Diritti dei migranti e antirazzismo

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Angariare

Sergio Bontempelli, Giuseppe Faso e Marina Veronesi. Articolo originariamente pubblicato su Cronache di Ordinario Razzismo, 1 Ottobre 2024

Da un vocabolo di origine probabilmente orientale, attraverso il greco angarèia, il tardolatino forma il sostantivo angaria e il verbo angariare. Il passaggio dalla «a» alla «e» porta al nostro angheria, attestato la prima volta in Gerolamo Savonarola. Il termine evoca sgherri (che invece è parola longobarda, da cui anche scherani), prepotenze, oppressioni accompagnate dal sarcasmo dei violenti, protetti e spalleggiati dal potere. In origine indicava il messo del re di Persia incaricato di requisire beni e imporre tasse, ma poi le violenze dei malfattori e delle autorità locali, coperte dal potere sovrano, hanno operato un parziale slittamento semantico, conferendogli una forte connotazione negativa.

Il provvedimento del governo di destra, per il quale chi non ha un permesso di soggiorno non potrà acquistare una sim telefonica, è un esempio tipico di angheria: con questa norma, infatti, si proclama ai quattro venti che gli stranieri irregolari, ma anche i profughi e i richiedenti asilo appena arrivati in Italia (che proprio in quanto appena arrivati non hanno ancora i documenti di soggiorno), non potranno più ascoltare la voce dei loro familiari rimasti nei Paesi di origine; né potranno telefonare a un avvocato se avranno bisogno di tutela legale, al Pronto Soccorso se si sentiranno male, o agli amici e parenti in Italia se vorranno riunirsi ai loro affetti.

Il messaggio è chiaro: siete sgraditi, dovete andarvene di qui, e se non ve ne andate subirete vessazioni, prepotenze, angherie (per l’appunto) che vi convinceranno a levarvi dai piedi. È un messaggio che ha il sapore di una minaccia, e una minaccia espressa in un linguaggio che rifiuta il confronto, si attesta sul proprio gesto senza valutarne le ricadute e le implicazioni, pago del suo significato. Non si capisce altrimenti quale beneficio potrebbe trarre la collettività da una disposizione del genere. Alla Camera, il deputato Riccardo Magi di +Europa ha chiesto al governo quale scopo avrebbe la norma. Il governo non ha risposto, perché in realtà non c’è nessuno scopo comprensibile e ragionevole: si tratta di un semplice messaggio intimidatorio.

Insistiamo sul messaggio, perché qui il fattore comunicativo sopravanza in modo evidente quello strettamente giuridico. Dal punto di vista degli effetti concreti, infatti, la norma potrebbe non essere così devastante come sembra, almeno rispetto alla situazione attuale: già oggi molte compagnie telefoniche chiedono il codice fiscale a chi acquista una sim, e a sua volta il codice fiscale viene assegnato solo a chi ha un permesso di soggiorno (così prevedono le linee-guida interne dell’Agenzia delle Entrate). Insomma, chi non ha un documento di soggiorno non riesce quasi mai ad acquistare una scheda telefonica: ad impedirglielo non è la legge, ma un insieme di prassi consolidate, di consuetudini date per scontate, di regole amministrative scritte e non scritte.

Ciò non significa, beninteso, che l’emanazione della norma sarebbe priva di conseguenze concrete. Le conseguenze ci sarebbero, eccome! In primo luogo, perché un «messaggio», quando è scritto nero su bianco in una legge dello Stato, quando è propagandato a suon di trombe da un governo e da una maggioranza parlamentare, quando è diffuso largamente dai giornali e dai media, quando viene proclamato senza ragionamento alcuno, produce sempre degli effetti. In questo caso, ciò che viene trasmesso all’opinione pubblica – ma anche ai funzionari locali, agli operatori delle forze dell’ordine, e persino ai dipendenti delle compagnie telefoniche – è l’idea per cui i nuovi arrivati sarebbero non-persone, vite di scarto, uomini e donne non meritevoli di rispetto e di cura. La storia degli ultimi trent’anni ci ha mostrato quanto questo disprezzo istituzionale alimenti e incoraggi discriminazioni, esclusioni e – a volte – balorde violenze.

Bisogna poi osservare che la norma renderebbe permanenti e definitive disposizioni che fino ad ora erano fluide, non stabilite in modo preciso, e quindi aperte a possibili negoziazioni. Certo, già oggi molte compagnie telefoniche chiedono il codice fiscale (e quindi, indirettamente, il permesso di soggiorno): ma, non esistendo una legge precisa che le obbliga a farlo, è sempre possibile contestare questa prassi nelle sedi opportune, o magari trovare qualche negozio o qualche compagnia che segue procedure diverse. Con una legge dello Stato, questa fluidità verrebbe meno: la discriminazione sarebbe istituzionalizzata e in qualche modo definitiva.

Come spesso accade, il governo non ha pensato neppure ai possibili effetti «controintenzionali» prodotti dalle sue angherie normative. Qualcuno, in Parlamento ha provato a segnalarglieli, quegli effetti, ma non è stato ascoltato: alla Camera, nel dibattito in Aula del 17 Settembre scorso, nessun rappresentante del Governo ha preso la parola per spiegare il senso della norma, e nessun deputato della maggioranza è intervenuto per giustificare il suo voto favorevole; alla discussione hanno preso parte solo le opposizioni, che hanno sollevato alcuni rilevanti nodi critici. Così, per esempio, la deputata Emma Pavanelli (Cinque Stelle) ha citato il caso dei cittadini britannici – divenuti «extracomunitari» a seguito della Brexit – che vengono in Italia come turisti, e che quindi non hanno un permesso di soggiorno ma sono comunque autorizzati a rimanere per un periodo massimo di tre mesi: anche loro, benestanti e spesso bianchi (quindi ben visti dal nostro governo) subirebbero gli effetti di questa norma. Paolo Ciani, eletto nelle liste Pd, ha ricordato che la legge parla di «titolo di soggiorno» e non di «permesso di soggiorno», perché il permesso rilasciato dalle Questure non è l’unico documento che autorizza alla permanenza in Italia: ci sono anche, solo per fare qualche esempio, il visto turistico, la ricevuta di rilascio del permesso, la ricevuta di rinnovo, l’attestazione della domanda di asilo e tanti altri «pezzi di carta». Come faranno, gli addetti delle compagnie telefoniche, a distinguere uno straniero regolare da uno irregolare? Dovranno assumere un esperto di diritto dell’immigrazione per dirimere i casi dubbi?

Infine, impedire a un individuo di avere una scheda telefonica significa violare un diritto fondamentale sancito nel nostro ordinamento giuridico. Lo ha affermato di recente la Corte Costituzionale, nella sentenza n.2 del 2023. Si ricorderà che la nostra Carta, all’articolo 15, dice chiaramente che «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili» (dice proprio così: inviolabili). Ebbene, la Corte ha ricordato che «la Costituzione tutela la libertà (e la segretezza) della corrispondenza, che all’epoca costituiva l’archetipo di riferimento, ma estende la garanzia ad ogni forma di comunicazione (…). È difficile pensare che il divieto di possesso e uso di un telefono mobile – considerata l’universale diffusione di questo strumento, in ogni ambito della vita lavorativa, familiare e personale – non si traduca in un limite alla libertà di comunicare». Insomma, la norma sarebbe contraria alla Costituzione. E non c’è da stupirsene: perché la Costituzione era nata proprio per opporsi alle angherie, che un regime precedente aveva perpetrato contro i cittadini.

C’è un ultimo aspetto della faccenda, il più preoccupante. Alcune caratteristiche dell’angheria gratuita sono evidentemente in azione in alcune scelte di questo governo nei confronti degli immigrati e di chi li salva dalla morte in mare, o li accoglie nella pratica sociale di ogni giorno: gli esempi sono numerosi, a partire dallo smistamento in porti lontani delle navi di ritorno dai salvataggi nel Mediterraneo.

Gli autori di angherie hanno scarse competenze relazionali e sociali, come rivela una letteratura accessibile, eccetto un’abilità che sfruttano al momento giusto: sanno chi, in un certo ambiente, poco può contare su una solidarietà autorevole e credibile. La soverchieria, l’angheria, conta su un lavoro di indebolimento dell’immagine sociale dell’immigrato ormai trentennale. Si può perciò presumere che deboli e velleitarie saranno le parole e le strategie di chi cerca di mettere in difficoltà l’angheria. È su questo punto che, muovendo da una sconfitta di decenni, è necessario mobilitarsi con intelligenza sistematica, pazienza ed efficacia.

