Diritti dei migranti e antirazzismo

Tag: sanatoria

Verso la regolarizzazione: una proposta concreta

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

Si è riaperto in questi giorni il dibattito sulla “sanatoria” degli immigrati. Vogliamo contribuire a questo dibattito con una nostra proposta tecnica: un possibile testo di legge, fondato sulla regolarizzazione di chi è qui senza documenti, sull’abrogazione dei decreti Salvini e sulla reintroduzione della protezione umanitaria

Il dibattito sulla regolarizzazione dei migranti senza permesso di soggiorno, che sembrava essersi arenato nei mesi scorsi, si è riacceso nelle ultime settimane, complice anche la drammatica carenza di manodopera che sta colpendo settori produttivi come l’agricoltura.

Pochi giorni fa, il Corriere della Sera ha pubblicato una bozza di provvedimento, su cui i Ministri del governo Conte II stanno ancora discutendo. Si tratta di un testo che, se approvato, limiterebbe la regolarizzazione solo ad alcuni comparti produttivi (agricoltura, allevamento, pesca e acquacoltura). A poter presentare le domande, inoltre, sarebbero solo e soltanto i datori di lavoro: un meccanismo pericoloso, quest’ultimo, già utilizzato in altre sanatorie, che rischia di alimentare situazioni di sfruttamento e di ricatto.

Noi continuiamo a pensare che sia possibile una regolarizzazione non strettamente vincolata al lavoro, che consenta l’emersione diretta degli stranieri coinvolti: un meccanismo che potrebbe sfociare nel rilascio di un permesso di soggiorno per “attesa occupazione”.

Al contempo, in vista di un più ampio dibattito su una riforma complessiva delle politiche migratorie, è quanto mai urgente abolire i decreti Salvini, che hanno stravolto il diritto fondamentale all’asilo previsto dalla Costituzione italiana.

Ci siamo già soffermati su queste proposte in un post pubblicato sul nostro sito alcuni giorni fa. Qui di seguito proviamo a trasformarle in un vero e proprio articolato di legge: è un nostro contributo tecnico-politico al dibattito in corso.

________________________________

Art. 1. Permesso di soggiorno per motivi umanitari

1. Al decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) All’articolo 1, comma 1, alle parole «della qualifica di beneficiario di prote­zione internazionale» sono aggiunte le parole «e umanitaria»;

b) Il Capo IV è rubricato «Protezione sussidiaria e umanitaria»;

c) Dopo l’articolo 15 è aggiunto il seguente articolo 15 bis:

«Articolo 15-bis. La Commissione territoriale di cui all’articolo 27, primo comma, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, riconosce la prote­zione umanitaria quando non sussistono i presupposti per il riconoscimen­to della protezione internazionale, ma vi sono fondati motivi di ritenere che lo straniero interessato:

  • Non può godere nel suo paese di un effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, come prescritto dall’articolo 10 della stessa;
  • ha subito gravi violazioni dei suoi diritti fondamentali nel paese di origine o nei paesi che ha attraversato prima di arrivare in Italia;
  • ha intrapreso il viaggio per arrivare in Italia quando era ancora mi­norenne;
  • Abita in Italia da tempo, e ha maturato legami affettivi, familiari e sociali tali da rendere irragionevole e impraticabile un suo ritorno al paese di origine;
  • Abita in Italia da tempo, e si è stabilmente inserito nel mercato del lavoro»

d) All’articolo 16, comma 1, dopo le parole «lo status di protezione sussidia­ria», sono aggiunte le parole «e quello di protezione umanitaria»

e) All’articolo 16, comma 1, la lettera d-bis è sostituita dalla seguente: «costitui­sca un pericolo concreto ed attuale per l’ordine e la sicurezza pubblica, desumi­bile da circostanze di fatto che devono essere indicate nel provvedimento di re­voca»

f) All’articolo 23 è aggiunto i seguenti commi 3 e 4:

«3. Ai titolari dello status di protezione umanitaria è rilasciato un per­messo di soggiorno per protezione umanitaria, della durata di due anni. Tale permesso di soggiorno consente l’accesso al lavoro e allo studio ed è convertibile in un permesso per motivi di lavoro, sussistendone i requisiti.

4. Il permesso di soggiorno di cui al comma 3 può essere richiesto anche al Questore, al di fuori della procedura di protezione internazionale».

Art. 2. Abrogazione delle norme in materia di domande manifestamente infondate e di procedure accelerate

1. Al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, sono apportate le seguenti mo­dificazioni:

a) L’articolo 2-bis è abrogato

b) All’articolo 9, il comma 2-bis è abrogato

c) All’articolo 10, comma 1, le parole da «L’ufficio di polizia informa il richie­dente» a «può essere rigettata ai sensi dell’articolo 9, comma 2-bis» sono abroga­te;

d) All’articolo 10, comma 2, la lettera d-bis) è abrogata

e) All’articolo 28, comma 1, lettera c-ter) è abrogata

f) L’articolo 28-bis è abrogato;

g) L’articolo 28-ter è abrogato;

h) All’articolo 32, comma 1, la lettera b-bis) è abrogata.

Art. 3. Norme per fronteggiare l’emergenza Covid-19

1. All’articolo 35 comma 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dopo la lettera e), è aggiunta la seguente lettera f): «L’accesso al Medico di Assistenza Primaria e al Medico di Continuità Assistenziale».

2. Fino al 31 Dicembre 2020, l’accesso alle prestazioni di cui all’articolo 35 com­ma 3 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 è garantito anche ai cittadini stranieri soggiornanti con un visto di breve durata, nonché ai cittadini degli Sta­ti Membri dell’Unione Europea che non siano autorizzati all’iscrizione al Servi­zio Sanitario Nazionale. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394.

3. I permessi di soggiorno in scadenza nell’anno 2020 sono prorogati fino al 31 Dicembre 2020.

4. La disposizione di cui al comma 3 si applica anche ai permessi di soggiorno che, alla data dell’entrata in vigore della presente legge, erano stati già rifiutati, revocati o annullati.

5. Fino al 31 Dicembre 2020 sono sospesi tutti i procedimenti di revoca dei per-messi di soggiorno.

6. Il termine temporale di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 può essere ulteriormente prorogato, per ragioni legate all’emergenza sanitaria da Covid-19, con decreto del Ministero dell’Interno, emanato di concerto con il Ministero della Salute.

Art. 4. Regolarizzazione

1. Il cittadino straniero dimorante sul territorio nazionale, ma privo di un tito­lo di soggiorno, può dichiarare entro il 30 Giugno 2020 la sua presenza al Que­store della provincia in cui dimora, e la sua volontà di regolarizzare il proprio status giuridico.

