Diritti dei migranti e antirazzismo

Tag: immigrazione irregolare

Angariare

Sergio Bontempelli, Giuseppe Faso e Marina Veronesi. Articolo originariamente pubblicato su Cronache di Ordinario Razzismo, 1 Ottobre 2024

Da un vocabolo di origine probabilmente orientale, attraverso il greco angarèia, il tardolatino forma il sostantivo angaria e il verbo angariare. Il passaggio dalla «a» alla «e» porta al nostro angheria, attestato la prima volta in Gerolamo Savonarola. Il termine evoca sgherri (che invece è parola longobarda, da cui anche scherani), prepotenze, oppressioni accompagnate dal sarcasmo dei violenti, protetti e spalleggiati dal potere. In origine indicava il messo del re di Persia incaricato di requisire beni e imporre tasse, ma poi le violenze dei malfattori e delle autorità locali, coperte dal potere sovrano, hanno operato un parziale slittamento semantico, conferendogli una forte connotazione negativa.

Il provvedimento del governo di destra, per il quale chi non ha un permesso di soggiorno non potrà acquistare una sim telefonica, è un esempio tipico di angheria: con questa norma, infatti, si proclama ai quattro venti che gli stranieri irregolari, ma anche i profughi e i richiedenti asilo appena arrivati in Italia (che proprio in quanto appena arrivati non hanno ancora i documenti di soggiorno), non potranno più ascoltare la voce dei loro familiari rimasti nei Paesi di origine; né potranno telefonare a un avvocato se avranno bisogno di tutela legale, al Pronto Soccorso se si sentiranno male, o agli amici e parenti in Italia se vorranno riunirsi ai loro affetti.

Il messaggio è chiaro: siete sgraditi, dovete andarvene di qui, e se non ve ne andate subirete vessazioni, prepotenze, angherie (per l’appunto) che vi convinceranno a levarvi dai piedi. È un messaggio che ha il sapore di una minaccia, e una minaccia espressa in un linguaggio che rifiuta il confronto, si attesta sul proprio gesto senza valutarne le ricadute e le implicazioni, pago del suo significato. Non si capisce altrimenti quale beneficio potrebbe trarre la collettività da una disposizione del genere. Alla Camera, il deputato Riccardo Magi di +Europa ha chiesto al governo quale scopo avrebbe la norma. Il governo non ha risposto, perché in realtà non c’è nessuno scopo comprensibile e ragionevole: si tratta di un semplice messaggio intimidatorio.

Insistiamo sul messaggio, perché qui il fattore comunicativo sopravanza in modo evidente quello strettamente giuridico. Dal punto di vista degli effetti concreti, infatti, la norma potrebbe non essere così devastante come sembra, almeno rispetto alla situazione attuale: già oggi molte compagnie telefoniche chiedono il codice fiscale a chi acquista una sim, e a sua volta il codice fiscale viene assegnato solo a chi ha un permesso di soggiorno (così prevedono le linee-guida interne dell’Agenzia delle Entrate). Insomma, chi non ha un documento di soggiorno non riesce quasi mai ad acquistare una scheda telefonica: ad impedirglielo non è la legge, ma un insieme di prassi consolidate, di consuetudini date per scontate, di regole amministrative scritte e non scritte.

Ciò non significa, beninteso, che l’emanazione della norma sarebbe priva di conseguenze concrete. Le conseguenze ci sarebbero, eccome! In primo luogo, perché un «messaggio», quando è scritto nero su bianco in una legge dello Stato, quando è propagandato a suon di trombe da un governo e da una maggioranza parlamentare, quando è diffuso largamente dai giornali e dai media, quando viene proclamato senza ragionamento alcuno, produce sempre degli effetti. In questo caso, ciò che viene trasmesso all’opinione pubblica – ma anche ai funzionari locali, agli operatori delle forze dell’ordine, e persino ai dipendenti delle compagnie telefoniche – è l’idea per cui i nuovi arrivati sarebbero non-persone, vite di scarto, uomini e donne non meritevoli di rispetto e di cura. La storia degli ultimi trent’anni ci ha mostrato quanto questo disprezzo istituzionale alimenti e incoraggi discriminazioni, esclusioni e – a volte – balorde violenze.

