pm e di tre difensori, e per il 15 marzo è attesa la sentenza. Nel frattempo, la versione dell’accusa è stata pesantemente ridimensionata: vale la pena vedere cosa è successo.

Il matrimonio combinato e la “sposa bambina”
La vicenda risale a due anni fa, quando la polizia fa irruzione a Coltano e arresta i cinque attuali imputati. E’ il 27 ottobre 2010. Pochi mesi prima, la comunità rom aveva festeggiato un evento speciale: il matrimonio tra un ragazzo di quindici anni e una sua coetanea, che aveva richiamato decine di rom da tutta Italia. La sposa, peraltro, non aveva mai visto il campo di Coltano: nata e cresciuta in Kosovo, aveva deciso di trasferirsi a Pisa per raggiungere il promesso sposo.
I due ragazzi si erano conosciuti tramite un’amica comune, e avevano cominciato a “chattare” su internet. Poi, com’è d’uso in questa comunità, le famiglie si erano accordate e avevano combinato il matrimonio: i parenti del ragazzo avevano versato la dote, ed erano andati a prendere la giovane per portarla a Pisa. Questa, almeno, è la versione dei rom.

Qualcosa però era andato storto. La ragazza non si era trovata bene a Coltano. E a un certo punto aveva deciso di sporgere denuncia contro il marito, i suoceri e il cognato: accusandoli di averla portata in Italia con la forza, di averla fatta oggetto di minacce e ripetute violenze. Di qui l’arresto e l’avvio del processo. E torniamo così al 27 ottobre 2010, data in cui comincia questa lunga e complicata storia.

Le polemiche in città
Com’è prevedibile, l’arresto dei cinque rom finisce su tutti i giornali locali. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre 2010, i cronisti si scatenano: il “matrimonio combinato”, la tenera età degli sposi, la violenza su una ragazza di appena quindici anni, le “tradizioni” rom in contrasto con la “modernità”. Un copione consolidato, che mette sotto accusa non solo gli imputati, ma l’intera comunità rom: le cui usanze, spiega il Presidente del Tribunale, «nel nostro paese si configurano come reati».

A gennaio, interviene anche il Comune. Che provvede a sfrattare la madre dello sposo dalla sua casetta al campo di Coltano. Il 31 gennaio 2011, il giorno più freddo dell’anno, la donna viene allontanata con la forza dalla polizia municipale. «Lo stesso fatto di essere imputata per reati di tale gravità», si legge nel provvedimento di sfratto, «denota la fuoriuscita dal percorso di integrazione». L’associazione Africa Insieme, da sempre vicina ai rom, e Padre Agostino, il prete che vive al campo nomadi, protestano inutilmente: in questo modo, dicono, la donna è già dichiarata colpevole, prima ancora della sentenza.

La vicenda processuale e i dubbi sulla versione dell’accusa
Nella Primavera 2011, la vicenda entra in un cono d’ombra, e nessuno ne parla più. Ma il processo prosegue: vengono visionati filmati e fotografie del matrimonio, si ascoltano i testimoni e gli imputati, si leggono le intercettazioni telefoniche. E gradualmente si fanno largo i dubbi sulla versione dell’accusa.

Gli avvocati difensori si concentrano in un primo momento sul giorno del matrimonio: tutte le fotografie ritraggono la sposa sorridente e felice, abbracciata al marito e ai suoceri, intenta a conversare con amici e parenti. I testimoni ricordano il clima di festa, i video la sorprendono mentre danza con le amiche e taglia la torta. Come è possibile che una ragazza così felice, almeno in apparenza, sia ridotta in schiavitù?

Tutti i testimoni – compreso Padre Agostino, il prete cattolico che vive a Coltano insieme ai rom – ricordano che la ragazza non era segregata nella sua baracca, ma circolava liberamente. La parrucchiera del paese dice di averla vista più volte al suo negozio. Altri ricordano la partecipazione della ragazza alle feste di Camp Darby, la base militare americana a due passi dal campo.

L’accusa risponde ricordando che anche alle prostitute vittime di tratta si concedono brevi momenti di serenità: perché la violenza non è fatta solo di calci e pugni, ma si nutre di soggezione e dipendenza psicologica, di premi e punizioni, di attimi di gioia che si alternano a periodi cupi di minacce e intimidazioni.