2. La dichiarazione di cui al comma 1 è effettuata con modalità telematiche de­finite dal Ministero dell’Interno.

3. Il Questore, verificata la sussistenza dei requisiti per l’ingresso in Italia di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, rilascia un permes­so di soggiorno per attesa occupazione.

4. Il permesso di cui al comma 3 è rilasciato in deroga ai requisiti di previa re­golarità del soggiorno, di perdita del posto di lavoro e di iscrizione ai Centri per l’Impiego di cui all’articolo 22, comma 11 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.

5. Per il rinnovo o la conversione del permesso di cui al comma 3 si applicano, in quanto compatibili, le norme di cui all’articolo 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e all’articolo 37 del Decreto Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394.

6. La ricevuta della dichiarazione di cui al comma 1, unitamente al passaporto dell’interessato in corso di validità, è titolo idoneo per l’iscrizione al Servizio Sa­nitario Nazionale.

 

Il Collettivo di Adif

Migranti e Covid-19, alcune proposte

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

La condizione di irregolarità in cui vivono molti migranti è da tempo insostenibile e inaccettabile, e lo è a maggior ragione nella fase di pandemia che stiamo vivendo in queste settimane. In primo luogo, la presenza di uomini e donne «invisibili», senza diritti, compromette la coesione sociale e rende più difficile l’attuazione delle misure di profilassi. In secondo luogo, l’irregolarità alimenta i circuiti del lavoro nero, grigio e sommerso, mette a repentaglio la sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolti, e genera un’imponente evasione contributiva. Infine, interi settori produttivi (come l’agricoltura) registrano serie carenze di manodopera, anche per il venir meno di quasi 1 milione di lavoratori stagionali provenienti dai paesi UE.

In una fase così straordinaria non si possono continuare a utilizzare gli strumenti ordinari di regolazione dei fenomeni migratori: tanto più che questi strumenti si sono rivelati lesivi dei diritti fondamentali, e spesso inefficaci rispetto ai loro (discutibili) scopi dichiarati.

Per questo, guardiamo con favore ai diversi appelli circolati in questi giorni (lanciati, ad esempio, da alcuni dirigenti sindacali, dai Radicali o dalla Campagna Ero Straniero) nei quali si propone una regolarizzazione degli stranieri che vivono nel nostro paese. In particolare, come Adif abbiamo aderito all’appello «Siamo Qui: Sanatoria Subito», sottoscritto da numerose associazioni, che chiede – in attesa di «un profondo ripensamento delle politiche migratorie» – l’avvio di una regolarizzazione «che abbia come unico presupposto la presenza in Italia a oggi».

Condividendo pienamente quest’ultima proposta, riteniamo utile suggerire alcune misure concrete, che potrebbero rappresentare – se attuate – un primo, tangibile risultato a beneficio degli uomini e delle donne migranti presenti in Italia, e che al contempo potrebbero «smuovere le acque» di un contesto politico e sociale in movimento. Avanziamo qui di seguito alcune proposte, che ovviamente potranno essere integrate da suggerimenti e valutazioni che cercheremo di recepire.

Moratoria su dinieghi, preavvisi di rigetto e revoche di titoli di soggiorno

Nel contesto di drammatica emergenza sanitaria che stiamo vivendo, molte Questure continuano a notificare preavvisi di rigetto, dinieghi e revoche dei permessi di soggiorno. Allo stesso modo, le Prefetture continuano a notificare i rifiuti delle richieste di protezione internazionale emessi dalle Commissioni Territoriali. Si tratta a nostro avviso di comportamenti irresponsabili e inaccettabili, lesivi – tra l’altro – dei diritti di difesa e di partecipazione al procedimento amministrativo (si ricorda che è molto difficile, nell’attuale situazione di isolamento in casa, trovare un avvocato). È dunque necessario e urgente sospendere, almeno fino al 15 Giugno prossimo, tutti i dinieghi, preavvisi di rigetto e tutte le revoche dei titoli di soggiorno: si tratterebbe di una misura coerente con le finalità del cosiddetto «decreto cura-Italia» (n. 18/2020), che all’articolo 103 prevede una proroga di tutti i permessi e di tutte le autorizzazioni in scadenza; la norma andrebbe opportunamente ampliata, o interpretata in modo estensivo.

Al tempo stesso, anche al fine di ridurre il contenzioso, si dovrebbe prevedere il riconoscimento d’ufficio di una protezione umanitaria a tutti coloro che hanno presentato istanza (anche reiterata) e che abbiano ricevuto un rifiuto, e a coloro che sono ancora in attesa di essere convocati per l’audizione in Commissione. Infine, è opportuno prorogare fino a 21 anni i permessi di soggiorno per minore età in scadenza.

Proroga visti o presenze per turismo e possibilità di conversione

Molti cittadini stranieri si trovano oggi in Italia con visti per turismo, oppure sono entrati in esenzione di visto, potendo soggiornare per un periodo massimo di tre mesi. Il citato «decreto cura-Italia» n. 18/2020 prevede all’articolo 103 che «tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti abilitativi comunque denominati, in scadenza tra il 31 Gennaio e il 15 Aprile 2020, conservano la loro validità fino al 15 Giugno 2020». Il visto turistico è da intendersi come un’autorizzazione, e rientra senz’altro in questa norma: si tratterebbe tuttavia di specificarlo, anche con circolare interpretativa. Sarebbe opportuno inoltre prevedere, almeno in questa fase di emergenza, la possibilità di convertire il soggiorno turistico (anche nei casi di esenzione del visto) in un permesso di soggiorno per inserimento stabile.

Iscrizione al Servizio Sanitario per tutti

Le Regioni non garantiscono un’adeguata assistenza sanitaria agli stranieri irregolari. Leggi il dossier Naga/Simm

È oggi quanto mai urgente garantire a tutti l’assistenza medica prevista dal Servizio Sanitario Nazionale. In teoria, anche i migranti irregolari possono accedere alle «cure urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative», come recita l’art. 35 comma 3 del Testo Unico Immigrazione; all’atto pratico, però, le Regioni non garantiscono un’effettiva assistenza a coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Come documenta una recente inchiesta condotta dal Naga e dalla Simm, in molti casi gli irregolari possono accedere solo ad ambulatori gestiti dal volontariato, o sono costretti ad andare al Pronto Soccorso: cosa, quest’ultima, che le linee guida emanate dal Ministero della Salute raccomandano esplicitamente di non fare in tempi di coronavirus. Vi sono infine i cittadini stranieri che soggiornano per motivi di turismo, che sono esclusi dall’accesso all’STP e non possono iscriversi al SSN.