Bisogna poi osservare che la norma renderebbe permanenti e definitive disposizioni che fino ad ora erano fluide, non stabilite in modo preciso, e quindi aperte a possibili negoziazioni. Certo, già oggi molte compagnie telefoniche chiedono il codice fiscale (e quindi, indirettamente, il permesso di soggiorno): ma, non esistendo una legge precisa che le obbliga a farlo, è sempre possibile contestare questa prassi nelle sedi opportune, o magari trovare qualche negozio o qualche compagnia che segue procedure diverse. Con una legge dello Stato, questa fluidità verrebbe meno: la discriminazione sarebbe istituzionalizzata e in qualche modo definitiva.

Come spesso accade, il governo non ha pensato neppure ai possibili effetti «controintenzionali» prodotti dalle sue angherie normative. Qualcuno, in Parlamento ha provato a segnalarglieli, quegli effetti, ma non è stato ascoltato: alla Camera, nel dibattito in Aula del 17 Settembre scorso, nessun rappresentante del Governo ha preso la parola per spiegare il senso della norma, e nessun deputato della maggioranza è intervenuto per giustificare il suo voto favorevole; alla discussione hanno preso parte solo le opposizioni, che hanno sollevato alcuni rilevanti nodi critici. Così, per esempio, la deputata Emma Pavanelli (Cinque Stelle) ha citato il caso dei cittadini britannici – divenuti «extracomunitari» a seguito della Brexit – che vengono in Italia come turisti, e che quindi non hanno un permesso di soggiorno ma sono comunque autorizzati a rimanere per un periodo massimo di tre mesi: anche loro, benestanti e spesso bianchi (quindi ben visti dal nostro governo) subirebbero gli effetti di questa norma. Paolo Ciani, eletto nelle liste Pd, ha ricordato che la legge parla di «titolo di soggiorno» e non di «permesso di soggiorno», perché il permesso rilasciato dalle Questure non è l’unico documento che autorizza alla permanenza in Italia: ci sono anche, solo per fare qualche esempio, il visto turistico, la ricevuta di rilascio del permesso, la ricevuta di rinnovo, l’attestazione della domanda di asilo e tanti altri «pezzi di carta». Come faranno, gli addetti delle compagnie telefoniche, a distinguere uno straniero regolare da uno irregolare? Dovranno assumere un esperto di diritto dell’immigrazione per dirimere i casi dubbi?

Infine, impedire a un individuo di avere una scheda telefonica significa violare un diritto fondamentale sancito nel nostro ordinamento giuridico. Lo ha affermato di recente la Corte Costituzionale, nella sentenza n.2 del 2023. Si ricorderà che la nostra Carta, all’articolo 15, dice chiaramente che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili» (dice proprio così: inviolabili). Ebbene, la Corte ha ricordato che «la Costituzione tutela la libertà (e la segretezza) della corrispondenza, che all’epoca costituiva l’archetipo di riferimento, ma estende la garanzia ad ogni forma di comunicazione (…). È difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare». Insomma, la norma sarebbe contraria alla Costituzione. E non c’è da stupirsene: perché la Costituzione era nata proprio per opporsi alle angherie, che un regime precedente aveva perpetrato contro i cittadini.

C’è un ultimo aspetto della faccenda, il più preoccupante. Alcune caratteristiche dell’angheria gratuita sono evidentemente in azione in alcune scelte di questo governo nei confronti degli immigrati e di chi li salva dalla morte in mare, o li accoglie nella pratica sociale di ogni giorno: gli esempi sono numerosi, a partire dallo smistamento in porti lontani delle navi di ritorno dai salvataggi nel Mediterraneo.

Gli autori di angherie hanno scarse competenze relazionali e sociali, come rivela una letteratura accessibile, eccetto un’abilità che sfruttano al momento giusto: sanno chi, in un certo ambiente, poco può contare su una solidarietà autorevole e credibile. La soverchieria, l’angheria, conta su un lavoro di indebolimento dell’immagine sociale dell’immigrato ormai trentennale. Si può perciò presumere che deboli e velleitarie saranno le parole e le strategie di chi cerca di mettere in difficoltà l’angheria. È su questo punto che, muovendo da una sconfitta di decenni, è necessario mobilitarsi con intelligenza sistematica, pazienza ed efficacia.