Sergio Bontempelli, Giuseppe Faso e Marina Veronesi

30 Settembre 2024

Il ddl sicurezza e i migranti

Articolo originariamente pubblicato in «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze»

Il 18 Settembre 2024 la Camera dei Deputati ha approvato il disegno di legge AC 1660; il testo è stato poi trasmesso all’altro ramo del Parlamento, dove è diventato l’Atto Senato n. 1236. Si tratta dell’ennesimo provvedimento sulla «sicurezza», dopo quello del Governo Prodi (2007), e quelli dei Ministri Maroni (2009), Minniti (2017) e Salvini (2018): evidentemente, la «sicurezza» è un genere giuridico-letterario che va per la maggiore nel nostro Paese. Sul fatto poi che norme del genere ci rendano davvero sicuri, è lecito avere più di un dubbio: anzi, proprio l’ossessiva reiterazione di leggi, decreti o «pacchetti» dedicati al tema è una spia dell’inefficacia (o dell’inutilità) delle disposizioni via via emanate.

Quanto al testo in discussione alle Camere, sarebbe forse più corretto parlare di legge «insicurezza»: perché, come è stato scritto, lo scopo principale del ddl sembra quello di impedire la libera manifestazione delle opinioni. Tra norme «anti-Gandhi» (che vietano il blocco stradale, anche pacifico) e provvedimenti contro le occupazioni di case sfitte, tutto sembra pensato per zittire il dissenso, e per fare in modo che il governo di turno possa agire al riparo da qualunque opposizione sociale. Basta guardare alla storia del Novecento per capire che un potere svincolato dal controllo dei cittadini è un potente fattore di insicurezza per tutti (o quasi tutti).

Qui, però, non analizziamo l’intero provvedimento, con le sue numerose disposizioni sui temi più disparati, dal terrorismo alla cannabis light, dall’occupazione «arbitraria» (!) di immobili al contrasto alla criminalità organizzata, dall’accattonaggio alle vittime dell’usura. Ci limitiamo invece a riassumere, in modo necessariamente sintetico, la parte che riguarda l’immigrazione e i diritti dei migranti: un tema che stavolta – a differenza di quanto era accaduto con le precedenti norme sulla «sicurezza» – occupa una posizione di secondo piano, nel senso che compare in non più di quattro o cinque articoli (sui trentotto totali di cui si compone il ddl). Sembra quasi che le misure punitive e restrittive, che per anni hanno avuto come bersaglio privilegiato «gli altri» (i migranti e i richiedenti asilo venuti da altrove), adesso siano rivolte a noi, proprio a «noi», ai cittadini e ai lavoratori italiani. E anche questa, in fondo, è una storia vecchia: da sempre le varie forme di ostilità contro i presunti «diversi» (prima gli ebrei, poi gli «zingari», poi ancora gli «extracomunitari», adesso i profughi e i richiedenti asilo) nascondono una profonda diffidenza nei confronti delle classi popolari, «autoctone» o «forestiere» che siano. Ma non divaghiamo, e veniamo a noi.

Migranti senza telefono

La norma che ha fatto più discutere, e che ha suscitato più scandalo, è contenuta nell’articolo 32 del disegno di legge: secondo questa disposizione, al momento di vendere una sim card le compagnie telefoniche sono obbligate non solo a identificare l’acquirente, ma anche a chiedergli il permesso di soggiorno se si tratta di un cittadino straniero. In questo modo, l’immigrato irregolare non potrà più avere una scheda telefonica propria, e dunque non potrà più chiamare i propri familiari al Paese di origine, né mettersi in contatto con un avvocato se ha problemi legali, e neppure rivolgersi al Pronto Soccorso se ha avuto un incidente o un malore improvviso.

Si tratta di una norma crudele, e tra l’altro priva di una finalità ragionevole e riconoscibile. Cosa si vuole ottenere infatti, impedendo ai migranti di usare il telefono? Si teme forse che lo straniero terrorista possa mettersi in contatto con i suoi complici, e così preparare un attentato o piazzare una bomba da qualche parte? Se questo fosse lo scopo, il governo avrebbe scelto un’arma decisamente spuntata: non è difficile capire che un’organizzazione criminale potrebbe facilmente aggirare il divieto, ad esempio intestando la scheda telefonica a un’altra persona. In ogni caso, non è dato sapere quale sia il reale obiettivo della norma: nel corso del dibattito parlamentare un deputato dell’opposizione (Riccardo Magi di +Europa) ha chiesto al governo un chiarimento in proposito, ma l’Esecutivo non ha risposto, e i parlamentari della maggioranza sono rimasti in religioso silenzio. Bontà loro.

Come spesso accade, poi, la conclamata «cattiveria» delle politiche securitarie si accompagna alla proverbiale incompetenza (e ignoranza) dei leader del centro-destra e dei loro consulenti tecnici: e così, anche stavolta la norma partorita dal furore repressivo del governo Meloni è stata scritta male, fa acqua da tutte le parti, ed è destinata ad avere effetti ben diversi da quelli auspicati dallo stesso governo, e dalla sua maggioranza. Tanto per fare un esempio, secondo le leggi vigenti non sono soltanto gli immigrati «clandestini» a non avere un permesso di soggiorno in tasca: un turista inglese bianco e benestante può entrare in Italia e rimanervi per tre mesi, e non deve chiedere alcun permesso; per i turisti, infatti, il visto sul passaporto è un documento sufficiente per soggiornare legalmente sul territorio. Le compagnie telefoniche dovranno negare anche a questo facoltoso cittadino britannico la possibilità di avere una scheda sim? O dovranno assumere un esperto di diritto dell’immigrazione, che spieghi loro che un visto, in alcune circostanze, ha lo stesso valore di un permesso di soggiorno? Sicuramente Giorgia Meloni, fresca di un cordiale incontro con il premier d’Oltremanica Keir Starmer, non aveva previsto questo sgradevole effetto collaterale.

Bisogna però precisare un punto importante, che nel dibattito di questi giorni è rimasto completamente in ombra: la norma sulle schede telefoniche, indubbiamente odiosa, è però nuova solo in parte: già oggi molte compagnie telefoniche, al momento di vendere una sim, chiedono al cliente il codice fiscale, e il codice fiscale (secondo le linee-guida interne dell’Agenzia delle Entrate) viene rilasciato solo allo straniero regolare.

In qualche modo, dunque, il divieto che si vorrebbe introdurre ex novo esiste già: solo che è affidato non a una vera e propria legge, ma a un insieme di abitudini, di prassi consolidate, e anche di regolamenti amministrativi (ad esempio quello dell’Agcom, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato). Questo dovrebbe far riflettere soprattutto le forze del centro-sinistra, che per decenni hanno avallato, e talora attivamente promosso, pratiche di esclusione fondate sul principio «senza permesso di soggiorno, nessun diritto». Bisognerebbe invece ribadire una volta di più che i diritti fondamentali andrebbero definitivamente svincolati dalla regolarità della permanenza in Italia.

Una norma «anti-Gandhi»: sulle «rivolte» nei Centri per migranti

Un’altra disposizione su cui vale la pena soffermarci è quella contenuta nell’articolo 27 del ddl, che introduce il nuovo reato di «rivolta» all’interno di un Cpr (Centro di Permanenza per il Rimpatrio) o di un centro di accoglienza. La norma dice che chiunque, trovandosi in uno di questi «centri», «partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti» è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

Due punti vanno qui evidenziati. In primo luogo il testo mette nello stesso «calderone» le proteste violente, condotte magari con armi improprie e con la volontà di procurare danni alle persone, e gli atti di disobbedienza finalizzati a contestare in modo pacifico i comportamenti illegittimi degli agenti di custodia, degli operatori delle forze dell’ordine o dei dipendenti dell’ente gestore. Poche righe dopo, si precisa infatti che sono ugualmente punibili «le condotte di resistenza passiva che (…) impediscono il compimento degli atti del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza». La resistenza passiva, tecnica nonviolenta per eccellenza, resa celebre da Gandhi e da Martin Luther King, viene dunque equiparata all’insurrezione manu militari.