In concreto, il Governo potrebbe emanare un decreto urgente che sospenda temporaneamente l’attuazione di alcune norme del Testo Unico, in particolare l’art. 34 comma 1 che subordina l’accesso al SSN alla regolarità del soggiorno. In via provvisoria, l’iscrizione al Servizio Sanitario dovrebbe essere garantita alle persone presenti a qualsiasi titolo sul territorio, indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno e dalla residenza anagrafica.

Ricordiamo che queste proposte sono attualmente il modo migliore per dare attuazione alle norme costituzionali in materia di diritti fondamentali, in particolare quelle di cui all’articolo 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo») e all’articolo 32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti»).

Negli 8 CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) attualmente in funzione risultavano presenti, alla data del 31 Marzo, 344 persone (fonte Garante per i detenuti). Pensiamo da sempre che il sistema CPR (come ogni altra forma di detenzione amministrativa) sia da abolire ma, mai come oggi, questo obiettivo si rende urgente.

L’Italia potrebbe far propria la raccomandazione del 26 Marzo scorso, con cui la Commissaria per i diritti umani al Consiglio d’Europa Dunja Mijatovic invitava a chiudere le strutture di detenzione e a bloccare qualsiasi nuovo ingresso. La circolare della Ministra dell’Interno Lamorgese, anch’essa del 26 Marzo, non segue affatto tali indicazioni, e prevede misure in molti casi impraticabili e insufficienti (tra cui l’isolamento di alcuni detenuti). La “sospensione” della libertà di circolazione nell’area Schengen rende ancor più priva di senso la detenzione amministrativa.

Da ultimo la chiusura biunivoca delle frontiere impedisce di rimpatriare gli irregolari, e rende quindi del tutto irrealistiche – oltre che illegittime per violazione dell’art. 15 della Direttiva 115/2008 – le misure di espulsione e il connesso trattenimento nei Cpr.

Per tale ragione si impone la necessità di sospendere anche formalmente tutte le espulsioni, e di chiudere tutti i CPR, garantendo sistemazione in accoglienza volontaria alle persone ad oggi trattenute. Chiediamo alle istituzioni che si utilizzi questo periodo di chiusura per rivedere radicalmente il tema delle espulsioni, le ragioni e le modalità con cui queste sono state finora, pressoché illegittimamente, eseguite.

Riesame delle domande di asilo, reintroduzione della protezione umanitaria

Oggi che è scoppiata anche in Italia la pandemia da COVID-19 e che le prospettive di ritorno nei paesi di origine sono comunque azzerate, a fronte della situazione di emergenza sanitaria che si vive nei CAS, più che nei centri SIPROIMI – ex SPRAR, e della chiusura di tutte le frontiere anche per le operazioni di rimpatrio forzato, chiediamo con forza provvedimenti amministrativi di riesame delle decisioni di diniego ed il rilascio a tutti i richiedenti di un permesso di soggiorno provvisorio, convertibile alla scadenza in un permesso per ricerca lavoro.

Occorre accelerare al massimo le procedure istruttorie ancora aperte, senza procedere ad ulteriori audizioni, per riconoscere a tutti coloro che sono arrivati in Italia in condizioni di minore età un permesso di soggiorno per integrazione sociale e per eliminare gli effetti perversi dell’applicazione retroattiva della legge n. 132 del 2018. Occorre anche una modifica legislativa che reintroduca l’istituto della protezione umanitaria, in attuazione di una previsione costituzionale (art. 10 Cost.), con la conseguente abrogazione, per la parte che la riguarda, della legge n. 132 del 2018. Occorre, infine, sospendere anche formalmente i trasferimenti previsti dal Regolamento Dublino.

Una regolarizzazione per «ricerca di lavoro»

Si propone una regolarizzazione non immediatamente vincolata ad un rapporto di lavoro, né ad un’offerta di impiego (requisiti che difficilmente possono venir soddisfatti in un periodo di pandemia): una regolarizzazione «per ricerca di lavoro», dunque, il cui esito potrebbe essere il rilascio del permesso di soggiorno «per attesa occupazione» di cui all’articolo 22 comma 11 del Testo Unico Immigrazione. In considerazione della straordinaria situazione economica e sanitaria, non sarebbero richiesti – ai fini del rilascio di tale documento – i due requisiti indicati nel Testo Unico: la previa titolarità del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, e la perdita del posto di lavoro.

Come previsto dalla legge, il permesso così rilasciato avrebbe validità di un anno (eventualmente rinnovabile ai sensi della Circolare del Ministero dell’Interno prot. n. 0040579 del 03-10-2016), e dovrebbe – alla scadenza – poter essere convertito in altro permesso, qualora lo straniero ne abbia i requisiti.

Le domande di regolarizzazione dovrebbero essere inviate in forma telematica, mediante il Portale Nulla-Osta, il sito Cupa Project, o con altro strumento. La ricevuta dell’istanza, unitamente al passaporto, potrebbe valere come titolo di soggiorno provvisorio, valido anche per svolgere attività lavorativa ed ottenere la residenza anagrafica.

Adif- Associazione Diritti e Frontiere

9 Aprile 2020

La regolarizzazione: necessaria, ma non sufficiente

Originariamente pubblicato sul sito di Adif- Associazione Diritti e Frontiere

È circolato in questi giorni un appello, sottoscritto da numerose associazioni e realtà della società civile, che chiede una regolarizzazione degli immigrati sans papiers presenti in Italia.

Come ricordano i firmatari, la Camera dei Deputati aveva approvato il 23 Dicembre scorso un ordine del giorno in cui si chiedeva al Governo di «valutare l’opportunità di (…) un provvedimento (…) [di] regolarizzazione dei cittadini stranieri irregolari»: una formula molto cauta, a cui aveva fatto seguito una dichiarazione della Ministra Lamorgese altrettanto prudente, ma pur sempre di apertura («l’intenzione del Governo (…) è quella di valutare le questioni poste dall’ordine del giorno (…), nel quadro più generale di una complessiva rivisitazione delle (…) politiche migratorie»). A queste prime, timidissime dichiarazioni non è seguito però alcun passo concreto, e anche il dibattito pubblico sul tema si è presto ridotto al silenzio.