Sergio Bontempelli, Giuseppe Faso e Marina Veronesi

30 Settembre 2024

Il ddl sicurezza e i migranti

Articolo originariamente pubblicato in «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze»

Il 18 Settembre 2024 la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge AC 1660; il testo è stato poi trasmesso all’altro ramo del Parlamento, dove è diventato l’Atto Senato n. 1236. Si tratta dell’ennesimo provvedimento sulla «sicurezza», dopo quello del Governo Prodi (2007), e quelli dei Ministri Maroni (2009), Minniti (2017) e Salvini (2018): evidentemente, la «sicurezza» è un genere giuridico-letterario che va per la maggiore nel nostro Paese. Sul fatto poi che norme del genere ci rendano davvero sicuri, è lecito avere più di un dubbio: anzi, proprio l’ossessiva reiterazione di leggi, decreti o «pacchetti» dedicati al tema è una spia dell’inefficacia (o dell’inutilità) delle disposizioni via via emanate.

Quanto al testo in discussione alle Camere, sarebbe forse più corretto parlare di legge «insicurezza»: perché, come è stato scritto, lo scopo principale del ddl sembra quello di impedire la libera manifestazione delle opinioni. Tra norme «anti-Gandhi» (che vietano il blocco stradale, anche pacifico) e provvedimenti contro le occupazioni di case sfitte, tutto sembra pensato per zittire il dissenso, e per fare in modo che il governo di turno possa agire al riparo da qualunque opposizione sociale. Basta guardare alla storia del Novecento per capire che un potere svincolato dal controllo dei cittadini è un potente fattore di insicurezza per tutti (o quasi tutti).

Qui, però, non analizziamo l’intero provvedimento, con le sue numerose disposizioni sui temi più disparati, dal terrorismo alla cannabis light, dall’occupazione «arbitraria» (!) di immobili al contrasto alla criminalità organizzata, dall’accattonaggio alle vittime dell’usura. Ci limitiamo invece a riassumere, in modo necessariamente sintetico, la parte che riguarda l’immigrazione e i diritti dei migranti: un tema che stavolta – a differenza di quanto era accaduto con le precedenti norme sulla «sicurezza» – occupa una posizione di secondo piano, nel senso che compare in non più di quattro o cinque articoli (sui trentotto totali di cui si compone il ddl). Sembra quasi che le misure punitive e restrittive, che per anni hanno avuto come bersaglio privilegiato «gli altri» (i migranti e i richiedenti asilo venuti da altrove), adesso siano rivolte a noi, proprio a «noi», ai cittadini e ai lavoratori italiani. E anche questa, in fondo, è una storia vecchia: da sempre le varie forme di ostilità contro i presunti «diversi» (prima gli ebrei, poi gli «zingari», poi ancora gli «extracomunitari», adesso i profughi e i richiedenti asilo) nascondono una profonda diffidenza nei confronti delle classi popolari, «autoctone» o «forestiere» che siano. Ma non divaghiamo, e veniamo a noi.

Migranti senza telefono

La norma che ha fatto più discutere, e che ha suscitato più scandalo, è contenuta nell’articolo 32 del disegno di legge: secondo questa disposizione, al momento di vendere una sim card le compagnie telefoniche sono obbligate non solo a identificare l’acquirente, ma anche a chiedergli il permesso di soggiorno se si tratta di un cittadino straniero. In questo modo, l’immigrato irregolare non potrà più avere una scheda telefonica propria, e dunque non potrà più chiamare i propri familiari al Paese di origine, né mettersi in contatto con un avvocato se ha problemi legali, e neppure rivolgersi al Pronto Soccorso se ha avuto un incidente o un malore improvviso.

Si tratta di una norma crudele, e tra l’altro priva di una finalità ragionevole e riconoscibile. Cosa si vuole ottenere infatti, impedendo ai migranti di usare il telefono? Si teme forse che lo straniero terrorista possa mettersi in contatto con i suoi complici, e così preparare un attentato o piazzare una bomba da qualche parte? Se questo fosse lo scopo, il governo avrebbe scelto un’arma decisamente spuntata: non è difficile capire che un’organizzazione criminale potrebbe facilmente aggirare il divieto, ad esempio intestando la scheda telefonica a un’altra persona. In ogni caso, non è dato sapere quale sia il reale obiettivo della norma: nel corso del dibattito parlamentare un deputato dell’opposizione (Riccardo Magi di +Europa) ha chiesto al governo un chiarimento in proposito, ma l’Esecutivo non ha risposto, e i parlamentari della maggioranza sono rimasti in religioso silenzio. Bontà loro.

