Dal blog personale di Sergio Bontempelli
Come noto, lo slogan Tolleranza Zero è stato coniato originariamente negli Stati Uniti, ed è diventato il pilastro delle politiche penali a New York all’inizio degli anni ’90, sotto l’amministrazione guidata da Rudolph Giuliani. Quali sono stati i risultati di quel modello? Ha funzionato? Ha prodotto effetti positivi? Una piccola inchiesta, utile per rispondere ai cantori nostrani (e acritici) del “pugno di ferro”.
Tolleranza Zero (Zero Tolerance) è lo slogan con il quale il repubblicano Rudolph (Rudy) Giuliani ha vinto le elezioni municipali nel Gennaio 1994, e governato New York negli anni successivi. Le origini di questo slogan, però, vanno cercate nei decenni precedenti. In particolare, intorno alla metà degli anni ’70 lo stato del New Jersey vara un programma di contrasto alla criminalità denominato Safe and Clean Neighborhoods Program: il piano consiste nel far uscire i poliziotti dalle macchine e dislocarli per strada, in vere e proprie “ronde a piedi”. Lo scopo – come spiega Fabrizio Tonello in un interessante articolo uscito un anno fa su Il Manifesto – è quello di «mostrare la presenza [della polizia] non solo ai potenziali criminali ma soprattutto a figure sociali […] sbrigativamente inserite nella categoria disorderly people, che potremmo tradurre con “gente che dà fastidio”»: mendicanti, alcolisti, tossicodipendenti, prostitute. Ed è proprio il Safe and Clean Neighborhoods Program ad utilizzare per la prima volta la slogan Zero Tolerance: ma la cosa non sembra avere molto seguito.
Il vetro rotto (1982)
Nel 1982, due studiosi americani di politica criminale, Wilson e Kelling, pubblicano un articolo in una rivista specializzata, che per la prima volta enuncia la teoria della finestra rotta [James Q. Wilson e George L. Kelling, Broken windows. The Police of Neighborhood Safety, in «Atlantic Monthly», Marzo 1982, pagg. 29-38]. Secondo questa teoria, «se una finestra di un edificio dismesso viene rotta da qualcuno, e non si provvede a ripararla urgentemente, presto anche tutte le finestre saranno rotte, a un certo punto qualcuno entrerà abusivamente nell’edificio, qualche tempo dopo l’intero palazzo diventerà teatro di comportamenti vandalici».
Cosa c’entrano vetri e finestre con i fenomeni criminali? Secondo Wilson e Kelling, «il degrado urbano indurrebbe nella comunità un senso di abbandono, di mancata attenzione da parte dell’autorità, destinato a facilitare comportamenti devianti. Il degrado eleva la soglia di indifferenza della comunità urbana verso varie forme di devianza, con la conseguenza di produrre il consolidamento di culture criminali» [questa sintesi della teoria del vetro rotto è tratta da: Alessandro De Giorgi, Zero Tolleranza. Strategie e pratiche delle società di controllo, Derive e Approdi, Roma 2000, pag. 106]. Detto in altri termini: per combattere efficacemente la criminalità, occorre contrastare fermamente e in modo capillare i piccoli disordini quotidiani, il degrado, i comportamenti immorali e devianti di lieve entità, o addirittura irrilevanti dal punto di vista penale. Quando l’assessore Cioni spiega che il problema principale di Firenze sono i mendicanti orizzontali (sic) o i lavavetri applica a suo modo la teoria americana della finestra rotta…
Wilson e Kelling, naturalmente, non agiscono nel vuoto. Negli Stati Uniti, in quello stesso periodo, l’Amministrazione Reagan è impegnata in una vera e propria restaurazione conservatrice, fondata sullo smantellamento del welfare e sull’espansione di politiche penali repressive. I think tank neoconservatori – istituti di ricerca, in genere lautamente finanziati da grandi multinazionali, che promuovono e diffondono le dottrine reaganiane – sono attivissimi nel propagandare il nuovo vangelo repressivo in materia di politiche criminali. Ed è proprio uno di questi istituti – il Center for Civic Initiative – a diffondere la teoria della “finestra rotta”, finanziando nuove pubblicazioni in materia [vedi Loic Wacquant, Parola d’ordine: Tolleranza Zero. La trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 17; sui think tank vedi Marco D’Eramo, I serbatoi d’odio fanno il pieno, in «Il Manifesto», 3 Novembre 2004].
