Cosa prevede (davvero) il Patto Europeo su Immigrazione e Asilo

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa Rivista, 29 Settembre 2020

È la notizia che ha occupato le prime pagine dei giornali e i servizi di apertura dei Tg nei giorni appena passati: eppure, il contenuto effettivo del “Patto sull’Immigrazione e l’Asilo”, lanciato in pompa magna dalla Commissione Europa il 23 Settembre scorso, non è del tutto comprensibile per gran parte dell’opinione pubblica. Del resto non potrebbe essere diversamente: nella conferenza stampa di presentazione, la presidente Ursula von der Leyen e gli altri Commissari hanno squadernato un lungo elenco di slogan («procedure migliori e più rapide», «equa ripartizione della responsabilità e della solidarietà tra i Paesi Membri», «governance comune per la migrazione», ecc.), ma non sono entrati troppo nel dettaglio delle proposte. Proviamo allora a vedere più da vicino di cosa stiamo parlando.

Un Patto per gestire le emergenze Il “Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo” è un insieme di documenti elaborati dalla Commissione, che ora dovranno passare al vaglio del Consiglio e del Parlamento Europeo. In questo corposo dossier compaiono ben cinque atti normativi (in gran parte nuovi regolamenti), varie “raccomandazioni”, e alcuni testi di orientamento generale. Si tratta quindi di un vero e proprio “pacchetto” di norme e di politiche, che dovrebbe incidere in modo sostanziale sull’azione della UE in materia di flussi migratori.

E qui va notata subito una prima, evidente contraddizione. Nel lessico giornalistico (e anche politico) europeo, la parola “immigrazione” ha finito per assumere almeno tre significati diversi. Da un lato, con questo termine si indica l’arrivo, sul territorio degli Stati Membri, di cittadini stranieri che usufruiscono di visti (e di permessi di soggiorno) per motivi di lavoro o di ricongiungimento familiare: quelli che vengono definiti cioè – con un linguaggio forse un po’ improprio – “immigrati economici”. Dall’altro lato, si allude ai tanti stranieri che chiedono asilo politico o comunque protezione ai paesi europei, perché vittime di atti persecutori o di guerre nelle loro terre di origine. Infine, il termine immigrazione indica l’arrivo di gruppi consistenti di profughi (anch’essi, di solito, richiedenti asilo) in una specifica frontiera: nel caso italiano, per esempio, la parola “migranti” è divenuta quasi un sinonimo di “stranieri sbarcati sulle coste della Sicilia”, ed è usata sempre più spesso al posto della più cruda definizione di “clandestini”.

La differenza tra “migranti economici” e “richiedenti asilo” non è così profonda come si potrebbe pensare, ma comporta soprattutto un diverso trattamento giuridico: banalmente, il migrante “economico” deve chiedere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, mentre il richiedente asilo deve seguire il complesso iter burocratico necessario per ottenere una quache forma di protezione.

Ora, benché si presenti come un ambizioso progetto di riforma sull’immigrazione in generale, il “Patto” proposto dalla Commissione si occupa quasi esclusivamente di asilo. E concentra le sue attenzioni su quei richiedenti asilo che più turbano i sonni dei politici a livello continentale: cioè sui profughi che approdano sulle coste meridionali dell’Europa, in Italia e in Grecia, dopo aver tentato la pericolosa traversata del Mediterraneo (e dovrebbe essere chiaro, almeno ai Commissari UE, che i profughi arrivati via mare non sono gli unici richiedenti asilo che entrano sul territorio continentale…).

Non si parla dunque degli ingressi per lavoro, della disciplina del ricongiungimento familiare, del sistema dei visti di ingresso, né dei diritti dei cittadini stranieri stabilmente residenti nella Ue: tutte le attenzioni ricadono sulle procedure di asilo e sulla gestione delle frontiere “calde” (o presunte tali). Più che un “Patto sull’immigrazione e l’asilo”, siamo di fronte a un “Patto sugli sbarchi”: che serve, come qualcuno ha scritto, più ad assecondare i furori “sovranisti” che a governare un fenomeno complesso come quello dell’immigrazione.