Vi sono tuttavia altre circostanze che gettano un’ombra sulla versione del Pm. Dopo l’inizio del processo, il telefono della giovane sposa viene messo sotto controllo. Le intercettazioni registrano i colloqui con il padre, che spiega alla figlia quel che deve dire agli inquirenti: mi raccomando – implora il genitore – dì che sei stata costretta ad andare a Coltano, dì che sei stata segregata, dì che sei stata picchiata e violentata. La famiglia della sposa riceve anche una telefonata della madre del giovane marito: ignara di essere intercettata, la donna implora i consuoceri, «dite a vostra figlia di raccontare la verità…». Non sembrano le parole di chi ha qualcosa da nascondere.

Non basta. La polizia, che ha condotto le indagini, dice di aver trovato la ragazza in stato di soggezione, costretta a vivere nella sua baracca senza poter mai uscire. Ma i carabinieri, che ogni giorno si recano al campo per controllare un rom agli arresti domiciliari, non si sono mai accorti di nulla. Possibile?

La versione della difesa
Ma perché una ragazzina di 15 anni dovrebbe inventare una storia del genere? Ed è qui che la versione della difesa appare abbastanza plausibile. La ragazza aveva un altro fidanzato in Kosovo: nulla di male – tiene a precisare l’avvocato Giribaldi nella sua arringa – cose che succedono, soprattutto in età adolescenziale. Trovatasi a Coltano lontana da casa, in mezzo a persone di cui non capiva la lingua (la sposa parlava solo albanese), ha cominciato a sentire nostalgia per la sua terra. Le intercettazioni rivelano anche contatti frequenti con l’ex fidanzato in Kosovo, al quale la giovane prometteva di tornare presto.

Secondo i difensori, la ragazza avrebbe maturato la volontà di tornare a casa. Ma la rottura del matrimonio avrebbe significato, per la famiglia, restituire la “dote” ai genitori dello sposo: e proprio la restituzione di quel denaro avrebbe messo in grave difficoltà il padre e la madre della ragazza. Così, ecco la via di fuga. Andare alla polizia, e raccontare quello che gli agenti vogliono sentirsi dire: una storia di violenza e di usanze “primitive”, che assecondi gli stereotipi sui rom “arretrati” e “incivili”.

Come andrà a finire il processo nessuno lo sa. Finora, il dibattito cittadino si è concentrato sulle “usanze” dei rom: il matrimonio combinato, gli sposi bambini… Si tratta, certo, di usanze che possono non piacere: ma da qui a parlare di tratta degli esseri umani ce ne corre. Violenze, minacce e riduzione in schiavitù non sono la diretta conseguenza di quelle “usanze”, ma reati gravissimi che vanno provati e circostanziati. E di prove, nel corso del processo, ne sono emerse davvero poche. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli

 

Sanatoria flop

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione

Mentre scriviamo questo articolo, mancano poche ore alla conclusione della sanatoria (le domande si possono presentare entro la giornata del 15 Ottobre). Ma è già tempo di bilanci, e per il governo il rendiconto si presenta assai magro: alla giornata di venerdì, risultavano inviati al Ministero poco più di 100.000 moduli, per la precisione, 106.194 (a sanatatoria chiusa sono risultati 134.576).

Un vero e proprio flop, da qualunque punto di vista lo si analizzi. Le domande del 2012 sono circa un terzo di quelle della regolarizzazione del 2009 (295.112), poco più di un settimo di quelle relative alla sanatoria del 2002 (701.906), e circa un quarto di quelle dell’ultimo decreto flussi (411.117).
Il fallimento è evidente anche se si considerano le stime della presenza irregolare. Secondo una recente indagine dell’European Migration Network, gli irregolari in Italia sarebbero circa mezzo milione: se questa cifra fosse realistica – ed è noto che dati del genere sono approssimati per difetto – solo un quinto dei potenziali beneficiari della “sanatoria” sarebbe riuscito a presentare la domanda.

