Diritti dei migranti e antirazzismo

Tag: romania

Benvenuti in Romania

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Premiata da AdStar la contro-campagna di Gândul, che ridicolizzava il governo inglese e il suo battage pubblicitario antiromeni.

Ne avevamo parlato, tempo fa, su Corriere Immigrazione: il governo inglese aveva pensato, all’inizio di quest’anno, di lanciare una vera e propria campagna pubblicitaria di “dissuasione” rivolta agli aspiranti immigrati dell’est Europa, Romania e Bulgaria in particolare.

La campagna, da promuovere sia sul suolo britannico sia nei paesi di origine, doveva mettere in risalto gli aspetti negativi della scelta di emigrare, in modo da correggere l’impressione – così si diceva nel Gabinetto Cameron – «che qui [in Gran Bretagna] le strade sono lastricate d’oro».

Già allora, l’idea era stata coperta di ridicolo. I lettori del Guardian, ad esempio, avevano letteralmente sommerso il sito web del quotidiano con slogan ironici, che ribaltavano il senso della campagna ideata dal Governo: «recessione? Abbiamo appena iniziato», «vieni in Inghilterra: non finisce mai di piovere», e così via.

Poche settimane più tardi, è arrivata la risposta dei “diretti interessati”, cioè dei rumeni. Il quotidiano Gândul («il pensiero»), uno dei più prestigiosi del paese, lanciava una contro-campagna, invitando gli inglesi a far visita alla Romania, e magari a trasferirsi in qualche bel villaggio della Transilvania.

L’iniziativa, intitolata «Why don’t you come over» («perché non ci venite a trovare»), e suggellata dallo slogan «a noi potrebbe non piacere l’Inghilterra, ma voi finirete per amare la Romania», si articolava in una serie di cartelli pubblicitari, tutti sul filo dell’ironia, finalizzati a incoraggiare il trasferimento dei sudditi britannici nel paese neolatino. E il sito della campagna, rigorosamente in inglese, conteneva persino una sezione di “offerte di lavoro”, per allettare ulteriormente i potenziali “ospiti”.

Mentre la bizzarra idea di Cameron e soci sembra essere stata abbandonata, il sarcasmo del Gândul ha avuto un seguito: proprio in questi giorni, la campagna ideata dal giornale romeno è stata premiata da AdStars, uno dei più prestigiosi festival di marketing e pubblicità del mondo. Un po’ come dire «sarà una risata che vi seppellirà»…

Di seguito, alcuni dei più arguti cartelli pubblicitari del Gândul.

Sergio Bontempelli

Si ringrazia Malvina Nissim per la segnalazione

 

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«Qui si parla inglese meglio che in qualunque posto della Francia»
«La nostra birra alla spina costa meno della vostra acqua in bottiglia»
«A tavola non serviamo solo salsicce, torta, pesce e patatine»
«In rumeno “biscuit” [biscotto in inglese] si dice “biscuit”. Vedi, parli già la nostra lingua»
«Da noi l’estate dura tre mesi, non tre ore»
«Chi ha progettato la nostra metropolitana non aveva in mente le sardine (ci dispiace per le sardine)»

Femminismo tzigano

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione, ripubblicato su Zeroviolenza. Leggi anche la versione PDF

Ana Maria Cioaba aveva appena dodici anni quando – nel settembre 2003 – la sua famiglia organizzò il suo matrimonio con un coetaneo. Siamo a Sibiu, in Romania, nel quartiere dove vivono i rom Kalderash. Qui i matrimoni combinati sono pratica usuale, 
e quello di Ana Maria potrebbe passare inosservato: ma le cose, stavolta, vanno diversamente.

Per i giornali romeni, la cerimonia nuziale è una ghiotta occasione per scrivere un “pezzo di colore”, come si dice in gergo. La limousine, l’abito da sposa da 4.000 dollari, la collana di diamanti, le 2.600 bottiglie di vino: gli ingredienti per una storiella scandalistica ci sono tutti. Gli “zingari straccioni” con la Mercedes, del resto, sono sempre un buon argomento per i giornalisti a corto di idee. E poi c’è il padre di Ana Maria, uno che si fa chiamare “re dei rom” e che alla cerimonia arriva con la corona in testa. Uno scoop da non perdere.