Come spesso accade, poi, la conclamata «cattiveria» delle politiche securitarie si accompagna alla proverbiale incompetenza (e ignoranza) dei leader del centro-destra e dei loro consulenti tecnici: e così, anche stavolta la norma partorita dal furore repressivo del governo Meloni è stata scritta male, fa acqua da tutte le parti, ed è destinata ad avere effetti ben diversi da quelli auspicati dallo stesso governo, e dalla sua maggioranza. Tanto per fare un esempio, secondo le leggi vigenti non sono soltanto gli immigrati «clandestini» a non avere un permesso di soggiorno in tasca: un turista inglese bianco e benestante può entrare in Italia e rimanervi per tre mesi, e non deve chiedere alcun permesso; per i turisti, infatti, il visto sul passaporto è un documento sufficiente per soggiornare legalmente sul territorio. Le compagnie telefoniche dovranno negare anche a questo facoltoso cittadino britannico la possibilità di avere una scheda sim? O dovranno assumere un esperto di diritto dell’immigrazione, che spieghi loro che un visto, in alcune circostanze, ha lo stesso valore di un permesso di soggiorno? Sicuramente Giorgia Meloni, fresca di un cordiale incontro con il premier d’Oltremanica Keir Starmer, non aveva previsto questo sgradevole effetto collaterale.

Bisogna però precisare un punto importante, che nel dibattito di questi giorni è rimasto completamente in ombra: la norma sulle schede telefoniche, indubbiamente odiosa, è però nuova solo in parte: già oggi molte compagnie telefoniche, al momento di vendere una sim, chiedono al cliente il codice fiscale, e il codice fiscale (secondo le linee-guida interne dell’Agenzia delle Entrate) viene rilasciato solo allo straniero regolare.

In qualche modo, dunque, il divieto che si vorrebbe introdurre ex novo esiste già: solo che è affidato non a una vera e propria legge, ma a un insieme di abitudini, di prassi consolidate, e anche di regolamenti amministrativi (ad esempio quello dell’Agcom, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). Questo dovrebbe far riflettere soprattutto le forze del centro-sinistra, che per decenni hanno avallato, e talora attivamente promosso, pratiche di esclusione fondate sul principio «senza permesso di soggiorno, nessun diritto». Bisognerebbe invece ribadire una volta di più che i diritti fondamentali andrebbero definitivamente svincolati dalla regolarità della permanenza in Italia.

Una norma «anti-Gandhi»: sulle «rivolte» nei Centri per migranti

Un’altra disposizione su cui vale la pena soffermarci è quella contenuta nell’articolo 27 del ddl, che introduce il nuovo reato di «rivolta» all’interno di un Cpr (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) o di un centro di accoglienza. La norma dice che chiunque, trovandosi in uno di questi «centri», «partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti» è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

Due punti vanno qui evidenziati. In primo luogo il testo mette nello stesso «calderone» le proteste violente, condotte magari con armi improprie e con la volontà di procurare danni alle persone, e gli atti di disobbedienza finalizzati a contestare in modo pacifico i comportamenti illegittimi degli agenti di custodia, degli operatori delle forze dell’ordine o dei dipendenti dell’ente gestore. Poche righe dopo, si precisa infatti che sono ugualmente punibili «le condotte di resistenza passiva che (…) impediscono il compimento degli atti del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». La resistenza passiva, tecnica nonviolenta per eccellenza, resa celebre da Gandhi e da Martin Luther King, viene dunque equiparata all’insurrezione manu militari.

In secondo luogo, dobbiamo ricordare che stiamo parlando di «rivolte» non in luoghi qualsiasi, ma all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, cioè nelle strutture che «servono» (si fa per dire) a trattenere gli stranieri irregolari in attesa di espulsione: come abbiamo spiegato più volte in questo stesso giornale (ad esempio qui e qui), i Cpr sono spazi detentivi di dubbia legittimità costituzionale, sottratti ai normali controlli propri del circuito penitenziario, e di fatto inaccessibili ai giornalisti, agli avvocati e – in qualche caso – persino ai parlamentari. In strutture di questo genere, dove si consumano ogni giorno gravissime violazioni dei diritti umani, la «rivolta» è l’unico strumento che gli internati hanno per far sentire la loro voce, per sollecitare l’intervento della giustizia, per segnalare abusi e violenze fisiche che altrimenti passerebbero sotto silenzio. Invece di interrogarsi sulla legittimità, e persino sull’efficacia, della detenzione amministrativa per i migranti, il Governo inasprisce le misure penali, e in questo modo non fa altro che incrementare il clima di violenza che si respira quotidianamente nei «Centri».