Certo, è probabile che nella giornata di lunedì si registri una piccola “impennata”: ritardatari e indecisi potrebbero fare la differenza, e il numero di domande potrebbe crescere anche in misura rilevante. E’ difficile però che si inverta la tendenza di fondo: per la prima volta negli ultimi venti anni, una “sanatoria” per immigrati irregolari si rivela un fallimento.

Le ragioni del flop
Come spiegare tutto questo? Certo, un ruolo può averlo giocato la crisi economica: le aziende chiudono, i lavoratori vengono mandati a casa, e anche i settori che impiegano manodopera irregolare sono in sofferenza. La legge era pensata proprio per mettere in regola i lavoratori, coloro che erano impiegati “al nero” presso aziende o famiglie: gli immigrati irregolari disoccupati non potevano invece accedere alla procedura.

E tuttavia, la crisi non basta a spiegare quel che è successo. Perché un ruolo decisivo è stato giocato dai requisiti irrealistici previsti dalla legge. Come abbiamo scritto su questo stesso giornale, la sanatoria era riservata a datori di lavoro molto ricchi e molto generosi. Ricchi, perché per poter fare domanda era necessario disporre di redditi relativamente alti (dai 20 ai 30.000 euro annui a seconda dei casi). Generosi, perché l’accesso alla procedura aveva costi proibitivi: tra “contributo forfetario” (le famose 1.000 euro), arretrati dovuti all’Inps, oneri fiscali e trattenute, la cifra minima per poter regolarizzare un lavoratore si aggirava sulle 2-3mila euro.

Non solo. Ai lavoratori veniva richiesto un requisito impossibile: loro, i “clandestini” – quelli che per definizione si nascondono allo sguardo di polizie ed enti pubblici – dovevano esibire una “prova” della loro presenza in Italia, certificata nientemeno che… da un ente pubblico. Per poter fare domanda, bisognava dunque essere così “fortunati” da aver avuto una precedente espulsione, o un ricovero ospedaliero.
Solo all’ultimo tuffo, un “provvidenziale” parere dell’Avvocatura dello Stato aveva allargato un po’ le maglie, riconoscendo come “prove” anche le schede sim dei cellulari, o gli abbonamenti ai mezzi pubblici. Troppo tardi e troppo poco.

Servono norme realistiche
La vicenda della sanatoria 2012 è in questo senso emblematica. Da tempo le normative sull’immigrazione chiedono requisiti impossibili. Per entrare in Italia, l’aspirante lavoratore straniero deve disporre, prima ancora della sua partenza, di un datore di lavoro che effettui una vera e propria “assunzione a distanza” in suo favore. E quale datore deciderà di assumere una persona mai vista, che abita a migliaia di chilometri?
Per poter richiedere un “ricongiungimento familiare” – cioè per chiamare in Italia un proprio parente – l’immigrato deve disporre di un “alloggio idoneo”, cioè abbastanza grande, non sovraffollato e conforme alle normative igienico-sanitarie: un requisito che spesso nemmeno i lavoratori italiani sono in grado di soddisfare…

L’elenco potrebbe continuare a lungo: per entrare in Italia, avere un permesso di soggiorno, chiamare un parente o rinnovare i documenti, gli immigrati sono costretti ad esibire requisiti improbabili, irrazionali, spesso impossibili o contraddittori. La sanatoria 2012 non è che l’ultimo esempio di questi meccanismi di “burocrazia infernale”: la speranza è che proprio il suo clamoroso fallimento spinga i decisori politici ad un ripensamento complessivo delle politiche migratorie.

Servirebbero meccanismi ragionevoli e aderenti alla realtà: una “sanatoria”, per esempio, dovrebbe servire a mettere in regola chi lavora, non chi ha la fortuna di avere un datore “ricco e generoso”, o chi per puro caso si è dovuto ricoverare in ospedale nell’anno 2011…

Qualche interrogativo: come cambia l’immigrazione in Italia?
In mezzo a questo caos, spiccano alcuni dati che meriterebbero un’analisi più approfondita. Ci si riferisce qui, in particolare, alle nazionalità dei lavoratori per cui sono state presentate le domande: scorrendo la “graduatoria” delle prime dieci, si hanno infatti diverse conferme e qualche sorpresa.