Nel 1984, un altro prestigioso think tank, il Manhattan Institute, finanzia con 30.000 dollari la pubblicazione di un volume di Charles Murray intitolato Losing Ground: American Social Policy 1950-1980. Il libro «individua nell’eccessiva generosità delle politiche di sostegno ai gruppi svantaggiati la causa dell’incremento della povertà negli Stati Uniti: in questo modo, infatti, si ricompensa l’inattività [dei disoccupati e dei poveri], provocando la degenerazione morale delle classi popolari, in particolare le unioni “illegittime”, causa ultima di tutti i mali della società. Diretta conseguenza di tutto ciò è la violenza urbana» [L. Wacquant, cit., pag. 14]. La violenza e la criminalità, per Murray, dipendono insomma dall’eccessiva indulgenza dello Stato nei confronti dei poveri, dei diseredati e dei disoccupati.
Il volume di Murray è oggetto di un’intensissima propaganda, orchestrata accuratamente (e lautamente finanziata) dal Manhattan Institute: come spiega Loic Wacquant, il Manhattan Institute «organizza un battage mediatico senza precedenti attorno al libro. Uno specialista in relazioni pubbliche viene assunto con il solo scopo di garantirne un’adeguata promozione: un migliaio di copie viene inviato in omaggio a giornalisti, politici e ricercatori. Charles Murray, inoltre, viene lanciato nel circuito dei talk-show televisivi e delle conferenze universitarie […]. Il Manhattan Institute organizza anche un grande convegno dedicato a Losing Ground, per partecipare al quale gli invitati percepiscono onorari che arrivano ai millecinquecento dollari, senza contare l’alloggio gratuito in un hotel di lusso nel cuore di New York. Il libro […] diventa così rapidamente un classico del dibattito statunitense sull’assistenza sociale» [L. Wacquant, cit., pag. 15].
Le teorie repressive alla prova del governo: da William Bratton a Rudy Giuliani (1990-1997)
La teoria della finestra rotta, e il nuovo vangelo repressivo in materia penale, sono le principali fonti di ispirazione dell’operato di William Bratton, a capo del TPD (Transit Police Department, la polizia responsabile della sicurezza sui trasporti pubblici New York) dal 1990 al 1993. Bratton organizza una campagna per la sicurezza nella metropolitana di New York, intervenendo duramente contro senza fissa dimora, graffitari, persone che chiedono l’elemosina, bande giovanili ecc. Gli arresti per reati minori all’interno della metropolitana registrano un incremento esponenziale, passando dai 1.300 dell’Agosto 1990 ai 5.000 del Gennaio 1994 [vedi De Giorgi, cit., pag. 109]: intanto la metropolitana viene “ripulita” e – secondo Bratton – «restituita ai cittadini», in quello che può essere considerato il primo esperimento di applicazione della teoria della “finestra rotta”.
Nel Gennaio 1994 il repubblicano Rudolph Giuliani viene eletto Sindaco di New York: la nuova amministrazione nomina come capo della Polizia proprio William Bratton, che appena insediatosi annuncia un programma di lotta alla criminalità fondato sullo slogan Zero Tolerance (Tolleranza Zero). Si prevede un cospicuo incremento di organici nel NYPD (New York Police Department), una presenza capillare delle forze dell’ordine su strada, l’istituzione di una banca dati informatizzata sul crimine, la repressione di lavavetri (squeegeeing), questuanti, mendicanti, senza fissa dimora.
I risultati di questa intensa azione repressiva appaiono, ai loro autori, letteralmente entusiasmanti: tra il 1994 e il 1996, i reati denunciati calano del 30%, mentre i soli omicidi diminuiscono del 40%.
Il rovescio della medaglia
Le politiche di Tolleranza Zero praticate dall’amministrazione di New York suscitano le attenzioni di Amnesty International, che nel Giugno 1996 pubblica un rapporto dal titolo Police brutality and excessive force in the New York City Police Department. I dati di Amnesty, e quelli forniti da altre organizzazioni di tutela dei diritti umani, disegnano un quadro devastante:
1) Tra il 1994 e il 1997 le richieste di risarcimento per danni causati da perquisizioni violente della polizia aumentano del 50%; le denunce penali per abusi e comportamenti arbitrari delle forze dell’ordine crescono del 41%. Nel solo biennio 1993-1994, il numero di civili uccisi nel corso di operazioni di polizia cresce del 35%. Tra il 1992 e il 1997, i risarcimenti a civili per le violenze subite passano da 13,5 milioni a 24 milioni di dollari.