Tra l’altro, il reato di «rivolta» e di «disobbedienza civile» verrà applicato non solo nei Cpr ma anche nei centri di accoglienza, quelli che servono non per eseguire le espulsioni ma per favorire (almeno in teoria) l’inserimento sociale dei richiedenti asilo appena arrivati. Presi spesso (non sempre) in gestione da cooperative o pseudo-associazioni interessate solo a «fare cassa» sulla pelle dei migranti, amministrati da Prefetture che non sanno (e a volte non vogliono) garantire standard dignitosi di ospitalità, i centri di accoglienza territoriale sono attraversati non di rado da tensioni e conflitti tra operatori e persone accolte.

A differenza di quel che accade nei Cpr, però, queste tensioni e questi conflitti sono facilmente risolvibili: come abbiamo cercato di spiegare io e Giuseppe Faso nel nostro Manuale dell’Accoglienza, la professionalità dell’operatore consiste proprio nella capacità di ascoltare i bisogni degli ospiti, istituendo un dialogo quotidiano con loro. Introdurre il reato di «mancata esecuzione degli ordini impartiti» significa vanificare questa professionalità e trasformare l’operatore in un guardiano: la denuncia alla Procura per «inottemperanza agli ordini» si sostituisce così al paziente lavoro di relazione.

La revoca della cittadinanza

Ci soffermiamo infine su un’altra disposizione, introdotta dall’articolo 9 del ddl, che tratta delle ipotesi di revoca della cittadinanza. Il decreto Salvini del 2018 aveva già previsto che lo straniero, dopo aver acquisito la nazionalità italiana (si badi bene: la nazionalità italiana, non il semplice permesso di soggiorno), poteva perderla in caso di condanna definitiva per reati di terrorismo ed eversione. Si trattava, già allora, di una norma di dubbia legittimità, perché si applicava non a tutti i cittadini indistintamente, ma solo agli stranieri che erano diventati italiani. Si istituiva così una vera e propria discriminazione, vietata esplicitamente dalla nostra Carta Costituzionale (che come noto dice, all’art. 3, che «tutti i cittadini (…) sono eguali davanti alla legge»).

Il ddl sicurezza introduce un piccolo «correttivo»: prevede che si possa procedere alla revoca della nazionalità solo a condizione che la persona condannata «possieda un’altra cittadinanza» oppure – e qui c’è un passaggio importante su cui dobbiamo soffermarci – «possa acquisire un’altra cittadinanza». Il senso è chiaro: non è possibile togliere la nazionalità italiana a un individuo che in questo modo diventerebbe un non-cittadino, un cittadino di nessun Paese (in termini tecnici, un «apolide»).

Pur non cancellando l’obbrobrio partorito anni fa dal decreto Salvini, non c’è dubbio che qui il ddl fa un piccolo passo avanti. Ma, come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli. La norma, come abbiamo visto, dice che la nazionalità italiana si può revocare solo se l’interessato «possiede un’altra cittadinanza», oppure se «può acquisirne un’altra». Ma che significa «può acquisirne un’altra»? Per stabilire se una persona «può acquisire» la cittadinanza di un altro Paese, bisogna conoscere le leggi di altri Paesi, e le Prefetture non hanno – mediamente – queste competenze internazionali. E che succede se poi l’interessato, pur potendo in astratto acquisire una cittadinanza, non riesce all’atto pratico ad acquisirla? Come si vede, siamo di fronte – anche in questo caso – a norme mal concepite e mal formulate: buone più a placare i (presunti) furori dell’opinione pubblica, che a governare fenomeni complessi.

Sergio Bontempelli

Perché i flussi, e non la sanatoria?