Al primo posto – con circa 13.000 domande – ci sono i lavoratori provenienti dal Marocco: un flusso migratorio da sempre importante per l’Italia, che non si è mai esaurito e che si dimostra ancora molto attivo. L’Ucraina, da almeno un decennio luogo di origine di molte lavoratrici domestiche, occupa il terzo posto, con più di 10.000 domande.

Ma in cima alla graduatoria troviamo anche nazionalità relativamente “nuove”: Bangladesh, Egitto, Pakistan. I numeri sono modesti, ed è difficile trarre conclusioni certe da questi dati: ma la prima impressione è che qualcosa stia cambiando nella composizione dei flussi diretti verso il nostro paese. Le “grandi migrazioni” – le decine di migliaia di cittadini rumeni arrivati all’inizio del nuovo millennio, o il rilevante flusso di lavoratori albanesi negli anni novanta – sembrano lasciare il posto a fenomeni più contenuti sul piano numerico, ma che modificano la realtà dell’immigrazione nel nostro paese. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli

Sanatoria migranti, solo per ricchi e generosi

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione, poi ripubblicato su Globalist

Esisterà davvero qualcuno in grado di presentare istanza per la nuova regolarizzazione? La domanda sembra provocatoria, ma non lo è: perché i requisiti richiesti sono davvero proibitivi, e sembrano costruiti apposta per scoraggiare i “regolarizzandi”. Per come è stata congegnata, infatti, la procedura sembra riservata a datori di lavoro molto ricchi, e anche molto generosi (disponibili cioè a versare migliaia di euro pur di mettere in regola i propri lavoratori…). In più, questi stessi datori devono avere assunto migranti irregolari abbastanza sfortunati da aver avuto un foglio di via, o un ricovero ospedaliero, nel corso del 2011. Requisiti che difficilmente ricorrono tutti insieme. Ma proviamo ad andare con ordine, e a farci un’idea di come funziona il tutto.

Chi può fare la domanda

Dopo un mese e mezzo di silenzio, il Governo ha finalmente varato, il 7 settembre, il decreto attuativo che spiega – o che dovrebbe spiegare – le procedure della sanatoria; insieme al decreto, è uscita una circolare interministeriale che entra – o dovrebbe entrare – nei dettagli più tecnici e controversi. In realtà, come vedremo tra un attimo, molti punti restano oscuri: per questo il condizionale è d’obbligo.

Per ora sappiamo poche cose. Sappiamo che potranno far domanda i datori di lavoro, e solo loro: gli immigrati irregolari – cioè i “diretti interessati” – non potranno procedere autonomamente alla richiesta di regolarizzazione. Sappiamo anche che potranno far domanda coloro che abbiano assunto irregolarmente lavoratori stranieri almeno tre mesi prima dell’entrata in vigore della legge – quindi dal 9 maggio 2012 – e che abbiano ancora in corso il rapporto di lavoro. I datori possono essere famiglie (per il lavoro domestico), oppure ditte (per qualunque tipo di impiego subordinato), e il rapporto di lavoro può essere a tempo indeterminato o determinato. Non è ammesso invece il part-time, e solo per i domestici è possibile un’assunzione per un minimo di 20 ore settimanali. Possono accedere alla procedura anche i datori stranieri, purché abbiano la cosiddetta “carta di soggiorno” (va bene sia la carta plastificata dei lungo-soggiornanti, sia il documento cartaceo dei famigliari di cittadini europei).

Sappiamo, infine, che non tutti possono partecipare alla regolarizzazione: ne sono esclusi i lavoratori e i datori di lavoro condannati per alcuni tipi di reato (anche se hanno patteggiato), e i datori che, nelle precedenti sanatorie o nei decreti flussi, abbiano presentato domanda ma non siano andati in prefettura per la firma del contratto di soggiorno. Fin qui, le regole somigliano a quelle in vigore per le precedenti regolarizzazioni. Vi sono però almeno tre elementi che rendono molto difficile partecipare alla procedura. Vediamoli brevemente.