2) Secondo il rapporto di Amnesty, il 75% di coloro che denunciano violenze della polizia è costituito da neri o latinoamericani: l’organizzazione umanitaria ipotizza per questo il dilagare di un atteggiamento esplicitamente razzista da parte delle forze dell’ordine.
3) Le vittime di abusi e violenze sono nella stragrande maggioranza dei casi minorenni di età compresa tra i 14 e i 17 anni; spesso, si tratta di persone senza armi o già disarmate e immobilizzate dalla polizia. Analizzando le circostanze in cui si sono verificate ipotesi di violenza, Amnesty arriva alla conclusione che «fra queste non prevalgono le sparatorie o gli inseguimenti di pericolosi criminali, bensì: liti conseguenti a lievi incidenti stradali; casi di guida senza patente; liti con assistenti sociali e successivo intervento della polizia; casi di “condotta disordinata” (disorderly conduct); arresto di persone sospettate di spaccio; partecipazione a manifestazioni di protesta; presenza di curiosi durante un arresto; violazioni del codice della strada; furti in supermercati; proteste rispetto ad arresti percepiti come ingiusti e immotivati» [la citazione finale, e i dati citati sopra, sono tratti da De Giorgi, cit. pagg. 115-117].
Se, dunque, la politica di Tolleranza Zero consegue – apparentemente – risultati lusinghieri sul piano del contrasto alla criminalità, le sue conseguenze sono devastanti da vari punti di vista. In primo luogo, in termini di diritti umani e tutela delle garanzie per le minoranze. In secondo luogo, per i costi sostenuti per i risarcimento dei danni. E, infine, in termini più generali di spesa pubblica. Nei primi cinque anni dell’amministrazione Giuliani, le risorse destinate alle attività di polizia sono incrementate del 40%, arrivando ad un importo quattro volte superiore a quello sostenuto per gli ospedali pubblici; nello stesso periodo, le spese per i servizi sociali sono diminuite di un terzo [si veda L. Wacquant, cit., pag. 19].
Funziona davvero la politica di Tolleranza Zero?
Fin qui, come abbiamo visto, pare che almeno in termini di contrasto alla criminalità le politiche di Tolleranza Zero abbiano raggiunto buoni risultati. Ma le cose stanno davvero così?
Nello stesso periodo in cui Giuliani promuove la Tolleranza Zero, nella città di San Diego l’amministrazione locale persegue politiche di segno diametralmente opposto. Qui, tra il 1993 e il 1996 il numero di arresti effettuati dalle forze dell’ordine diminuisce del 15% (proprio mentre a New York aumenta del 24%), e diminuisce anche (del 10%) il numero di denunce contro la polizia. Eppure, anche a San Diego i tassi di criminalità registrano diminuzioni simili a quelle di New York [si veda L. Wacquant, cit., pag. 19].
Nella città governata da Rudolph Giuliani, d’altra parte, il nesso tra diminuzione dei reati e politiche di Tolleranza Zero è tutto da dimostrare: il calo dei tassi di criminalità comincia a registrarsi già nel 1990, vale a dire molto prima dell’avvento del “Sindaco di Ferro” [De Giorgi, cit., pag. 111]. La diminuzione dei reati è semmai imputabile ad altri e più complessi fenomeni: il cambiamento del mercato della droga (e in particolare la sensibile riduzione del commercio del crack, a cui erano legati omicidi ed episodi di violenza), o la ripresa dell’economia e dell’occupazione giovanile, possono spiegare il decremento dei reati molto di più della Tolleranza Zero.
Infine – controesempio significativo – il Safe and Clean Neighborhoods Program varato nel New Jersey negli anni ’70 – il primo esempio, come abbiamo visto, di Tolleranza Zero – non aveva prodotto nessun decremento della criminalità, e anzi i reati avevano continuato ad aumentare. Che le politiche penali ultrarepressive abbiano effetti reali sul crimine, dunque, resta un’ipotesi tutta da dimostrare…
Sergio Bontempelli, 12 Maggio 2008