In secondo luogo, dobbiamo ricordare che stiamo parlando di «rivolte» non in luoghi qualsiasi, ma all’interno dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio, cioè nelle strutture che «servono» (si fa per dire) a trattenere gli stranieri irregolari in attesa di espulsione: come abbiamo spiegato più volte in questo stesso giornale (ad esempio qui e qui), i Cpr sono spazi detentivi di dubbia legittimità costituzionale, sottratti ai normali controlli propri del circuito penitenziario, e di fatto inaccessibili ai giornalisti, agli avvocati e – in qualche caso – persino ai parlamentari. In strutture di questo genere, dove si consumano ogni giorno gravissime violazioni dei diritti umani, la «rivolta» è l’unico strumento che gli internati hanno per far sentire la loro voce, per sollecitare l’intervento della giustizia, per segnalare abusi e violenze fisiche che altrimenti passerebbero sotto silenzio. Invece di interrogarsi sulla legittimità, e persino sull’efficacia, della detenzione amministrativa per i migranti, il Governo inasprisce le misure penali, e in questo modo non fa altro che incrementare il clima di violenza che si respira quotidianamente nei «Centri».

Tra l’altro, il reato di «rivolta» e di «disobbedienza civile» verrà applicato non solo nei Cpr ma anche nei centri di accoglienza, quelli che servono non per eseguire le espulsioni ma per favorire (almeno in teoria) l’inserimento sociale dei richiedenti asilo appena arrivati. Presi spesso (non sempre) in gestione da cooperative o pseudo-associazioni interessate solo a «fare cassa» sulla pelle dei migranti, amministrati da Prefetture che non sanno (e a volte non vogliono) garantire standard dignitosi di ospitalità, i centri di accoglienza territoriale sono attraversati non di rado da tensioni e conflitti tra operatori e persone accolte.

A differenza di quel che accade nei Cpr, però, queste tensioni e questi conflitti sono facilmente risolvibili: come abbiamo cercato di spiegare io e Giuseppe Faso nel nostro Manuale dell’Accoglienza, la professionalità dell’operatore consiste proprio nella capacità di ascoltare i bisogni degli ospiti, istituendo un dialogo quotidiano con loro. Introdurre il reato di «mancata esecuzione degli ordini impartiti» significa vanificare questa professionalità e trasformare l’operatore in un guardiano: la denuncia alla Procura per «inottemperanza agli ordini» si sostituisce così al paziente lavoro di relazione.

La revoca della cittadinanza

Ci soffermiamo infine su un’altra disposizione, introdotta dall’articolo 9 del ddl, che tratta delle ipotesi di revoca della cittadinanza. Il decreto Salvini del 2018 aveva già previsto che lo straniero, dopo aver acquisito la nazionalità italiana (si badi bene: la nazionalità italiana, non il semplice permesso di soggiorno), poteva perderla in caso di condanna definitiva per reati di terrorismo ed eversione. Si trattava, già allora, di una norma di dubbia legittimità, perché si applicava non a tutti i cittadini indistintamente, ma solo agli stranieri che erano diventati italiani. Si istituiva così una vera e propria discriminazione, vietata esplicitamente dalla nostra Carta Costituzionale (che come noto dice, all’art. 3, che «tutti i cittadini (…) sono eguali davanti alla legge»).

Il ddl sicurezza introduce un piccolo «correttivo»: prevede che si possa procedere alla revoca della nazionalità solo a condizione che la persona condannata «possieda un’altra cittadinanza» oppure – e qui c’è un passaggio importante su cui dobbiamo soffermarci – «possa acquisire un’altra cittadinanza». Il senso è chiaro: non è possibile togliere la nazionalità italiana a un individuo che in questo modo diventerebbe un non-cittadino, un cittadino di nessun Paese (in termini tecnici, un «apolide»).

Pur non cancellando l’obbrobrio partorito anni fa dal decreto Salvini, non c’è dubbio che qui il ddl fa un piccolo passo avanti. Ma, come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli. La norma, come abbiamo visto, dice che la nazionalità italiana si può revocare solo se l’interessato «possiede un’altra cittadinanza», oppure se «può acquisirne un’altra». Ma che significa «può acquisirne un’altra»? Per stabilire se una persona «può acquisire» la cittadinanza di un altro Paese, bisogna conoscere le leggi di altri Paesi, e le Prefetture non hanno – mediamente – queste competenze internazionali. E che succede se poi l’interessato, pur potendo in astratto acquisire una cittadinanza, non riesce all’atto pratico ad acquisirla? Come si vede, siamo di fronte – anche in questo caso – a norme mal concepite e mal formulate: buone più a placare i (presunti) furori dell’opinione pubblica, che a governare fenomeni complessi.

Sergio Bontempelli

Pisa, un marchio per non essere marchiati

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa Rivista, 6 Novembre 2018

La mensa universitaria è in pieno centro, a due passi dalla storica Piazza dei Cavalieri: gli studenti, dopo pranzo, si attardano nei bar della zona e sorseggiano i loro caffè, in attesa di tornare a lezione. Tra i tavolini all’aperto, collocati negli angusti vicoli medievali, fanno capolino spesso gli ambulanti senegalesi: vendono accendini, fazzoletti, portachiavi, ombrelli. Le reazioni degli studenti sono diverse: c’è chi si ferma a parlare, chi compra qualcosa, chi fa l’elemosina e regala qualche spicciolo. E poi c’è chi si infastidisce, e manda via in malo modo il venditore.

Siamo a Pisa, piccola città famosa per la sua “Torre Pendente”, che è giusto a due passi dalla zona universitaria: basta allontanarsi di qualche metro, costeggiando la Facoltà di Lingue, e si arriva davanti alla Torre. Qui il paesaggio umano cambia: di studenti se ne vedono pochi, di pisani “autoctoni” ancor meno. La Piazza dei Miracoli, col suo complesso monumentale, è piena fino all’inverosimile di turisti. Ci sono anche i venditori senegalesi, che però vendono merci più adatte alla clientela di questa porzione di città: bastoni da selfie, cappelli per ripararsi dal sole, magliette, souvenir della Torre.

I senegalesi sono una componente storica dell’immigrazione in Toscana, e in particolare a Pisa. I primi arrivi risalgono alla fine degli anni Ottanta: le fabbriche della provincia – soprattutto le concerie del Valdarno – avevano un disperato bisogno di manodopera, e i giovani africani trovavano facilmente un impiego. Per più di venti anni, le piccole e medie imprese del circondario hanno fatto fortuna grazie al lavoro di migliaia di operai senegalesi. Poi è arrivata la crisi, molte aziende hanno chiuso, e in tanti sono rimasti disoccupati: alcuni sono tornati in Senegal, altri hanno cercato fortuna nel Nord Italia, ma qualcuno è rimasto qui, in attesa di tempi migliori. E per sbarcare il lunario ha deciso di fare l’ambulante.

«Devo mantenere la mia famiglia, i miei figli, ma non voglio rubare né spacciare droga», ci spiega Abdul, che vende nella zona del Duomo. Ed è un discorso che si sente fare spesso dai senegalesi che abitano a Pisa: fare l’ambulante, per molti di loro, significa guadagnarsi da vivere onestamente. Senza rubare né spacciare, appunto. Il problema è che, da qualche anno a questa parte, la vendita ambulante è stata criminalizzata: le amministrazioni locali la considerano sinonimo di “degrado”, e i commercianti – soprattutto quelli nella zona turistica – si lamentano della presenza dei senegalesi vicino ai loro negozi.

Ma il tema caldo del dibattito cittadino è il commercio di oggetti contraffatti: alcuni ambulanti vendono borse e cappotti “firmati”, con le etichette false dei marchi più conosciuti e prestigiosi (Calvin Klein, Gucci etc.). Abdul, che ha scelto di non vendere questi oggetti “griffati”, ci spiega che molti suoi connazionali lo fanno perché in questo modo guadagnano di più: «I turisti non comprano né accendini né bastoni da selfie: tutti ci chiedono qualche borsa con il marchio».

La vendita di oggetti contraffatti è una violazione delle norme in materia di diritto d’autore (un reato simile, per capirci, a quello che si compie scaricando illegalmente film o pezzi musicali), ed è punito con sanzioni penali severissime, tra cui la revoca del permesso di soggiorno. Così, da qualche anno alcuni senegalesi si chiedono come poter continuare a vendere e a sopravvivere, senza correre rischi così alti.

