Femminismo tzigano

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione, ripubblicato su Zeroviolenza. Leggi anche la versione PDF

Ana Maria Cioaba aveva appena dodici anni quando – nel settembre 2003 – la sua famiglia organizzò il suo matrimonio con un coetaneo. Siamo a Sibiu, in Romania, nel quartiere dove vivono i rom Kalderash. Qui i matrimoni combinati sono pratica usuale, 
e quello di Ana Maria potrebbe passare inosservato: ma le cose, stavolta, vanno diversamente.

Per i giornali romeni, la cerimonia nuziale è una ghiotta occasione per scrivere un “pezzo di colore”, come si dice in gergo. La limousine, l’abito da sposa da 4.000 dollari, la collana di diamanti, le 2.600 bottiglie di vino: gli ingredienti per una storiella scandalistica ci sono tutti. Gli “zingari straccioni” con la Mercedes, del resto, sono sempre un buon argomento per i giornalisti a corto di idee. E poi c’è il padre di Ana Maria, uno che si fa chiamare “re dei rom” e che alla cerimonia arriva con la corona in testa. Uno scoop da non perdere.

La faccenda è talmente curiosa che fa il giro del mondo, ne parlano anche la Bbc e il New York Times. Ma allo scandalo iniziale si aggiungono le critiche. Emma Nicholson, inviata in Romania per conto della Ue, sollecita un’indagine della polizia: poiché il matrimonio è stato combinato dalle famiglie e la ragazza ha appena dodici anni, siamo di fronte – dice la Nicholson – alla violazione dei diritti di una minore.

Il 2 ottobre esce un editoriale del quotidiano Evenimentul Zilei (che in rumeno suona più o meno come “il fatto quotidiano”, ma che non ha nessun legame con il giornale di Padellaro e Travaglio): Dan Tapalaga, autore del pezzo, si chiede come risolvere il conflitto tra le «tradizioni rom» e la «legge romena». Ricordiamo questa dicotomia, perché dovremo tornarci tra poco: da un lato la “tradizione”, arretrata, incivile, violenta; dall’altro la “legge”, per definizione evoluta, civile e “femminista”.

Il femminismo rom alla prova
La zia di Ana Maria, Luminita Cioaba, è una poetessa, un’intellettuale e un’esponente del movimento femminista rom. E’ contraria ai matrimoni tra minori: perciò si arrabbia col fratello – padre di Ana Maria – e cerca di convincerlo a non dare in sposa la figlia. Ma quando la vicenda fa il giro del mondo, si rende conto che le polemiche sono solo un pretesto per criminalizzare i rom: e passa, per così dire, dall’altra parte della barricata, diventando sostenitrice delle “tradizioni zingare”.
Il 2 ottobre rilascia un’intervista di fuoco al solito Evenimentul Zilei: «ci avete fatto passare per barbari stupratori», dice, «noi abbiamo le nostre leggi non scritte, e nessuno deve sfidarle».
Una storia emblematica, quella di Luminita. Perché i suoi valori di donna impegnata e femminista sembrerebbero scontrarsi con la “cultura” rom: le “tradizioni” contro la “legge”, ancora una volta. Ma le cose stanno davvero così? Il nuovo femminismo rom, che sta emergendo nell’Europa dell’Est e non solo, ha fatto del “caso Cioaba” un banco di prova per proporre un’interpretazione diversa. Vediamo meglio.

Diffidare dei “salvatori”
Il “caso Cioaba” è ricco di aspiranti “salvatori” (e salvatrici) della piccola Ana Maria. L’inviata dell’Unione Europea Emma Nicholson, lo abbiamo visto, ha sollecitato l’intervento della polizia a protezione della minore: ma non ha mai mosso un dito per denunciare le discriminazioni che proprio le donne rom subiscono, in Romania, nell’accesso alla scuola, al lavoro e all’assistenza sanitaria.

I giornali, dal canto loro, sono pronti alle lacrime se una rom è sfruttata e oppressa dagli uomini della sua comunità. Ma “dimenticano” le violenze che le stesse donne subiscono ad opera della società maggioritaria. Alexandra Oprea, esponente del femminismo rom romeno, cita un caso concreto: nei giorni in cui la stampa solidarizzava con la piccola Ana Maria, un’altra rom, Olga David, moriva per le percosse di una guardia giurata a Petrosani. In una fredda giornata d’inverno, per scaldare i figli aveva rubato del carbone in una miniera. Nessun giornale romeno si occupò del caso.