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

È appena uscito il “decreto flussi”, che consente, in teoria, l’ingresso in Italia di lavoratori migranti. In pratica, non serve più a nessuno: servirebbe, invece, una nuova sanatoria

Dunque è accaduto anche quest’anno: il Consiglio dei Ministri ha varato il decreto flussi (qui il testo, e qui la circolare applicativa), che stabilisce la quota massima di lavoratori stranieri ammessi ad entrare in Italia nel 2016.

In altri tempi, la notizia avrebbe fatto il giro del web, suscitando un “terremoto” nel mondo dei migranti, dei loro amici e dei loro sostenitori: ma oggi, con la crisi economica galoppante e l’attenzione mediatica concentrata sugli “sbarchi” dei profughi, la cosa è passata quasi inosservata. Anche perché, nel frattempo, le politiche migratorie sono cambiate, e – per così dire – il “decreto flussi” non è più quello di una volta… Ma fermiamoci un momento, e andiamo con ordine.

I decreti flussi…

I “decreti flussi” hanno rappresentato, nel decennio 2000-2010, un vero e proprio pilastro delle politiche italiane in materia di immigrazione. I (poco) illuminati legislatori si erano convinti di poter selezionare i flussi “alla fonte”, cioè scegliendo i potenziali migranti prima ancora della loro partenza dai paesi di origine.

Il sistema si reggeva – e si regge tuttora – su quello che è stato chiamato “divieto di regolarizzazione”: lo straniero che si trovi già in Italia, e che non abbia i documenti di soggiorno, non deve regolarizzarsi in alcun modo, nemmeno se ha trovato un lavoro, nemmeno se è in grado mantenersi da solo (senza gravare sull’assistenza pubblica).

All’origine di queste bizzarre disposizioni c’è appunto l’idea per cui l’immigrazione deve essere regolata “a monte” (disciplinando gli ingressi) e non “a valle” (mettendo in regola chi è già arrivato): lo Stato deve cautelarsi in anticipo dai flussi “indesiderati”, consentendo l’arrivo in Italia solo agli stranieri che abbiano già un contratto di lavoro. Ciò significa che l’assunzione dovrà avvenire prima della partenza: i futuri migranti otterranno il visto esibendo un “invito” dei loro datori di lavoro, e solo così potranno entrare in Italia.

I decreti flussi hanno funzionato, in passato, come “sanatorie mascherate”

Non basta. Per prevenire la concorrenza tra migranti e “autoctoni” – per evitare cioè che gli stranieri «ci rubino il lavoro», come si dice – i Governi hanno pensato bene di contingentare gli ingressi, cioè di limitarli numericamente: un “tot” ogni anno (una quota, come si dice in gergo), quanto basta per rifornire le aziende delle “braccia” necessarie, ma non troppi da creare competizione con i “nazionali”.

Nascono così i decreti flussi, che stabiliscono il numero massimo di assunzioni dall’estero da stipulare in un anno. Quando esce il decreto, il datore di lavoro presenta una proposta di assunzione in favore di uno straniero: se l’istanza è inoltrata prima delle altre – cioè prima dell’esaurimento della quota – il lavoratore può entrare in Italia. Diversamente, se la richiesta parte troppo tardi, lo straniero dovrà rimanere a casa sua.

…il loro fallimento…

Questo sistema, di fatto, non ha mai funzionato, e non c’è da stupirsene. L’idea di una assunzione a distanza è abbastanza improbabile (chi assumerebbe mai un lavoratore che non ha mai visto né conosciuto, e che abita lontano migliaia di chilometri?), e il meccanismo delle quote massime ha prodotto una confusa rincorsa ad “arrivare primi”.

Di fatto, quasi nessuno ha utilizzato il decreto flussi per assumere davvero lavoratori dall’estero. Solitamente i migranti sono arrivati in Italia in altri modi – con ingressi irregolari o con visti turistici –, hanno trovato un datore di lavoro e sono stati assunti al nero: poi, per regolarizzare la loro posizione, hanno utilizzato il decreto flussi, fingendo di trovarsi ancora ai paesi di origine, e facendosi “chiamare” dai datori di lavoro. Una sanatoria mascherata, quindi.