La regolarizzazione: un provvedimento necessario…

Eppure, un provvedimento di regolarizzazione è ormai urgente e non più procastinabile. È urgente soprattutto per quelle decine di migliaia di cittadini stranieri che soggiornano in Italia, e che sono attualmente condannati ad una condizione permanente di invisibilità. Bisogna ricordare infatti:

  1. che la normativa proibisce in linea di principio (salvo pochissime eccezioni) l’emersione di uno straniero irregolare, anche in presenza di un datore di lavoro disposto ad assumere;
  2. che coloro che entrano nel nostro paese con un visto turistico, valido per tre mesi, non possono ottenere un permesso di soggiorno per lavoro;
  3. che le quote annuali di ingresso – uno strumento che per alcuni anni aveva consentito una modalità sia pur tortuosa e impropria di regolarizzazione – sono state azzerate a partire dal 2012, con il risultato che oggi le frontiere sono chiuse agli ingressi per lavoro;
  4. che, infine, i decreti Salvini hanno di fatto smantellato il sistema di asilo, e hanno condannato all’irregolarità migliaia di richiedenti.

In pratica, chi oggi non ha un permesso di soggiorno non ha alcuna possibilità di ottenerlo: è evidente che una situazione del genere non è sostenibile. Da questo punto di vista, un provvedimento di regolarizzazione è assolutamente urgente e necessario: oltretutto una misura di questo tipo – come ha osservato la Campagna «Ero Straniero» ­ comporterebbe notevoli benefici per l’economia nazionale, e per lo stesso bilancio dello Stato.

Infine, nel drammatico periodo di emergenza pandemica che stiamo vivendo, un provvedimento di regolarizzazione aiuterebbe a far emergere le molte situazioni di marginalità abitativa, lavorativa e sociale in cui vivono i migranti irregolari. Hanno dunque ragione i firmatari dell’appello, quando dicono che «il tema (…) non può essere accantonato e rimandato a tempi migliori; anzi, diventa ancor più rilevante e urgente nella contingenza che ci troviamo ad attraversare».

… ma non sufficiente

Chiudere i Centri per il Rimpatrio
Leggi l’appello delle associazioni

Se però si guarda all’emergenza dettata dalla pandemia, un provvedimento di regolarizzazione appare certo necessario, ma non sufficiente. E ciò per almeno due motivi.

In primo luogo, perché una regolarizzazione incide sullo status giuridico delle persone straniere (cioè sulla regolarità del loro soggiorno), e non tutti i problemi posti dall’epidemia sono riconducibili allo status. Per fare solo un esempio, vi sono migliaia di richiedenti asilo perfettamente regolari, che vivono in strutture di accoglienza sovraffollate dove è molto alto il pericolo di contagio: in questo caso, il problema non è il permesso di soggiorno, ma la condizione abitativa in cui queste persone si trovano a vivere.

In secondo luogo perché – come vedremo tra un attimo – i tempi inevitabilmente lunghi di una «sanatoria» non consentirebbero di affrontare le urgenze connesse alla diffusione del Covid-19.

Svuotare i CPR, chiudere i centri di accoglienza sovraffollati

Sono dunque necessari provvedimenti che impediscano il diffondersi del virus in situazioni di sovraffollamento. Proprio in questi giorni, alcune associazioni hanno avanzato alcune proposte concrete, che andrebbero attuate immediatamente. Qui di seguito elenchiamo le più significative:

  • Chiusura di tutti i Centri di Accoglienza Straordinaria di media e grande dimensione, e ricollocazione degli ospiti in un sistema di accoglienza diffusa;
  • Accesso alle strutture Siproimi (ex Sprar) anche per i titolari di permessi di soggiorno attualmente esclusi (motivi umanitari, casi speciali regime transitorio, protezione speciale, richiesta di asilo etc.);
  • Proroga, almeno fino al 30 Aprile 2020, delle misure di «emergenza freddo», in modo da garantire un adeguato alloggio alle persone senza fissa dimora;
  • Sospensione dei provvedimenti di cessazione/revoca dell’accoglienza, nonché riammissione nelle strutture di coloro che ne sono stati allontanati;
  • Immediata sospensione di ogni nuovo ingresso nei CPR (centri per il rimpatrio) e, per tutti i migranti già trattenuti, attuazione delle misure alternative al trattenimento (come richiesto anche da una lettera aperta inviata al Ministero, il 12 Marzo scorso, da decine di avvocati e associazioni).

Perché la regolarizzazione non basta

Quanto ai provvedimenti che attengono allo status giuridico dei migranti, la regolarizzazione deve accompagnarsi ad altre misure che tengano conto dell’urgenza in cui stiamo vivendo. Per quanto si possano accellerare i tempi, infatti, una «sanatoria» richiederebbe mesi prima di concludersi: sarebbe necessario prevedere una prima fase di inoltro delle domande, poi la relativa valutazione da parte delle Questure, infine la consegna materiale dei permessi ai richiedenti.

Queste procedure rischierebbero di subire ritardi proprio a causa della pandemia. Se la fase di invio delle domande può essere affidata senza troppi problemi a strumenti informatizzati (come già accade, ad esempio, per le richieste di ricongiungimento familiare e di concessione della cittadinanza), per la consegna dei documenti è necessaria la presenza fisica dell’interessato: ed è difficile pensare di questi tempi a lunghe file in Questura per il ritiro dei permessi di soggiorno. Tra l’altro, lo straniero dovrebbe recarsi in Questura anche per le impronte digitali, obbligatorie per legge (Testo Unico Immigrazione, art. 5, comma 2-bis).

Nel periodo tra la presentazione delle domande e la conclusione della regolarizzazione, gli stranieri disporrebbero inoltre di una semplice ricevuta. Se questa ricevuta fosse in formato Pdf (come accade oggi per le procedure informatizzate del ricongiungimento e della cittadinanza), difficilmente potrebbe valere come documento sostitutivo del permesso di soggiorno. Si tratterebbe infatti di un file che non avrebbe i requisiti per costituire un documento di identificazione (DPR 445/00, art. 1 lettera d), a meno che non si trovi il modo di includervi la fotografia dell’interessato: cosa tecnicamente non facile da fare in tempi brevi.

Infine, per quanto le maglie di una «sanatoria» possano essere larghe, è ovvio che si debbano prevedere requisiti minimi di accesso (nelle regolarizzazioni del passato era richiesto di solito un contratto di assunzione o un’offerta di lavoro). Chi non avesse tali requisiti resterebbe comunque al di fuori: e vi sono alcune misure di prevenzione del Covid-19 che debbono essere applicate alla totalità della popolazione, senza distinzioni di status.

Cosa si dovrebbe fare, oltre alla «sanatoria»

La regolarizzazione, dunque, è un provvedimento importante, che però nell’attuale fase di emergenza deve essere accompagnato da altre misure. In particolare, è assolutamente indispensabile sospendere, almeno in via temporanea, il legame tra il permesso di soggiorno e l’accesso a determinati diritti e servizi.