I costi

Il primo problema è relativo al costo della regolarizzazione. Il datore di lavoro deve pagare 1.000 euro all’atto di presentazione della domanda. In più, se l’iter burocratico si conclude positivamente (a decidere è la prefettura), il datore deve regolarizzare la sua posizione retributiva, fiscale e contributiva relativa ad almeno 6 mesi: il che significa, in soldoni, altre centinaia o migliaia di euro, a seconda della tipologia di lavoro e dei relativi oneri. Come altre volte è accaduto, queste cifre – teoricamente a carico del datore di lavoro – verranno, di fatto, pagate dagli stessi migranti: ma quale straniero irregolare può permettersi un esborso così oneroso?

Il reddito del datore di lavoro

Come si accennava, solo i datori di lavoro ricchi potranno permettersi di far domanda: non solo per gli alti costi della procedura, ma anche perché il regolamento attuativo richiede ai datori un reddito annuale molto elevato. Per le ditte, il reddito o il fatturato deve essere di 30.000 euro l’anno.

Per il lavoro domestico, il reddito minimo è fissato in 20.000 euro l’anno, se nella famiglia vi è una sola persona che percepisce un reddito, e in 27.000 euro “in caso di nucleo familiare (…) composto da più soggetti conviventi”. Qui sembra che ci sia un errore: evidentemente si vuol dire che i 27.000 euro sono necessari non quando la famiglia è composta da più persone, ma quando diverse persone lavorano e percepiscono un reddito. Per fare un esempio semplice, prendiamo una famiglia con moglie, marito e due figli. Se lavora solo il marito, la famiglia può fare domanda se il reddito è di almeno 20.000 euro l’anno. Se lavora anche la moglie la cifra sale a 27.000 euro (ma in questo caso si somma il Cud della moglie con quello del marito).

Infine, non serve il reddito se il datore è “affetto da patologie o handicap che ne limitano l’autosufficienza”. In questo caso, serve naturalmente idonea certificazione medica.

La “prova di presenza”

Ma la norma più vessatoria è quella che riguarda la cosiddetta “prova di presenza”. La domanda di regolarizzazione può essere infatti presentata solo se il lavoratore straniero è presente in Italia, senza interruzione, almeno dal 31 dicembre 2011. Il richiedente deve presentare idonea documentazione che dimostri la presenza in Italia, e questa documentazione è valida solo se proveniente da organismi pubblici.

Ma se lo straniero era irregolare quale ente pubblico può certificare la sua presenza in Italia? Essendo privo di permesso di soggiorno, l’immigrato non poteva andare negli uffici (con il reato di clandestinità rischiava addirittura una denuncia). In queste condizioni, le uniche “prove” valide sono i decreti di espulsione, o al massimo i ricoveri ospedalieri (ricordiamo che gli irregolari hanno diritto all’assistenza sanitaria).

Il decreto non ha specificato nulla sulla “prova di presenza”, e permangono molti dubbi. Ad esempio, una Ambasciata straniera può essere considerata un “ente pubblico”? Se la risposta è positiva, anche un passaporto fatto in Italia può valere come prova. Ma su questi aspetti non c’è chiarezza.

Il rischio delle truffe: qualche consiglio pratico

Bastano queste brevi osservazioni per capire le difficoltà insite nel provvedimento. Una norma così complessa apre spazi per numerose truffe, già viste nelle scorse sanatorie: dai datori di lavoro fasulli ai fornitori di false “prove di presenza”, fino alle tante agenzie che promettono di “oliare” le pratiche, così lunghe e difficili, presso gli Uffici competenti.

È anche per aggirare queste truffe che è opportuno agire con qualche cautela. Il nostro consiglio è quello di non affidarsi ad agenzie o “mediatori” che promettono miracoli, ma di farsi assistere da un’associazione o da un ente accreditato.

Suggeriamo inoltre di attendere qualche giorno prima di pagare le 1.000 euro, o di presentare domanda: è probabile infatti che nelle prossime settimane il Ministero chiarisca i punti più oscuri, o addirittura che “ammorbidisca” un po’ le norme più irrealistiche. La procedura è aperta fino al 15 ottobre, e arrivare primi non serve a nulla: meglio far domanda quando le cose saranno più chiare. Vi terremo comunque aggiornati.

Sergio Bontempelli

9 Settembre 2012

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