È da questa riflessione collettiva che è nata l’idea di produrre un proprio marchio, un “brand” dei “senegalesi di Pisa”, da applicare alle borse e ai capi di abbigliamento venduti per le strade della città: un’idea che prende spunto da un’analoga iniziativa avviata a Salerno, sempre dalle comunità senegalesi. L’obiettivo è quello di creare curiosità attorno al nuovo marchio, così da spingere i turisti e i passanti a comprare i relativi prodotti, rinunciando ai brand più prestigiosi.

Il progetto è ancora in fase di definizione, ma i senegalesi sono ottimisti. «Sarà un modo per evitare la diffusione di oggetti contraffatti», scrivono in un comunicato firmato dalla loro associazione di riferimento, Senegal Mbolo, e da due associazioni cittadine di solidarietà, Africa Insieme e Rebeldia. «Invece di commercializzare borse, occhiali e vestiti “di marca”, venderemo borse, occhiali e vestiti caratterizzati dal nostro marchio. Sarà l’unico marchio che nasce dalle strade e dalle piazze di Pisa: un vanto per la città, un suo prodotto tipico e originale. Si chiamerà ABUSIF, ma sarà abusivo solo di nome».

(Sergio Bontempelli)

Se la matematica è un’opinione

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

La statistica, si sa, gode di un diffuso prestigio: i sociologi e gli studiosi che «danno i numeri» – quelli che forniscono dati, che srotolano slides piene di cifre e tabelle – hanno l’aura di moderni «sacerdoti del sapere», custodi di una scienza preziosa ed esoterica.

Eppure – almeno quando si parla di immigrazione – la matematica non ci restituisce mai una fotografia esatta della realtà. Ci dà delle indicazioni preziose, certo: ma, se non sappiamo «leggerla» con la dovuta cautela, rischiamo di prendere grosse cantonate.

Quanti immigrati arrivano in Italia
Quanti immigrati arrivano ogni anno nel nostro paese? Sembrerebbe una domanda banalissima, invece la faccenda non è così semplice. Ci sono le statistiche sugli sbarchi, d’accordo: si sa che le coste del Sud Italia sono costantemente monitorate e si può supporre che le cifre fornite dal Ministero dell’Interno siano ragionevolmente attendibili. Il punto è che non tutti i migranti arrivano via mare. Anzi: quelli che attraversano il Mediterraneo sono solo una minoranza.

Sì, avete capito bene: gli immigrati, nella maggior parte dei casi, non arrivano a bordo dei famosi «barconi». E questo, gli «esperti» – sociologi e demografi – lo sanno benissimo. Di solito, le frontiere più «battute» sono quelle terrestri: si arriva con l’autobus, sbarcando alla stazione Tiburtina di Roma, oppure in treno, muniti di regolare visto di ingresso. Per quanto possa sembrare incredibile, sono questi i modi in cui gli immigrati entrano più frequentemente in Italia.
Il punto è che, se le statistiche sugli sbarchi sono mediamente affidabili, quelle sugli ingressi «via terra» – diciamo così – sono disseminate di trappole. E si rischia, davvero, di fare errori clamorosi.

Appena arrivati o «sanati»?
Già, perché molti cittadini stranieri arrivano in autobus o in treno, ma da irregolari. Oppure – caso ancora più frequente – entrano con un visto turistico, che però non consente di rimanere in Italia con un contratto di lavoro: così, alla scadenza del visto, restano qui, ma senza permesso di soggiorno. Detto in due parole, si entra da irregolari, o lo si diventa dopo un breve periodo: e dunque non si viene registrati in nessun archivio.
Poi, all’improvviso, arriva una sanatoria, una regolarizzazione, una legge che consente di ottenere i documenti. E allora chi vive già in Italia fa domanda, prende il sospirato pezzo di carta, e finalmente viene registrato nelle statistiche.

È qui che il lettore inesperto rischia di essere ingannato: perché le presenze degli immigrati aumentano vertiginosamente in un breve periodo di tempo. Si ha l’impressione di essere «invasi» da flussi improvvisi e imprevedibili: in realtà, si tratta di persone che vivevano già da tempo nel nostro paese, e che si sono semplicemente (e improvvisamente) «regolarizzate».

Chi arriva, chi se ne va…
È per questo che le statistiche sui flussi migratori andrebbero prese con molta cautela. Secondo l’OCSE e l’ISTAT, per esempio, già da qualche anno gli arrivi sono diminuiti a causa della crisi economica: o, per meglio dire, sono aumentati gli «sbarchi» di richiedenti asilo e rifugiati – che non scelgono di emigrare, ma sono costretti a farlo da guerre e persecuzioni – e si sono ridotte le migrazioni economiche, quelle di chi viene per trovare un lavoro. La cosa – intendiamoci – è assolutamente plausibile: da che mondo è mondo, le crisi provocano drastiche contrazioni della mobilità internazionale.

Il punto è che è difficile avere dati statistici sicuri e affidabili in materia. Se si prendono le rilevazioni anagrafiche degli stranieri residenti, ad esempio, si scopre che il saldo migratorio – cioè la differenza tra coloro che arrivano in Italia e coloro che se ne vanno – è drasticamente diminuito negli ultimi anni: nel 2007, si parlava di un attivo di 494.885 unità [dati ISTAT, tavola 2], mentre nel 2014 la cifra è scesa +207 mila [Indicatori demografici ISTAT, Febbraio 2015, pag. 7].

Quando ho presentato questi dati sulla mia pagina Facebook, l’amico Sergio Briguglio – che di queste cose se ne intende – mi ha fatto notare che tra il 2006 e il 2007 c’erano stati ben due «decreti flussi», con cui molti irregolari avevano ottenuto un permesso di soggiorno. E quindi è difficile capire se il dato del 2007 si riferisca a persone appena arrivate in Italia, oppure a migranti «regolarizzati».

All’inverso, chi conosce da vicino il mondo dell’immigrazione sa che molti stranieri perdono il lavoro e tornano ai loro paesi, ma fanno di tutto per conservare il permesso di soggiorno e la residenza: non si sa mai, magari la crisi finisce, e se hai un documento in tasca puoi rientrare in Italia per trovare un nuovo impiego ben pagato. Insomma, c’è un sacco di gente che se ne va, ma nelle statistiche risulta ancora presente nel nostro paese…

Un’epidemia di assunzioni…
Peraltro, le «trappole» non riguardano solo i flussi migratori, cioè chi entra e chi esce dall’Italia: molti equivoci investono anche il lavoro dei migranti. Ad esempio, sapevate che il 10 Giugno 2002 più di 700mila famiglie hanno assunto domestici, domestiche e assistenti familiari straniere (le cosiddette “badanti”)? E che il 9 Maggio 2012 è successa più o meno la stessa cosa, cioè una specie di epidemia in cui ben 135mila datori di lavoro hanno assunto – tutti insieme, lo stesso giorno – altrettanti lavoratori stranieri?

Perché proprio il 10 Giugno 2002, e il 9 Maggio 2012? Come è potuto accadere che centinaia di migliaia di datori di lavoro abbiano fatto tutti la stessa cosa, nella medesima giornata? La risposta è abbastanza semplice: in entrambi i casi era iniziata una regolarizzazione. Potevano ottenere un permesso di soggiorno solo i lavoratori stranieri assunti almeno tre mesi prima dell’entrata in vigore della relativa legge: cioè, rispettivamente, il 10 Giugno 2002 e il 9 Maggio 2012. Per l’appunto.

Nessuna epidemia, dunque. E nessuna assunzione in massa di lavoratori irregolari. In molti casi, quei lavoratori erano stati assunti prima delle fatidiche date. Oppure non erano stati mai davvero presi a lavorare: semplicemente, bisognava presentare una domanda di sanatoria, e dichiarare di aver impiegato un lavoratore a partire da un giorno preciso…

Poi ci sono le statistiche sulle partite IVA degli immigrati, o sui lavoratori domestici stranieri: ne abbiamo già parlato su questo giornale. Sembra che gli stranieri siano diventati tutti imprenditori, o tutti domestici. E invece si tratta di escamotage per rinnovare il permesso di soggiorno: uno ha perso il lavoro, e per questo rischia di diventare irregolare. E allora apre una partita IVA, o trova una famiglia che lo assume «per finta», diciamo così.