Il problema riguarda in primo luogo l’alloggio: secondo l’art. 40 del Testo Unico Immigrazione, tutti i servizi di carattere abitativo (case popolari, alloggi di emergenza, centri collettivi etc.) sono riservati esclusivamente agli immigrati regolari. Prima del 2002, la legge consentiva ai Sindaci – qualora vi fossero particolari «situazioni di emergenza» – di alloggiare anche stranieri «non in regola con le disposizioni sull’ingresso e sul soggiorno», ma questa clausola fu abrogata dalla legge Bossi-Fini. Oggi, con lo sguardo retrospettivo di un’epoca che sta affrontando davvero una «situazione di emergenza», si vedono gli effetti sciagurati di norme così inutilmente vessatorie: eppure, ci dissero all’epoca, la Bossi-Fini serviva per tutelare «la nostra sicurezza»…

Con questa norma, è difficile oggi – se non impossibile – trovare una sistemazione dignitosa e sicura ai tanti cittadini stranieri che si trovano in condizioni di precarietà abitativa: dai braccianti che vivono nelle baraccopoli agricole del Sud, ai rom costretti nei «campi nomadi» informali, fino agli irregolari che alloggiano in sistemazioni di fortuna nelle periferie delle grandi città.

Le Regioni non garantiscono un’adeguata
assistenza sanitaria agli irregolari.
Leggi il dossier Naga/Simm

Ma il problema riguarda anche l’assistenza sanitaria. Perché è vero che, in teoria, anche i migranti irregolari possono accedere alle «cure urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative», come recita l’art. 35 comma 3 del Testo Unico Immigrazione; ma è altrettanto vero che, all’atto pratico, le Regioni non garantiscono un’effettiva assistenza sanitaria a coloro che non hanno il permesso di soggiorno. Come documenta una recente inchiesta condotta dal Naga e dalla Simm, in molti casi gli stranieri irregolari possono accedere solo ad ambulatori gestiti dal volontariato, o sono costretti ad andare al Pronto Soccorso per avere qualunque forma di assistenza, anche la più banale: cosa, quest’ultima, che le linee guida emanate dal Ministero della Salute raccomandano esplicitamente di non fare in tempi di coronavirus.

Una proposta concreta

In concreto, il Governo potrebbe emanare un decreto urgente che sospenda temporaneamente la validità di alcune norme del Testo Unico, come l’art. 34 comma 1 (accesso al Servizio Sanitario Nazionale per gli stranieri regolarmente soggiornanti), l’art. 40 (accesso agli alloggi sociali e di emergenza abitativa, sempre per gli stranieri regolari) e l’art. 41 (accesso alle prestazioni del servizio sociale riservato ai titolari di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno). In via provvisoria, tutti questi servizi (alloggio, provvidenze sociali, iscrizione al SSN ecc.) dovrebbero essere garantiti alle persone presenti a qualsiasi titolo sul territorio, indipendentemente dalla titolarità di un permesso di soggiorno e dalla residenza anagrafica.

La sospensione temporanea di alcune norme, peraltro, non sarebbe una novità assoluta nelle politiche migratorie del nostro paese. Ad esempio, da anni ormai i cittadini stranieri non possono utilizzare le autocertificazioni nelle procedure relative all’immigrazione. C’è una legge secondo cui possono farlo, ma la validità di questa legge è per l’appunto sospesa, e da tempo la «sospensione» viene prorogata di anno in anno, nel classico provvisorio che diventa definitivo. Se il governo lo ha fatto sulle autocertificazioni, perché non dovrebbe farlo per una questione assai più importante, e cioè la tutela della salute in un periodo di epidemia?

Sergio Bontempelli

La sanatoria che (forse) verrà

Originariamente pubblicato su Africa – Corriere delle Migrazioni

In mezzo a mille cattive notizie, l’anno 2020 sembra cominciare almeno con un buon auspicio: il 15 gennaio, rispondendo a un’interrogazione del deputato radicale Riccardo Magi, la ministra dell’Interno ha spiegato alla Camera che «l’intenzione del governo è quella di valutare le questioni poste dall’ordine del giorno approvato il 23 dicembre scorso».
Per chi abbia seguito il dibattito di questi mesi il riferimento è chiaro: il 23 dicembre scorso la Camera aveva approvato un ordine del giorno che parlava esplicitamente di una regolarizzazione degli immigrati presenti in Italia senza documenti. Le parole di Lamorgese significano che il governo sta valutando l’ipotesi di una «sanatoria». Non è ancora una buona notizia, ma è appunto un buon auspicio [qui il resoconto integrale della discussione].

Un provvedimento ancora da costruire. In effetti, sono moltissimi gli stranieri che sperano in una prossima regolarizzazione. Nel dibattito pubblico si parla quasi esclusivamente di quei migranti che, con l’abolizione dei permessi umanitari, si sono visti rifiutare la domanda di asilo (il permesso umanitario era appunto una delle più diffuse tipologie di asilo): ma la platea dei potenziali beneficiari è assai più ampia.
Con la crisi economica, per esempio, molti lavoratori stranieri regolari sono stati licenziati, non sono riusciti a trovare un nuovo impiego e di conseguenza non hanno potuto rinnovare i loro permessi di soggiorno. Ci sono poi gli immigrati giunti in Italia con un semplice visto turistico, che hanno trovato un impiego ma non hanno potuto mettersi in regola (le leggi vietano la trasformazione di un visto turistico in un permesso per lavoro).
L’elenco potrebbe continuare a lungo: con le norme in vigore è assai difficile – e spesso addirittura impossibile – entrare in Italia o rimanerci legalmente, e perciò il numero di irregolari è cospicuo, anche se difficile da quantificare (le stime in questo campo, è bene ricordarlo, non hanno alcuna affidabilità).

Già in queste ore, dunque, l’annuncio di Lamorgese sta suscitando speranze e attese: come si potrà accedere a questa nuova regolarizzazione? Quali requisiti saranno necessari? Chi potrà fare la richiesta e ottenere il sospirato permesso di soggiorno? È bene sapere che a queste domande non è possibile dare una risposta: la regolarizzazione non c’è, perché non è stata approvata nessuna legge, e dunque non vi sono «requisiti» da soddisfare.