Quella delle autorità pubbliche e della stampa è insomma una solidarietà a geometria variabile, pelosa e interessata. In Italia le cose non vanno diversamente, come dimostra il caso della “sposa bambina” a Pisa. Qui sono stati versati fiumi d’inchiostro per difendere la minorenne «segregata e violentata dai maschi zingari» (ma la sentenza dice che non è vero, come spieghiamo su questo stesso giornale). Quando invece il Comandante della Polizia Municipale, nel 2010, si recò al campo ad insultare una donna rom, minacciando di toglierle il bambino, nessun giornalista locale si mostrò indignato.

La “tradizione” contro la “legge”?
E poi c’è la faccenda della “tradizione” contro la “legge”. Davvero i matrimoni combinati sono frutto di una cultura tradizionale, premoderna e arretrata? Da una ricerca condotta nel 2011 dall’Amalipe Center, una Ong bulgara, emerge anzitutto che le pratiche variano da gruppo a gruppo. Lo studio prende in esame i Balcani, con una particolare attenzione per Romania, Bulgaria e Grecia: in questa ampia area geografica, le comunità rom sono molto diverse tra loro, e le pratiche matrimoniali – l’età degli sposi, il ruolo delle famiglie di origine, l’uso della dote ecc. – variano in modo considerevole. Difficile parlare, in un quadro così complesso, di “tradizione”.

La diversità di pratiche matrimoniali determina anche profonde differenze nel ruolo della donna. Matrimonio combinato (cioè pianificato dai genitori) non significa necessariamente matrimonio forzato (imposto alle ragazze contro la loro volontà): rituali e tradizioni cambiano da gruppo a gruppo, e cambia anche il grado di libertà garantito alle giovani spose. Nella maggior parte dei casi, il consenso delle ragazze è un elemento fondamentale nel determinare la scelta del matrimonio.

Ma c’è di più. «La nostra indagine», ha spiegato a Radio Bulgaria Deyan Kolev, uno degli estensori della ricerca, «ha messo in luce tre fattori significativi legati all’età precoce del matrimonio. Il fattore più importante è il grado di istruzione: i rom che non hanno terminato le scuole elementari si sposano in media attorno ai sedici anni, mentre tra i laureati l’età media del matrimonio si aggira intorno ai venticinque. Gli altri due fattori sono le condizioni economiche e quelle abitative».

In altre parole, c’è un nesso tra pratiche matrimoniali ed emarginazione sociale. Ne spiega le ragioni la già citata Alexandra Oprea in un articolo illuminante: «la mancanza di opportunità di istruzione e di lavoro per le giovani rom determina in molti casi le decisioni famigliari. Detto in altri termini, i genitori finiscono per pensare “mia figlia non sta facendo nulla nella vita, tanto vale che si sposi…”. Migliori opportunità di istruzione e di lavoro favorirebbero l’emancipazione delle donne rom, agevolando la loro mobilità sociale e ampliando il ventaglio delle scelte di vita possibili».

Attiviste rom romene come Alexandra Oprea e Nicoleta Bitu si soffermano molto su questo punto: le pratiche dei matrimoni combinati non sono espressione della “cultura rom”. Nessuna cultura, del resto, è monolitica e impermeabile, e tutte le pratiche sociali – ivi incluse quelle delle minoranze – sono il prodotto di interazioni con il mondo circostante: la discriminazione, il mancato accesso alla scuola e al lavoro, la segregazione abitativa sono fattori che determinano le pratiche cosiddette tradizionali.

Una rivendicazione “antica”: diritto di scelta, autodeterminazione
Il femminismo rom non nega l’esistenza di conflitti all’interno delle proprie comunità. Tutt’altro. Quella che viene contestata è, piuttosto, l’immagine manichea fornita dalla stampa e dal sistema dei media: da una parte il mondo dei rom, arretrato e patriarcale, dall’altra la società “moderna”, civile e “femminista”.

In questa visione manichea, la donna rom non è un soggetto attivo e consapevole. Non decide le forme e le modalità della propria emancipazione. Non ha il diritto di trovarsi un lavoro o di andare a scuola. Non è autorizzata a negoziare il proprio ruolo all’interno della coppia e della comunità di appartenenza. Deve essere “salvata” dall’esterno: dalla polizia, dagli assistenti sociali, dalle autorità pubbliche.
Un po’ come accade in certe città italiane durante gli sgomberi: alle donne viene offerto un posto letto, sempre temporaneo, purché si separino dai mariti: purché accettino di essere “liberate dall’oppressione”, consegnate agli assistenti sociali “liberatori”.

In questo senso, il nuovo femminismo rom dell’Europa dell’Est rivendica un principio in fin dei conti semplice e “antico”: il diritto all’autodeterminazione e la libertà di scelta della donna rom. Un principio che chiama in causa le comunità di appartenenza, ma anche (e forse soprattutto) la nostra società e le nostre istituzioni, sedicenti “libere” e “progredite”.

Sergio Bontempelli, 18 Marzo 2013