Statistiche criminali (in tutti i sensi…)
Ma le «cantonate» più grosse si prendono con le statistiche criminali, quelle che registrano i reati. Sono in molti a chiedersi se i migranti «delinquano» di più rispetto agli italiani. Come si fa a scoprirlo? Semplice: gli archivi di polizia registrano tutte le denunce presentate in un determinato arco di tempo. Basta accedere a quegli archivi, e verificare se i denunciati stranieri sono di più, o di meno, rispetto agli italiani.

Già. E tuttavia, la faccenda non è così «liscia». In primo luogo perché – lo abbiamo detto – gli archivi di polizia registrano le denunce: ma non tutte le denunce portano alla condanna e, all’inverso, non tutti i reati vengono effettivamente denunciati.

Ma non c’è solo questo. Il problema più grosso – dicono gli esperti – sta nella differenza tra reati ad autore noto e quelli ad autore ignoto. Facciamo un esempio per capirci: torno a casa, e scopro che qualcuno mi ha svaligiato l’appartamento mentre ero assente. Ovviamente corro dai carabinieri a segnalare la cosa: però non ho idea di chi possa essere il ladro, e dunque sporgo una denuncia «contro ignoti», come si dice.

Ecco, giusto per dare un dato emblematico: le denunce «contro ignoti» per il reato di furto sono più del 95% del totale [vedi fascicolo ISTAT con dati 2012, pag. 7]. Questo significa che i calcoli sui denunciati stranieri, in rapporto agli italiani, sono fatti prendendo in considerazione il 5% dei reati. Per spiegarci ancora meglio: se mi dicono che un furto su due è compiuto da cittadini stranieri, vuol dire che i migranti sono «colpevoli» del 2,5% dei furti totali. Un po’ poco, no?

Tutto questo cosa significa? Che le statistiche sull’immigrazione sono false e ingannevoli? Che raccontano solo bugie? No di certo. Al contrario, sono uno strumento prezioso per capire i fenomeni. Solo che vanno prese con la dovuta cautela: perché hanno i loro limiti, e non sono un vangelo. Tutto qui.

Sergio Bontempelli, 6 Aprile 2015

Siamo alla frutta: la guerra dei mirtilli

Articolo originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione

È scoppiata la guerra. Giovedì scorso, il 5 Settembre. Proprio così.
Ma come, Obama ha già bombardato la Siria? Non si era impegnato a consultare il Congresso? E chi ha sganciato la prima bomba, gli Stati Uniti o la Francia? Come ha reagito la Russia? E l’Italia, che fa l’Italia? Bombarda o si tiene fuori dalla mischia?

Calma. Nessun bombardamento a Damasco. Non il 5 Settembre, almeno. Perché quella in Siria è (sarebbe) una guerra un po’ tradizionale, dice che la fanno per il petrolio e per i gasdotti, per il controllo geopolitico dell’area mediorientale, per indebolire Assad che – dice – è amico di Putin. Roba vecchia, superata. La guerra, quella vera, è altrove. Si combatte – pensate – sulla Montagna Pistoiese, nel versante toscano dell’Appennino. E la posta in gioco non è il petrolio, ma un bene alimentare di prima necessità: i mirtilli.

A ragguagliarci sul tema è il quotidiano fiorentino La Nazione, la cui edizione pistoiese spara un bel titolo a furor di locandina: «Raccolta mirtilli, scoppia la guerra con gli stranieri». Dunque, non si tratterebbe di un conflitto qualsiasi, ma di un vero e proprio scontro di civiltà: una guerra etnica, italiani contro stranieri. Per i mirtilli. La balcanizzazione della marmellata, potremmo dire.

Per saperne di più, bisogna comprare l’edizione cartacea del quotidiano: un paginone intero è dedicato a questo dramma appenninico, che si sta consumando nel silenzio (colpevole) dell’intera comunità internazionale.

«Montanari contro stranieri», dice il titolo del pezzo (prendete nota: un montanaro non può essere straniero, e viceversa). «Tutto nasce», ci spiega l’articolo, «dall’invasione di raccoglitori di frutti di bosco stranieri: albanesi e stranieri in particolare». Ecco, gli stranieri coinvolti sarebbero di varie nazionalità, ma «in particolare» albanesi e stranieri. Il concetto degli stranieri che sarebbero «in particolare stranieri» fa venire un po’ le vertigini, ma non abbiamo tempo di attardarci, gli eventi incalzano.

Il Corpo Forestale informa che «vi sarebbero conferme di queste presenze». E tuttavia, aggiunge il cronista, «come queste persone siano arrivate, dove abitino e cosa facciano la sera, è uno dei misteri meglio custoditi dalla montagna». Abbiamo a che fare quindi con un nemico invisibile, una specie di “abominevole straniero delle nevi”, e c’è da aver paura davvero.

Le forze dell’ordine si stanno muovendo, dice ancora il cronista, e nelle ultime settimane hanno controllato cinquanta persone: di queste, ben tre sono state multate, cosa che dimostra il dilagare incontrollabile dell’abusivismo. Intanto, i residenti denunciano «l’invasione dei cercatori» che «saccheggiano i nostri mirtilli». La marmellata è a rischio, e con essa la pace. Chiamate Obama. Convocate l’ONU.

Sergio Bontempelli

11 Settembre 2013

Sicurezza, emergenza pinoli in Toscana

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione

Un giornale locale: il racket del pesto gestito dai romeni

Un secolo fa gli “stranieri nemici” per eccellenza erano gli ebrei: che, secondo gli antisemiti dell’epoca, controllavano banche, industrie, eserciti e Stati sovrani. Ordivano complotti e scatenavano guerre. In tempi più recenti, è venuto il turno degli “extracomunitari”: albanesi, maghrebini e africani sono stati accusati di controllare il mercato della droga e della prostituzione.

Oggi, in tempi di crisi economica, anche le fantasie xenofobe devono adeguarsi al clima di austerità: così, i nuovi mostri dell’immaginario – i romeni – non controllano né banche, né industrie, né eserciti. Non gestiscono il mercato mondiale degli stupefacenti, non organizzano il traffico delle prostitute dall’Est, e per la verità non fanno nemmeno scippi o furti nelle case. La nuova frontiera della criminalità è il traffico di pinoli. Da destinare – tenetevi forte – al “mercato nero del pesto”.

A disegnare la geografia di questo fenomeno criminale è «Il Tirreno», quotidiano diffuso in tutta la Toscana. Che apre l’edizione di Domenica 17 Marzo con un documentato reportage sul tema: «ormai si può parlare di una vera e propria “escalation”», dice il cronista. L’escalation dei pinoli. Roba da brividi.

Ma andiamo con ordine. Tutto comincia con una domanda: «perché stanno acciuffando uno dopo l’altro così tanti ladri da supermarket con giacche e borse imbottite di confezioni di pinoli?». Già, perché? La risposta non è difficile: «la via maestra sembra essere quella del pesto, basato proprio sul prezioso prodotto, che è sempre meno e sempre più costoso. Mercato clandestino».

Traffico di pinoli. Mercato nero del pesto. Organizzazioni criminali romene. Non ci credete? Vi sembra una bizzarria da giornalista a corto di idee? All’inizio anche gli inquirenti la pensavano così, ma si sono dovuti ricredere: perché questa “bizzarria”, ci spiega Il Tirreno, «ha ottenuto la promozione a traffico vero e proprio» in occasione dell’arresto di un romeno davanti a un supermercato di Borgo San Lorenzo, vicino Firenze. I carabinieri hanno trovato il malfattore «imbottito di 80 bustine di pinoli».

Non basta. «Controllando i suoi documenti abbiamo notato subito che era residente a Genova», raccontano i militari. Pinoli, Liguria, Genova: la conclusione si impone quasi da sola. E allora gli investigatori provano ad incastrare il ladro: «abbiamo chiesto spiegazioni di un furto così insolito, e lui ha risposto che la merce era destinata al mercato nero del pesto». Come volevasi dimostrare.

Il fenomeno, peraltro, non è limitato alla Toscana. Girovagando in rete, apprendiamo di un furto di pinoli a Savona, di un altro ad Albenga e di un altro ancora a La Spezia. Gli arrestati sono tutti romeni: si deve dunque supporre l’esistenza di una fitta rete criminale che congiunge Romania e Liguria. A cui si aggiunge Roma, dove a quanto pare si registrano due furti alla settimana. Genova, Roma, Bucarest. Il triangolo del pinolo.

Ci sono gli ingredienti per una nuova emergenza. A questo punto, si spera che le forze dell’ordine si mobilitino. E che arrestino velocemente il “palo della banda del pinolo”. Al momento, come dice il mio amico Stefano Galieni, sulle indagini è “buio pesto”.