L’ordine del giorno approvato dalla Camera il 23 dicembre formula due possibili proposte. Una prima ipotesi è quella di mettere in regola gli stranieri che già lavorano «al nero», a patto che siano gli stessi datori di lavoro ad autodenunciarsi (cioè a dichiarare di aver assunto un immigrato). Una seconda ipotesi è quella di concedere un permesso di soggiorno allo straniero qualora un’azienda (o una famiglia nel caso dei domestici) sia disposta ad assumerlo. I datori di lavoro dovrebbero pagare un contributo di 200 euro per ogni lavoratore regolarizzato. Si tratta, beninteso, soltanto di ipotesi, che potrebbero anche cambiare nel corso del tempo, ma che ci consentono almeno di avanzare una prima riflessione.

È necessaria una soluzione di compromesso. Non è un mistero che il clima politico sia complessivamente ostile a un provvedimento di regolarizzazione. Proprio in queste ore, giornali e partiti della destra si stanno scatenando contro quella che già chiamano la «maxi-sanatoria» (!), e c’è da scommettere che anche all’interno della maggioranza i pareri siano per lo più negativi. La stessa ministra Lamorgese è apparsa assai cauta, e si è limitata a dire che il governo «sta valutando»: come a dire che anche a Palazzo Chigi ci sono riserve e perplessità.
In un clima così ostile, è fin troppo ovvio che ottenere una regolarizzazione è – e resta – un obiettivo difficile. Ancor più difficile è far approvare un provvedimento che consenta davvero l’emersione di migliaia di cittadini stranieri irregolari: il rischio è che, in mezzo a mille «veti» e «paletti», si arrivi a una legge che non serve a nulla. Non sarebbe la prima volta che accade una cosa del genere.
Da questo punto di vista, chi – come l’onorevole Magi – ha avuto il coraggio di avviare una trattativa, si trova di fronte a un compito delicatissimo. Si tratta, in sostanza, di «far pesare» nel dibattito politico le molte voci della società civile – Chiese, associazioni, sindacati, ma anche piccole e medie imprese e importanti settori produttivi – che chiedono politiche più realistiche in materia di lavoratori stranieri; al contempo, si tratta di arrivare a un compromesso accettabile, perché è ovvio che in questo clima politico non è pensabile di ottenere la «regolarizzazione perfetta» (ammesso poi che esista, una regolarizzazione perfetta…). Vediamo di spiegarci con un paio di esempi.

Una prima trappola: l’autodenuncia del datore di lavoro. Come abbiamo visto, l’ordine del giorno del 23 dicembre propone di regolarizzare gli stranieri sulla base di una «autodenuncia» dei datori di lavoro: è una procedura che conosciamo bene, perché ha caratterizzato tutte le «sanatorie» degli scorsi anni, a partire dalla Bossi-Fini del 2002. Significa, in sostanza, che non è l’immigrato che chiede di regolarizzarsi: solo il datore di lavoro può presentare una domanda di «emersione».
Nelle scorse sanatorie, molte aziende si rifiutarono però di denunciare i loro rapporti di lavoro al nero, anche per la paura di possibili conseguenze legali. Nel provvedimento del 2012, per dire, se la procedura non andava a buon fine (se cioè la domanda non veniva accettata), il datore di lavoro poteva essere denunciato per aver assunto un irregolare: questo rischio indusse molti a non presentare la domanda, e la sanatoria si rivelò un vero e proprio “flop”.
L’ideale sarebbe garantire agli stessi migranti il diritto di richiedere la regolarizzazione: sarebbe la procedura più logica, e anche quella più garantista. Se ciò non fosse possibile – se cioè un provvedimento di questo genere incontrasse troppe resistenze –, sarebbe meglio approvare la seconda ipotesi avanzata dall’ordine del giorno del 23 dicembre: quella di regolarizzare gli immigrati non in base a un rapporto di lavoro già esistente, ma a fronte di una proposta di assunzione.

La seconda trappola: la «tassa» sulla regolarizzazione. Un secondo punto riguarda la «tassa» di 200 euro per accedere alla procedura. Sembra evidente che una misura di questo genere sia stata proposta soprattutto per vincere le prevedibili resistenze delle burocrazie ministeriali (e di una parte del mondo politico): in questo modo, infatti, il provvedimento di regolarizzazione avrebbe il non trascurabile effetto di garantire cospicui introiti per lo Stato.
Anche in questo caso, nulla di nuovo sotto il sole: quasi tutte le sanatorie degli anni passate prevedevano una qualche forma di «contributo» a carico dei richiedenti. E proprio dall’esperienza degli scorsi decenni abbiamo imparato una cosa: benché in teoria fossero i datori di lavoro a dover sborsare il contributo, all’atto pratico l’onere è ricaduto quasi sempre sulle spalle dei migranti. Il meccanismo, prevedibilissimo, consisteva in una sorta di scambio: io, datore di lavoro, accetto benevolmente (si fa per dire…) di presentare la domanda di regolarizzazione in tuo favore, ma tu in cambio paghi il contributo al posto mio.
Tener conto di questo meccanismo è importante, perché è necessario evitare che i migranti si indebitino (e magari finiscano nelle mani di strozzini e usurai) per accedere alla procedura. L’ideale sarebbe di non prevedere nessun contributo monetario: in fin dei conti – secondo alcune stime – anche senza la «tassa» la regolarizzazione porterebbe nelle casse dello Stato la bellezza di 1 miliardo di nuove entrate fiscali e di 3 miliardi di maggiori contributi previdenziali.
Infine, si dovrebbe evitare lo stillicidio di requisiti «ostativi» (che impediscono cioè di accedere alla procedura di regolarizzazione). In alcune sanatorie precedenti, ad esempio, si cercò di introdurre la regola per cui uno straniero destinatario di espulsione non poteva presentare la domanda: il che è una contraddizione in termini, perché qualsiasi irregolare può essere vittima di una espulsione.
Insomma, sarebbe necessario un provvedimento realistico, che consenta effettivamente l’emersione degli irregolari. La strada è difficile, ma una porta si è aperta.

(Sergio Bontempelli)

Per approfondire leggi anche:

L’ordine del giorno approvato alla Camera il 23 Dicembre 2019

Il testo dell’interrogazione alla Camera dell’on. Riccardo Magi, Radicali Italiani

La discussione alla Camera, 15 Gennaio 2020 (vedi anche estratto sulla regolarizzazione)

 

Sanatoria flop

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione

Mentre scriviamo questo articolo, mancano poche ore alla conclusione della sanatoria (le domande si possono presentare entro la giornata del 15 Ottobre). Ma è già tempo di bilanci, e per il governo il rendiconto si presenta assai magro: alla giornata di venerdì, risultavano inviati al Ministero poco più di 100.000 moduli, per la precisione, 106.194 (a sanatatoria chiusa sono risultati 134.576).