Sorvegliare e respingere L’impianto del “Patto” è fortemente difensivo e repressivo: i migranti sono visti come un potenziale pericolo, che deve essere contenuto, canalizzato, sorvegliato e – quando possibile – respinto. Al cuore del sistema immaginato dalla Commissione vi sarebbe infatti il controllo della frontiera esterna della Ue: un controllo che verrebbe potenziato – in termini di risorse, mezzi e personale – e gestito in modo sempre più coordinato. L’obiettivo del “Patto” è quello di ridurre le presenze dei richiedenti asilo sul territorio europeo. A questo scopo, i Commissari prevedono che tutti i migranti in arrivo siano identificati e sottoposti a un rapido “screening”: nel giro di cinque giorni, le polizie di frontiera dovrebbero decidere chi è meritevole di presentare domanda di asilo, e chi invece deve considerarsi un semplice immigrato irregolare, da espellere o respingere.

E già qui, il “Patto” fa a pugni con il diritto di asilo sancito dalle convenzioni. Il potenziale rifugiato deve poter esporre i fatti e le circostanze che lo hanno spinto a chiedere protezione, ed è evidente che questo non è possibile in un tempo così ridotto (cinque giorni), e nella situazione di fragilità in cui si trova il migrante appena sbarcato. Un altro obiettivo prioritario, per la Commissione, è quello di garantire l’efficienza e la celerità dei rimpatri. A questo scopo viene istituita una nuova figura, il Coordinatore europeo per i rimpatri, che dovrebbe orientare e coordinare le politiche di espulsione dell’Unione Europea. Non mancano i consueti riferimenti alla cooperazione con i paesi di origine, un classico della retorica di Bruxelles.

La “solidarietà” Infine, vale la pena soffermarsi brevemente sul dispositivo immaginato dalla Commissione per fronteggiare le cosiddette “crisi migratorie” (termine che indica, in modo evidentemente drammatizzato, i periodi in cui si registrano arrivi numericamente più consistenti del solito). La parola chiave più usata è “solidarietà”: non quella che si deve – si dovrebbe – ai profughi in fuga da regimi autoritari e contesti bellici, ma quella che i paesi europei dovrebbero attivare per condividere “il carico”, “il peso” dei profughi. Ancora una volta, i migranti sono visti come un problema, un pericolo o un ingombro di cui disfarsi.

Come sappiamo, attorno al tema della cosiddetta “solidarietà europea” si sono scatenati i questi anni i conflitti tra i diversi “sovranismi”. L’Italia ha sempre lamentato di essere “rimasta sola” a fronteggiare gli sbarchi e gli arrivi dei richiedenti asilo (quando in realtà, sol per fare un esempio, la Germania ha un numero annuale di domande di asilo superiore a quello italiano). Gli altri paesi, spesso usando il famoso Regolamento Dublino, hanno rifiutato di accogliere i profughi arrivati sulle coste della Sicilia. Le diverse ipotesi di “redistribuzione” hanno sempre incontrato resistenze e ostilità.

Il coniglio nel cilindro e i suoi paradossi Per uscire da questa impasse, la Commissione sembra aver trovato il coniglio nel cilindro: la “sponsorship dei rimpatri”. In pratica, uno Stato Membro che non voglia accogliere i richiedenti asilo sbarcati in un altro paese può “dare una mano” a quel paese organizzando il rimpatrio delle persone a cui è stato negato l’asilo. Come ben sintetizza Francesca Spinelli in un articolo uscito in questi giorni su Internazionale, ciò significa ad esempio che «l’Ungheria si ritroverebbe a gestire il rimpatrio di una persona dall’Italia». Non solo: come spiega ancora Francesca Spinelli, «lo stato membro avrebbe anche il diritto di scegliere “le nazionalità di cui desidera sostenere il rimpatrio”. Quindi l’Ungheria potrebbe dire all’Italia che le sta bene rimpatriare gli iracheni, ma non gli afgani».

Che misure del genere possano effettivamente funzionare, è lecito dubitarne. Certo è che hanno ben poco a che fare con il diritto di asilo, così come era stato pensato e scritto nella Convenzione di Ginevra.

(Sergio Bontempelli)