Sergio Bontempelli

25 Marzo 2013

Reportage sulle prime ore dell’ordinanza antiborsone a Pisa

Originariamente pubblicato su Pisanotizie, quotidiano online di informazione locale, 9 Marzo 2009, link non più attivo

È il primo giorno di applicazione della cosiddetta «ordinanza antiborsone», firmata Venerdi dal Sindaco Marco Filippeschi. Un giorno atteso da alcuni, temuto da altri: sicuramente, non un giorno normale, come tanti. Almeno dalle parti di Piazza dei Miracoli, dove il dibattito su questi temi è più «incandescente»: tra i commercianti, che sollecitano da sempre iniziative contro i venditori «abusivi», e gli ambulanti stranieri che invece lamentano violenze e prevaricazioni nei loro confronti. Tutti qui aspettano al varco l’applicazione concreta dell’ordinanza.

Arriviamo verso mezzogiorno, con l’autobus che ferma proprio davanti a Piazza Manin. È una splendida giornata di sole, e dalle parti del Campo dei Miracoli – al di là della Porta che dà sul Duomo – si intravedono i turisti che passeggiano, finalmente senza ombrelli, e ammirano la Torre e il Battistero. All’ingresso della piazza, però, il clima è ben diverso: una fila di agenti presidia l’accesso sotto la supervisione del Comandante della Polizia Municipale Massimo Bortoluzzi. Diverse auto delle forze dell’ordine sono disposte a metà strada tra i cordoli di Via Bonanno e la Porta Nuova, quella che dà sul Duomo.

Scendiamo dall’autobus, in compagnia di un ragazzo senegalese incontrato durante il viaggio. Stiamo per entrare in Piazza Manin, l’agente della Polizia Municipale ci fa passare ma ferma il cittadino straniero. «Ce l’hai i documenti? Da oggi al Duomo possono entrare solo quelli che hanno i documenti». «Perché, sono sempre passato di qui…». «Beh, oggi è diverso, non puoi entrare». Il tono dell’agente è fermo, ma il ragazzo non insiste: non ha il permesso di soggiorno – ci spiegherà poco dopo – e teme l’espulsione. Meglio girare alla larga.

Il senegalese, però, non ha nessun “borsone”. E a dire la verità non ha nemmeno una borsa piccola. L’ordinanza, come noto, vieterebbe «il trasporto e la detenzione di borse e sacchi […] inequivocabilmente riconducibili alla vendita illegale». Ma qui, di borse e sacchi non se ne vedono. «In realtà», prova a spiegarci un agente, «il provvedimento del Sindaco è finalizzato a contrastare l’abusivismo: e le persone che abbiamo fermato le conosciamo già, sappiamo che sono abusivi». Chiediamo spiegazioni su come vengono effettuati i controlli, dopo aver notato che noi di Pisanotizie, armati di zaini, non siamo stati fermati, mentre numerose persone di colore, indipendentemente dai “borsoni”, sì.

Dietro di noi, un agente della Polizia Municipale ferma un’anziana signora con l’accento slavo. «Dove va, signora? Ha i documenti? Da oggi non si entra senza documenti». «Sto andando all’Ospedale», risponde la signora, «c’è mio fratello ricoverato, sta molto male». «Non può entrare lo stesso», dice il vigile. Effettivamente, proprio in Piazza Manin c’è uno degli ingressi dell’Ospedale: «non è l’unico ingresso, la signora poteva comunque passare dall’entrata del Pronto Soccorso in Via Bonanno, dove non ci sono controlli», ci spiega un medico ospedaliero incontrato nelle vicinanze, «comunque non dovrebbero fermare la gente in questo modo, non dovrebbero intimidire chi viene in Ospedale».

Proviamo a fare un giro nei luoghi “caldi” della vendita ambulante. Entriamo in piazza Manin, poi costeggiamo le mura accanto al Duomo, dove ci sono i banchi dei venditori “regolari”, e arriviamo in Largo Cocco Griffi. Ad ogni ingresso, c’è una camionetta dei Carabinieri a sorvegliare chi entra e chi esce. E nella zona “calda”, sull’asse Piazza Manin-Largo Cocco Griffi, non c’è traccia di immigrati africani. Arriviamo fino in fondo, e su via Contessa Matilde ci sono i ragazzi stranieri cui è stato impedito l’ingresso in area Duomo. «Non è giusto», raccontano, «chiedono i documenti solo alle persone di colore. E se uno è scuro di pelle non passa, anche se non ha il borsone, e anche se ha i documenti».

Torniamo indietro, verso Piazza Manin. La tensione, adesso, si è un po’ allentata. Qualche macchina della Polizia Municipale è tornata alla base, i controlli ci sono ma sembrano meno stringenti. In piazza, alcuni immigrati commentano l’accaduto, sorvegliati a vista dagli agenti. «Non è giusto», dice un commerciante straniero, regolare e con regolare licenza, «controllano solo la gente di colore, e le multe le fanno solo a noi immigrati». «Però non scrivere il mio nome», aggiunge, «qui il clima è brutto, e ho paura».

Sergio Bontempelli

Milano, delitto di cronaca

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

In seguito all’omicidio di un ragazzo di colore, si è scatenato un battage mediatico senza capo nè coda: una vera e propria cortina fumogena di dichiarazioni e polemiche che, invece di far luce sull’episodio, hanno finito per occultarlo del tutto. Ecco una piccola cronaca di una giornata tutta da riscrivere.

In Italia, se un immigrato si rende colpevole di omicidio, tutto è chiaro: si scatenano i giornali e le televisioni, si grida all’emergenza immigrazione, si invocano espulsioni e rimpatri, ci si lamenta delle frontiere spalancate, si chiede l’intervento di chiunque, dalle forze armate alla NATO. Tutto torna, tutto è facile da raccontare, da capire, da scrivere. Ma quando avviene il contrario, quando è un italiano ad uccidere un immigrato (o presunto tale), l’informazione e la politica vanno in tilt: e così è successo ieri.

I fatti, nella loro brutalità, sarebbero semplici. Siamo a Milano, zona Porta Romana, in un bar che si chiama Shining [!!]. Ci sono tre ragazzi molto giovani, tutti di colore: uno è straniero ruandese, gli altri due sono cittadini italiani. I ragazzi escono dal bar in fretta, e i proprietari pensano di essere stati derubati di un pacco di biscotti. I gestori del locale, furiosi, rincorrono i ragazzi, li raggiungono e si accaniscono contro uno di loro, Abdul Salam Guibre, cittadino italiano originario del Burkina Faso: lo colpiscono con una spranga e lo uccidono, urlandogli «ladro, negro di merda», «sporco negro, ti ammazziamo».

Questo è quello che è successo: ma ai giornali e al mondo della politica i semplici fatti non bastano. Soprattutto quando smentiscono lo stereotipo del «negro» cattivo e del «bianco» buono. E allora bisogna ricamarci sopra, gironzolarci un po’ intorno, sollevare cortine fumogene per confondere le acque.

I giornali si danno da fare. A metà mattinata esce un lancio di agenzia – ripreso dai principali siti di informazione, dal Corriere a Repubblica – che comincia il resoconto dei fatti in questo modo: «Abdul era con altri due amici di colore, Samir R., 19 anni di Reggio Calabria, e John K., 21enne del Ruanda con permesso di soggiorno scaduto». Non si capisce bene quale rilevanza abbia la data di scadenza del documento, in una cronaca che parla di omicidio. La cosa puzza di insinuazione di basso livello: ma per fortuna passa inosservata, sommersa com’è dal fuoco di artificio delle dichiarazioni dei politici.

Questi ultimi si azzuffano accusandosi a vicenda della responsabilità morale del delitto. Veltroni se la prende con la Lega e con il clima di odio contro il diverso agitato dai padani: e lo dice lui, che il 31 Ottobre scorso – all’indomani dello stupro di Giovanna Reggiani – aveva luminosamente pontificato sull’«unica matrice rumena» delle violenze sessuali.