Un vero e proprio flop, da qualunque punto di vista lo si analizzi. Le domande del 2012 sono circa un terzo di quelle della regolarizzazione del 2009 (295.112), poco più di un settimo di quelle relative alla sanatoria del 2002 (701.906), e circa un quarto di quelle dell’ultimo decreto flussi (411.117).
Il fallimento è evidente anche se si considerano le stime della presenza irregolare. Secondo una recente indagine dell’European Migration Network, gli irregolari in Italia sarebbero circa mezzo milione: se questa cifra fosse realistica – ed è noto che dati del genere sono approssimati per difetto – solo un quinto dei potenziali beneficiari della “sanatoria” sarebbe riuscito a presentare la domanda.

Certo, è probabile che nella giornata di lunedì si registri una piccola “impennata”: ritardatari e indecisi potrebbero fare la differenza, e il numero di domande potrebbe crescere anche in misura rilevante. E’ difficile però che si inverta la tendenza di fondo: per la prima volta negli ultimi venti anni, una “sanatoria” per immigrati irregolari si rivela un fallimento.

Le ragioni del flop
Come spiegare tutto questo? Certo, un ruolo può averlo giocato la crisi economica: le aziende chiudono, i lavoratori vengono mandati a casa, e anche i settori che impiegano manodopera irregolare sono in sofferenza. La legge era pensata proprio per mettere in regola i lavoratori, coloro che erano impiegati “al nero” presso aziende o famiglie: gli immigrati irregolari disoccupati non potevano invece accedere alla procedura.

E tuttavia, la crisi non basta a spiegare quel che è successo. Perché un ruolo decisivo è stato giocato dai requisiti irrealistici previsti dalla legge. Come abbiamo scritto su questo stesso giornale, la sanatoria era riservata a datori di lavoro molto ricchi e molto generosi. Ricchi, perché per poter fare domanda era necessario disporre di redditi relativamente alti (dai 20 ai 30.000 euro annui a seconda dei casi). Generosi, perché l’accesso alla procedura aveva costi proibitivi: tra “contributo forfetario” (le famose 1.000 euro), arretrati dovuti all’Inps, oneri fiscali e trattenute, la cifra minima per poter regolarizzare un lavoratore si aggirava sulle 2-3mila euro.

Non solo. Ai lavoratori veniva richiesto un requisito impossibile: loro, i “clandestini” – quelli che per definizione si nascondono allo sguardo di polizie ed enti pubblici – dovevano esibire una “prova” della loro presenza in Italia, certificata nientemeno che… da un ente pubblico. Per poter fare domanda, bisognava dunque essere così “fortunati” da aver avuto una precedente espulsione, o un ricovero ospedaliero.
Solo all’ultimo tuffo, un “provvidenziale” parere dell’Avvocatura dello Stato aveva allargato un po’ le maglie, riconoscendo come “prove” anche le schede sim dei cellulari, o gli abbonamenti ai mezzi pubblici. Troppo tardi e troppo poco.

Servono norme realistiche
La vicenda della sanatoria 2012 è in questo senso emblematica. Da tempo le normative sull’immigrazione chiedono requisiti impossibili. Per entrare in Italia, l’aspirante lavoratore straniero deve disporre, prima ancora della sua partenza, di un datore di lavoro che effettui una vera e propria “assunzione a distanza” in suo favore. E quale datore deciderà di assumere una persona mai vista, che abita a migliaia di chilometri?
Per poter richiedere un “ricongiungimento familiare” – cioè per chiamare in Italia un proprio parente – l’immigrato deve disporre di un “alloggio idoneo”, cioè abbastanza grande, non sovraffollato e conforme alle normative igienico-sanitarie: un requisito che spesso nemmeno i lavoratori italiani sono in grado di soddisfare…

L’elenco potrebbe continuare a lungo: per entrare in Italia, avere un permesso di soggiorno, chiamare un parente o rinnovare i documenti, gli immigrati sono costretti ad esibire requisiti improbabili, irrazionali, spesso impossibili o contraddittori. La sanatoria 2012 non è che l’ultimo esempio di questi meccanismi di “burocrazia infernale”: la speranza è che proprio il suo clamoroso fallimento spinga i decisori politici ad un ripensamento complessivo delle politiche migratorie.

Servirebbero meccanismi ragionevoli e aderenti alla realtà: una “sanatoria”, per esempio, dovrebbe servire a mettere in regola chi lavora, non chi ha la fortuna di avere un datore “ricco e generoso”, o chi per puro caso si è dovuto ricoverare in ospedale nell’anno 2011…

Qualche interrogativo: come cambia l’immigrazione in Italia?
In mezzo a questo caos, spiccano alcuni dati che meriterebbero un’analisi più approfondita. Ci si riferisce qui, in particolare, alle nazionalità dei lavoratori per cui sono state presentate le domande: scorrendo la “graduatoria” delle prime dieci, si hanno infatti diverse conferme e qualche sorpresa.

Al primo posto – con circa 13.000 domande – ci sono i lavoratori provenienti dal Marocco: un flusso migratorio da sempre importante per l’Italia, che non si è mai esaurito e che si dimostra ancora molto attivo. L’Ucraina, da almeno un decennio luogo di origine di molte lavoratrici domestiche, occupa il terzo posto, con più di 10.000 domande.

Ma in cima alla graduatoria troviamo anche nazionalità relativamente “nuove”: Bangladesh, Egitto, Pakistan. I numeri sono modesti, ed è difficile trarre conclusioni certe da questi dati: ma la prima impressione è che qualcosa stia cambiando nella composizione dei flussi diretti verso il nostro paese. Le “grandi migrazioni” – le decine di migliaia di cittadini rumeni arrivati all’inizio del nuovo millennio, o il rilevante flusso di lavoratori albanesi negli anni novanta – sembrano lasciare il posto a fenomeni più contenuti sul piano numerico, ma che modificano la realtà dell’immigrazione nel nostro paese. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli

Sanatoria migranti, solo per ricchi e generosi

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione, poi ripubblicato su Globalist

Esisterà davvero qualcuno in grado di presentare istanza per la nuova regolarizzazione? La domanda sembra provocatoria, ma non lo è: perché i requisiti richiesti sono davvero proibitivi, e sembrano costruiti apposta per scoraggiare i “regolarizzandi”. Per come è stata congegnata, infatti, la procedura sembra riservata a datori di lavoro molto ricchi, e anche molto generosi (disponibili cioè a versare migliaia di euro pur di mettere in regola i propri lavoratori…). In più, questi stessi datori devono avere assunto migranti irregolari abbastanza sfortunati da aver avuto un foglio di via, o un ricovero ospedaliero, nel corso del 2011. Requisiti che difficilmente ricorrono tutti insieme. Ma proviamo ad andare con ordine, e a farci un’idea di come funziona il tutto.