Nel 2006, all’apertura del decreto flussi, a presentarsi agli sportelli furono centinaia di migliaia di migranti, gli stessi che in teoria dovevano trovarsi ancora nei loro paesi. Qui sotto trovate un video, girato a Pisa, che descrive la confusione di quei giorni:

Una situazione grottesca, quindi, ma tollerata: le imprese avevano bisogno di nuovi lavoratori stranieri, e non potevano sottostare ai complicati meccanismi delle “assunzioni a distanza”. I governi, dal canto loro, dovevano fare la “voce grossa”, mostrarsi rigidi censori della cosiddetta “immigrazione fuori controllo”. Serviva quindi un compromesso all’italiana, una elusione tollerata delle norme, per far contenti tutti.

…e il loro “svuotamento”

Nel 2011, in piena crisi economica, la situazione cambia. Prima un “documento tecnico interministeriale”, poi una vera e propria decisione politica, mettono definitivamente in soffitta il fragile compromesso dei decreti flussi. I dicasteri dell’Interno e del Lavoro stabiliscono di interrompere gli ingressi dall’estero: le “quote” dovranno riguardare pochi stranieri “altamente qualificati” (dirigenti d’azienda, professionisti ecc.) e alcune categorie di lavoratori stagionali. Per tutti gli altri, non sarà più prevista la possibilità di entrare in Italia per motivi di lavoro.

Nel frattempo, il fenomeno migratorio cambia radicalmente volto: i tradizionali flussi di lavoratori dall’Est Europa vengono ora sostituiti dai profughi e dai rifugiati che arrivano via mare, dai paesi arabi o dall’Africa sub-sahariana. Chi sbarca sulle coste del Sud Italia di solito chiede asilo, e dunque non ha bisogno di “sanatorie” né di “decreti flussi” per regolarizzarsi.

La situazione di oggi

Così, oggi il “decreto flussi” sopravvive come un fossile giuridico, che non serve (quasi) a nulla. Ne hanno ancora bisogno, è vero, alcune aziende che impiegano manodopera stagionale. Ed è ancora utile, ad esempio, per convertire i permessi di soggiorno per studio in permessi per lavoro. Ma non è più utilizzabile come “sanatoria mascherata”, e i datori di lavoro non attingono alle quote annuali per impiegare nuova manodopera. Il caso del decreto 2016 è emblematico: basta scorrere il testo per rendersi conto della sua sostanziale inutilità.

Circa metà delle quote previste sono destinate alle conversioni, cioè alla trasformazione di alcuni titoli di soggiorno in permessi per lavoro. Una quota significativa (2.400 nuovi ingressi) è invece destinata a “imprenditori e liberi professionisti”: potranno accedervi ad esempio «gli imprenditori che intendono attuare un piano di investimento (…) non inferiore a 500mila euro» [!!], o i «liberi professionisti che intendono esercitare professioni regolamentate e vigilate», o ancora gli «artisti di chiara fama».

In nome della nefasta ideologia dell’«immigrazione scelta», quindi, si fa entrare Paperon de’ Paperoni, Perry Mason e Caravaggio, fingendo di ignorare che i flussi migratori sono altra cosa, e rispondono a ben altre dinamiche.

Ci sono poi i flussi cosiddetti “stagionali”, che consentono l’ingresso in Italia a lavoratori che poi, alla fatidica scadenza dei nove mesi, devono tornare nei loro paesi di origine: una versione italica dei lavoratori ospiti di triste memoria.

Per tutti gli altri, per i migranti “normali” – per chi intende entrare in Italia, per chi cerca di regolarizzarsi, per chi ha trovato un datore di lavoro disponibile all’assunzione – nulla di nulla, come ha ben spiegato in questi giorni il sito Stranieri in Italia.

La sanatoria necessaria

Ci sarebbe bisogno di una nuova “sanatoria”

Nel frattempo, però, servirebbero nuove opportunità di regolarizzazione. Ne avrebbero bisogno i tantissimi cittadini stranieri che in questi anni, a causa della crisi economica, hanno perso il lavoro, e non sono riusciti a rinnovare il permesso di soggiorno. Ne avrebbero bisogno anche i richiedenti asilo che si sono visti rifiutare l’accesso allo status di rifugiato, e che continuano a vivere da “irregolari” nelle nostre città.

Ci sarebbe bisogno, soprattutto, di riaprire le frontiere, e di costruire meccanismi sensati, realistici, credibili di ingresso e di soggiorno in Italia. In tempi di crisi economica, una politica meno restrittiva non provocherebbe nessuna “invasione” (i dati ci dicono che molti immigrati stanno abbandonando l’Italia).

Sergio Bontempelli

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