Il Presidente PD della Provincia di Milano, forse preoccupato di tanta apertura, corregge il tiro e commenta l’omicidio invitando a «non sottovalutare i dati del Ministero degli Interni, secondo cui la maggior parte dei reati sono commessi da immigrati clandestini». Cosa c’entrino gli immigrati clandestini con un delitto commesso da un italiano contro un altro italiano lo sa solo lui. Poi, però, anche Penati se la prende con il nuovo Governo: «quando tutto il problema sicurezza si riconduce solo ai rom», spiega, «passa il messaggio che il problema è quello del contrasto con chi è di un’altra nazione o di un’altra cultura. Ma non è colpendo il diverso che si conquista sicurezza». Peccato che proprio Penati, su La Repubblica del 14 Maggio scorso, avesse proposto di «azzerare i campi nomadi nel milanese», schierandosi apertamente a favore del decreto sicurezza varato da Berlusconi.

Intanto la Procura annuncia di non aver contestato agli assassini l’aggravante di odio razziale. A quanto pare, i due gestori del locale avrebbero agito «solo» per i biscotti, non per xenofobia. Il Governo coglie l’occasione per levarsi d’impiccio, e Berlusconi dichiara: «ho parlato con i responsabili del Ministero dell’Interno, e mi hanno espresso il loro convincimento che non c’entri niente il razzismo, il colore della pelle». In realtà, il razzismo non è stato il movente dell’aggressione: ma il ragazzo è stato ucciso al grido di «sporco negro», che a casa mia è una frase razzista.

La Lega Nord, offesa per essere stata chiamata in causa quasi come mandante morale del delitto, si risente e rovescia l’accusa sull’avversario: i veri razzisti sono quelli della sinistra, tuona Paolo Grimoldi, coordinatore dei Giovani Padani. Che spiega: «La sinistra dovrebbe interrogarsi sul perché si verificano casi di razzismo. Allora capirebbe che non porre un freno all’immigrazione non ha fatto altro che aumentare i rischi». Insomma, per arginare il razzismo bisogna allontanare gli immigrati: che è un po’ un modo gentile per dire «non siamo noi i razzisti, sono loro che son negri»…

Con il passare delle ore, la vicenda specifica – e tragica – del delitto è trascolorata in una polemica tanto veemente quanto priva di senso. Ai giornali e agli uomini politici piace molto trarre conclusioni generali da singoli fatti di cronaca: così, se l’omicidio di Giovanna Reggiani era colpa dei rumeni (di tutti i rumeni), e se le accuse – tutte da dimostrare – di una signora a Ponticelli insegnavano che gli zingari rubano i bambini, oggi si può disinvoltamente dire che l’uccisione di un ragazzo di colore fuori da un bar è tutta colpa della Lega che è razzista, o della sinistra che fa entrare gli immigrati.

Le generalizzazioni richiedono cautela e un qualche rigore metodologico: sennò non aiutano a capire, e sollevano solo nubi di polvere. Il fatto di Milano ha una propria dinamica, che andrebbe analizzata nella sua specificità e singolarità. Poi, certo, è legittimo e utile individuare nessi, legami, contesti: ma questi non chiamano in causa una singola forza politica, un unico responsabile o un solo mandante morale.

In Italia si è assistito ad una escalation progressiva di criminalizzazione di immigrati, Rom, venditori ambulanti «abusivi», «clandestini» e quant’altro: e queste figure sono state additate – dal sistema politico e dalla stampa, con pochissime eccezioni – come bersagli fragili e inermi, su cui scaricare la rabbia collettiva. Gli assassini di Milano avevano i loro motivi per fare quello che hanno fatto: ma, forse, hanno sentito – anche – di poter esercitare liberamente violenza su un nemico «facile», privo di protezione. Quante volte giornali e televisioni hanno di fatto assolto commercianti che uccidevano ladri in fuga dai loro negozi? Quante volte la furia della sicurezza ha legittimato reazioni sproporzionate contro Rom o immigrati, magari colpevoli di piccoli reati?

Qui si potrebbe – con la dovuta cautela, e avendo sempre cura di guardare al fatto specifico, alla sua irriducibilità – tentare qualche generalizzazione. E non per prendersela con la Lega, ma con un sistema dell’informazione e della politica avvelenato nel suo complesso.

Sergio Bontempelli

15 Settembre 2008

 

Tolleranza zero, il modello americano e i suoi fallimenti

Dal blog personale di Sergio Bontempelli

Come noto, lo slogan Tolleranza Zero è stato coniato originariamente negli Stati Uniti, ed è diventato il pilastro delle politiche penali a New York all’inizio degli anni ’90, sotto l’amministrazione guidata da Rudolph Giuliani. Quali sono stati i risultati di quel modello? Ha funzionato? Ha prodotto effetti positivi? Una piccola inchiesta, utile per rispondere ai cantori nostrani (e acritici) del “pugno di ferro”.

Tolleranza Zero (Zero Tolerance) è lo slogan con il quale il repubblicano Rudolph (Rudy) Giuliani ha vinto le elezioni municipali nel Gennaio 1994, e governato New York negli anni successivi. Le origini di questo slogan, però, vanno cercate nei decenni precedenti. In particolare, intorno alla metà degli anni ’70 lo stato del New Jersey vara un programma di contrasto alla criminalità denominato Safe and Clean Neighborhoods Program: il piano consiste nel far uscire i poliziotti dalle macchine e dislocarli per strada, in vere e proprie “ronde a piedi”. Lo scopo – come spiega Fabrizio Tonello in un interessante articolo uscito un anno fa su Il Manifesto – è quello di «mo­strare la presenza [della polizia] non solo ai potenziali criminali ma soprattut­to a figure sociali […] sbri­gativamente inserite nella categoria disorderly people, che potremmo tradurre con “gente che dà fastidio”»: mendicanti, alcolisti, tossicodipendenti, prostitute. Ed è proprio il Safe and Clean Neighborhoods Program ad utilizzare per la prima volta la slogan Zero Tolerance: ma la cosa non sembra avere molto seguito.

Il vetro rotto (1982)

Nel 1982, due studiosi americani di politica criminale, Wilson e Kelling, pubblicano un articolo in una rivista specializzata, che per la prima volta enuncia la teoria della finestra rotta [James Q. Wilson e George L. Kelling, Broken windows. The Police of Neighborhood Safety, in «Atlantic Monthly», Marzo 1982, pagg. 29-38]. Secondo questa teoria, «se una finestra di un edificio dismesso viene rotta da qualcuno, e non si provvede a ripararla urgentemente, presto anche tutte le finestre saranno rotte, a un certo punto qualcuno entrerà abusivamente nell’edificio, qualche tempo dopo l’intero palazzo diventerà teatro di comportamenti vandalici».

Cosa c’entrano vetri e finestre con i fenomeni criminali? Secondo Wilson e Kelling, «il degrado urbano indurrebbe nella comunità un senso di abbandono, di mancata attenzione da parte dell’autorità, destinato a facilitare comportamenti devianti. Il degrado eleva la soglia di indifferenza della comunità urbana verso varie forme di devianza, con la conseguenza di produrre il consolidamento di culture criminali» [questa sintesi della teoria del vetro rotto è tratta da: Alessandro De Giorgi, Zero Tolleranza. Strategie e pratiche delle società di controllo, Derive e Approdi, Roma 2000, pag. 106]. Detto in altri termini: per combattere efficacemente la criminalità, occorre contrastare fermamente e in modo capillare i piccoli disordini quotidiani, il degrado, i comportamenti immorali e devianti di lieve entità, o addirittura irrilevanti dal punto di vista penale. Quando l’assessore Cioni spiega che il problema principale di Firenze sono i mendicanti orizzontali (sic) o i lavavetri applica a suo modo la teoria americana della finestra rotta…

Wilson e Kelling, naturalmente, non agiscono nel vuoto. Negli Stati Uniti, in quello stesso periodo, l’Amministrazione Reagan è impegnata in una vera e propria restaurazione conservatrice, fondata sullo smantellamento del welfare e sull’espansione di politiche penali repressive. I think tank neoconservatori – istituti di ricerca, in genere lautamente finanziati da grandi multinazionali, che promuovono e diffondono le dottrine reaganiane – sono attivissimi nel propagandare il nuovo vangelo repressivo in materia di politiche criminali. Ed è proprio uno di questi istituti – il Center for Civic Initiative – a diffondere la teoria della “finestra rotta”, finanziando nuove pubblicazioni in materia [vedi Loic Wacquant, Parola d’ordine: Tolleranza Zero. La trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 17; sui think tank vedi Marco D’Eramo, I serbatoi d’odio fanno il pieno, in «Il Manifesto», 3 Novembre 2004].