Chi può fare la domanda

Dopo un mese e mezzo di silenzio, il Governo ha finalmente varato, il 7 settembre, il decreto attuativo che spiega – o che dovrebbe spiegare – le procedure della sanatoria; insieme al decreto, è uscita una circolare interministeriale che entra – o dovrebbe entrare – nei dettagli più tecnici e controversi. In realtà, come vedremo tra un attimo, molti punti restano oscuri: per questo il condizionale è d’obbligo.

Per ora sappiamo poche cose. Sappiamo che potranno far domanda i datori di lavoro, e solo loro: gli immigrati irregolari – cioè i “diretti interessati” – non potranno procedere autonomamente alla richiesta di regolarizzazione. Sappiamo anche che potranno far domanda coloro che abbiano assunto irregolarmente lavoratori stranieri almeno tre mesi prima dell’entrata in vigore della legge – quindi dal 9 maggio 2012 – e che abbiano ancora in corso il rapporto di lavoro. I datori possono essere famiglie (per il lavoro domestico), oppure ditte (per qualunque tipo di impiego subordinato), e il rapporto di lavoro può essere a tempo indeterminato o determinato. Non è ammesso invece il part-time, e solo per i domestici è possibile un’assunzione per un minimo di 20 ore settimanali. Possono accedere alla procedura anche i datori stranieri, purché abbiano la cosiddetta “carta di soggiorno” (va bene sia la carta plastificata dei lungo-soggiornanti, sia il documento cartaceo dei famigliari di cittadini europei).

Sappiamo, infine, che non tutti possono partecipare alla regolarizzazione: ne sono esclusi i lavoratori e i datori di lavoro condannati per alcuni tipi di reato (anche se hanno patteggiato), e i datori che, nelle precedenti sanatorie o nei decreti flussi, abbiano presentato domanda ma non siano andati in prefettura per la firma del contratto di soggiorno. Fin qui, le regole somigliano a quelle in vigore per le precedenti regolarizzazioni. Vi sono però almeno tre elementi che rendono molto difficile partecipare alla procedura. Vediamoli brevemente.

I costi

Il primo problema è relativo al costo della regolarizzazione. Il datore di lavoro deve pagare 1.000 euro all’atto di presentazione della domanda. In più, se l’iter burocratico si conclude positivamente (a decidere è la prefettura), il datore deve regolarizzare la sua posizione retributiva, fiscale e contributiva relativa ad almeno 6 mesi: il che significa, in soldoni, altre centinaia o migliaia di euro, a seconda della tipologia di lavoro e dei relativi oneri. Come altre volte è accaduto, queste cifre – teoricamente a carico del datore di lavoro – verranno, di fatto, pagate dagli stessi migranti: ma quale straniero irregolare può permettersi un esborso così oneroso?

Il reddito del datore di lavoro

Come si accennava, solo i datori di lavoro ricchi potranno permettersi di far domanda: non solo per gli alti costi della procedura, ma anche perché il regolamento attuativo richiede ai datori un reddito annuale molto elevato. Per le ditte, il reddito o il fatturato deve essere di 30.000 euro l’anno.

Per il lavoro domestico, il reddito minimo è fissato in 20.000 euro l’anno, se nella famiglia vi è una sola persona che percepisce un reddito, e in 27.000 euro “in caso di nucleo familiare (…) composto da più soggetti conviventi”. Qui sembra che ci sia un errore: evidentemente si vuol dire che i 27.000 euro sono necessari non quando la famiglia è composta da più persone, ma quando diverse persone lavorano e percepiscono un reddito. Per fare un esempio semplice, prendiamo una famiglia con moglie, marito e due figli. Se lavora solo il marito, la famiglia può fare domanda se il reddito è di almeno 20.000 euro l’anno. Se lavora anche la moglie la cifra sale a 27.000 euro (ma in questo caso si somma il Cud della moglie con quello del marito).

Infine, non serve il reddito se il datore è “affetto da patologie o handicap che ne limitano l’autosufficienza”. In questo caso, serve naturalmente idonea certificazione medica.

La “prova di presenza”

Ma la norma più vessatoria è quella che riguarda la cosiddetta “prova di presenza”. La domanda di regolarizzazione può essere infatti presentata solo se il lavoratore straniero è presente in Italia, senza interruzione, almeno dal 31 dicembre 2011. Il richiedente deve presentare idonea documentazione che dimostri la presenza in Italia, e questa documentazione è valida solo se proveniente da organismi pubblici.

Ma se lo straniero era irregolare quale ente pubblico può certificare la sua presenza in Italia? Essendo privo di permesso di soggiorno, l’immigrato non poteva andare negli uffici (con il reato di clandestinità rischiava addirittura una denuncia). In queste condizioni, le uniche “prove” valide sono i decreti di espulsione, o al massimo i ricoveri ospedalieri (ricordiamo che gli irregolari hanno diritto all’assistenza sanitaria).

Il decreto non ha specificato nulla sulla “prova di presenza”, e permangono molti dubbi. Ad esempio, una Ambasciata straniera può essere considerata un “ente pubblico”? Se la risposta è positiva, anche un passaporto fatto in Italia può valere come prova. Ma su questi aspetti non c’è chiarezza.

Il rischio delle truffe: qualche consiglio pratico

Bastano queste brevi osservazioni per capire le difficoltà insite nel provvedimento. Una norma così complessa apre spazi per numerose truffe, già viste nelle scorse sanatorie: dai datori di lavoro fasulli ai fornitori di false “prove di presenza”, fino alle tante agenzie che promettono di “oliare” le pratiche, così lunghe e difficili, presso gli Uffici competenti.

È anche per aggirare queste truffe che è opportuno agire con qualche cautela. Il nostro consiglio è quello di non affidarsi ad agenzie o “mediatori” che promettono miracoli, ma di farsi assistere da un’associazione o da un ente accreditato.

Suggeriamo inoltre di attendere qualche giorno prima di pagare le 1.000 euro, o di presentare domanda: è probabile infatti che nelle prossime settimane il Ministero chiarisca i punti più oscuri, o addirittura che “ammorbidisca” un po’ le norme più irrealistiche. La procedura è aperta fino al 15 ottobre, e arrivare primi non serve a nulla: meglio far domanda quando le cose saranno più chiare. Vi terremo comunque aggiornati.

Sergio Bontempelli

9 Settembre 2012

© 2025 Sergio Bontempelli

Theme by Anders NorenUp ↑