Nel 1984, un altro prestigioso think tank, il Manhattan Institute, finanzia con 30.000 dollari la pubblicazione di un volume di Charles Murray intitolato Losing Ground: American Social Policy 1950-1980. Il libro «individua nell’eccessiva generosità delle politiche di sostegno ai gruppi svantaggiati la causa dell’incremento della povertà negli Stati Uniti: in questo modo, infatti, si ricompensa l’inattività [dei disoccupati e dei poveri], provocando la degenerazione morale delle classi popolari, in particolare le unioni “illegittime”, causa ultima di tutti i mali della società. Diretta conseguenza di tutto ciò è la violenza urbana» [L. Wacquant, cit., pag. 14]. La violenza e la criminalità, per Murray, dipendono insomma dall’eccessiva indulgenza dello Stato nei confronti dei poveri, dei diseredati e dei disoccupati.

Il volume di Murray è oggetto di un’intensissima propaganda, orchestrata accuratamente (e lautamente finanziata) dal Manhattan Institute: come spiega Loic Wacquant, il Manhattan Institute «organizza un battage mediatico senza precedenti attorno al libro. Uno specialista in relazioni pubbliche viene assunto con il solo scopo di garantirne un’adeguata promozione: un migliaio di copie viene inviato in omaggio a giornalisti, politici e ricercatori. Charles Murray, inoltre, viene lanciato nel circuito dei talk-show televisivi e delle conferenze universitarie […]. Il Manhattan Institute organizza anche un grande convegno dedicato a Losing Ground, per partecipare al quale gli invitati percepiscono onorari che arrivano ai millecinquecento dollari, senza contare l’alloggio gratuito in un hotel di lusso nel cuore di New York. Il libro […] diventa così rapidamente un classico del dibattito statunitense sull’assistenza sociale» [L. Wacquant, cit., pag. 15].

Le teorie repressive alla prova del governo: da William Bratton a Rudy Giuliani (1990-1997)

La teoria della finestra rotta, e il nuovo vangelo repressivo in materia penale, sono le principali fonti di ispirazione dell’operato di William Bratton, a capo del TPD (Transit Police Department, la polizia responsabile della sicurezza sui trasporti pubblici New York) dal 1990 al 1993. Bratton organizza una campagna per la sicurezza nella metropolitana di New York, intervenendo duramente contro senza fissa dimora, graffitari, persone che chiedono l’elemosina, bande giovanili ecc. Gli arresti per reati minori all’interno della metropolitana registrano un incremento esponenziale, passando dai 1.300 dell’Agosto 1990 ai 5.000 del Gennaio 1994 [vedi De Giorgi, cit., pag. 109]: intanto la metropolitana viene “ripulita” e – secondo Bratton – «restituita ai cittadini», in quello che può essere considerato il primo esperimento di applicazione della teoria della “finestra rotta”.

Nel Gennaio 1994 il repubblicano Rudolph Giuliani viene eletto Sindaco di New York: la nuova amministrazione nomina come capo della Polizia proprio William Bratton, che appena insediatosi annuncia un programma di lotta alla criminalità fondato sullo slogan Zero Tolerance (Tolleranza Zero). Si prevede un cospicuo incremento di organici nel NYPD (New York Police Department), una presenza capillare delle forze dell’ordine su strada, l’istituzione di una banca dati informatizzata sul crimine, la repressione di lavavetri (squeegeeing), questuanti, mendicanti, senza fissa dimora.

I risultati di questa intensa azione repressiva appaiono, ai loro autori, letteralmente entusiasmanti: tra il 1994 e il 1996, i reati denunciati calano del 30%, mentre i soli omicidi diminuiscono del 40%.

Il rovescio della medaglia

Le politiche di Tolleranza Zero praticate dall’amministrazione di New York suscitano le attenzioni di Amnesty International, che nel Giugno 1996 pubblica un rapporto dal titolo Police brutality and excessive force in the New York City Police Department. I dati di Amnesty, e quelli forniti da altre organizzazioni di tutela dei diritti umani, disegnano un quadro devastante:

1) Tra il 1994 e il 1997 le richieste di risarcimento per danni causati da perquisizioni violente della polizia aumentano del 50%; le denunce penali per abusi e comportamenti arbitrari delle forze dell’ordine crescono del 41%. Nel solo biennio 1993-1994, il numero di civili uccisi nel corso di operazioni di polizia cresce del 35%. Tra il 1992 e il 1997, i risarcimenti a civili per le violenze subite passano da 13,5 milioni a 24 milioni di dollari.
2) Secondo il rapporto di Amnesty, il 75% di coloro che denunciano violenze della polizia è costituito da neri o latinoamericani: l’organizzazione umanitaria ipotizza per questo il dilagare di un atteggiamento esplicitamente razzista da parte delle forze dell’ordine.
3) Le vittime di abusi e violenze sono nella stragrande maggioranza dei casi minorenni di età compresa tra i 14 e i 17 anni; spesso, si tratta di persone senza armi o già disarmate e immobilizzate dalla polizia. Analizzando le circostanze in cui si sono verificate ipotesi di violenza, Amnesty arriva alla conclusione che «fra queste non prevalgono le sparatorie o gli inseguimenti di pericolosi criminali, bensì: liti conseguenti a lievi incidenti stradali; casi di guida senza patente; liti con assistenti sociali e successivo intervento della polizia; casi di “condotta disordinata” (disorderly conduct); arresto di persone sospettate di spaccio; partecipazione a manifestazioni di protesta; presenza di curiosi durante un arresto; violazioni del codice della strada; furti in supermercati; proteste rispetto ad arresti percepiti come ingiusti e immotivati» [la citazione finale, e i dati citati sopra, sono tratti da De Giorgi, cit. pagg. 115-117].

Se, dunque, la politica di Tolleranza Zero consegue – apparentemente – risultati lusinghieri sul piano del contrasto alla criminalità, le sue conseguenze sono devastanti da vari punti di vista. In primo luogo, in termini di diritti umani e tutela delle garanzie per le minoranze. In secondo luogo, per i costi sostenuti per i risarcimento dei danni. E, infine, in termini più generali di spesa pubblica. Nei primi cinque anni dell’amministrazione Giuliani, le risorse destinate alle attività di polizia sono incrementate del 40%, arrivando ad un importo quattro volte superiore a quello sostenuto per gli ospedali pubblici; nello stesso periodo, le spese per i servizi sociali sono diminuite di un terzo [si veda L. Wacquant, cit., pag. 19].

Funziona davvero la politica di Tolleranza Zero?

Fin qui, come abbiamo visto, pare che almeno in termini di contrasto alla criminalità le politiche di Tolleranza Zero abbiano raggiunto buoni risultati. Ma le cose stanno davvero così?

Nello stesso periodo in cui Giuliani promuove la Tolleranza Zero, nella città di San Diego l’amministrazione locale persegue politiche di segno diametralmente opposto. Qui, tra il 1993 e il 1996 il numero di arresti effettuati dalle forze dell’ordine diminuisce del 15% (proprio mentre a New York aumenta del 24%), e diminuisce anche (del 10%) il numero di denunce contro la polizia. Eppure, anche a San Diego i tassi di criminalità registrano diminuzioni simili a quelle di New York [si veda L. Wacquant, cit., pag. 19].

Nella città governata da Rudolph Giuliani, d’altra parte, il nesso tra diminuzione dei reati e politiche di Tolleranza Zero è tutto da dimostrare: il calo dei tassi di criminalità comincia a registrarsi già nel 1990, vale a dire molto prima dell’avvento del “Sindaco di Ferro” [De Giorgi, cit., pag. 111]. La diminuzione dei reati è semmai imputabile ad altri e più complessi fenomeni: il cambiamento del mercato della droga (e in particolare la sensibile riduzione del commercio del crack, a cui erano legati omicidi ed episodi di violenza), o la ripresa dell’economia e dell’occupazione giovanile, possono spiegare il decremento dei reati molto di più della Tolleranza Zero.

Infine – controesempio significativo – il Safe and Clean Neighborhoods Program varato nel New Jersey negli anni ’70 – il primo esempio, come abbiamo visto, di Tolleranza Zero – non aveva prodotto nessun decremento della criminalità, e anzi i reati avevano continuato ad aumentare. Che le politiche penali ultrarepressive abbiano effetti reali sul crimine, dunque, resta un’ipotesi tutta da dimostrare…

Sergio Bontempelli, 12 Maggio 2008

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