La faccenda è talmente curiosa che fa il giro del mondo, ne parlano anche la Bbc e il New York Times. Ma allo scandalo iniziale si aggiungono le critiche. Emma Nicholson, inviata in Romania per conto della Ue, sollecita un’indagine della polizia: poiché il matrimonio è stato combinato dalle famiglie e la ragazza ha appena dodici anni, siamo di fronte – dice la Nicholson – alla violazione dei diritti di una minore.

Il 2 ottobre esce un editoriale del quotidiano Evenimentul Zilei (che in rumeno suona più o meno come “il fatto quotidiano”, ma che non ha nessun legame con il giornale di Padellaro e Travaglio): Dan Tapalaga, autore del pezzo, si chiede come risolvere il conflitto tra le «tradizioni rom» e la «legge romena». Ricordiamo questa dicotomia, perché dovremo tornarci tra poco: da un lato la “tradizione”, arretrata, incivile, violenta; dall’altro la “legge”, per definizione evoluta, civile e “femminista”.

Il femminismo rom alla prova
La zia di Ana Maria, Luminita Cioaba, è una poetessa, un’intellettuale e un’esponente del movimento femminista rom. E’ contraria ai matrimoni tra minori: perciò si arrabbia col fratello – padre di Ana Maria – e cerca di convincerlo a non dare in sposa la figlia. Ma quando la vicenda fa il giro del mondo, si rende conto che le polemiche sono solo un pretesto per criminalizzare i rom: e passa, per così dire, dall’altra parte della barricata, diventando sostenitrice delle “tradizioni zingare”.
Il 2 ottobre rilascia un’intervista di fuoco al solito Evenimentul Zilei: «ci avete fatto passare per barbari stupratori», dice, «noi abbiamo le nostre leggi non scritte, e nessuno deve sfidarle».
Una storia emblematica, quella di Luminita. Perché i suoi valori di donna impegnata e femminista sembrerebbero scontrarsi con la “cultura” rom: le “tradizioni” contro la “legge”, ancora una volta. Ma le cose stanno davvero così? Il nuovo femminismo rom, che sta emergendo nell’Europa dell’Est e non solo, ha fatto del “caso Cioaba” un banco di prova per proporre un’interpretazione diversa. Vediamo meglio.

Diffidare dei “salvatori”
Il “caso Cioaba” è ricco di aspiranti “salvatori” (e salvatrici) della piccola Ana Maria. L’inviata dell’Unione Europea Emma Nicholson, lo abbiamo visto, ha sollecitato l’intervento della polizia a protezione della minore: ma non ha mai mosso un dito per denunciare le discriminazioni che proprio le donne rom subiscono, in Romania, nell’accesso alla scuola, al lavoro e all’assistenza sanitaria.

I giornali, dal canto loro, sono pronti alle lacrime se una rom è sfruttata e oppressa dagli uomini della sua comunità. Ma “dimenticano” le violenze che le stesse donne subiscono ad opera della società maggioritaria. Alexandra Oprea, esponente del femminismo rom romeno, cita un caso concreto: nei giorni in cui la stampa solidarizzava con la piccola Ana Maria, un’altra rom, Olga David, moriva per le percosse di una guardia giurata a Petrosani. In una fredda giornata d’inverno, per scaldare i figli aveva rubato del carbone in una miniera. Nessun giornale romeno si occupò del caso.

Quella delle autorità pubbliche e della stampa è insomma una solidarietà a geometria variabile, pelosa e interessata. In Italia le cose non vanno diversamente, come dimostra il caso della “sposa bambina” a Pisa. Qui sono stati versati fiumi d’inchiostro per difendere la minorenne «segregata e violentata dai maschi zingari» (ma la sentenza dice che non è vero, come spieghiamo su questo stesso giornale). Quando invece il Comandante della Polizia Municipale, nel 2010, si recò al campo ad insultare una donna rom, minacciando di toglierle il bambino, nessun giornalista locale si mostrò indignato.

La “tradizione” contro la “legge”?
E poi c’è la faccenda della “tradizione” contro la “legge”. Davvero i matrimoni combinati sono frutto di una cultura tradizionale, premoderna e arretrata? Da una ricerca condotta nel 2011 dall’Amalipe Center, una Ong bulgara, emerge anzitutto che le pratiche variano da gruppo a gruppo. Lo studio prende in esame i Balcani, con una particolare attenzione per Romania, Bulgaria e Grecia: in questa ampia area geografica, le comunità rom sono molto diverse tra loro, e le pratiche matrimoniali – l’età degli sposi, il ruolo delle famiglie di origine, l’uso della dote ecc. – variano in modo considerevole. Difficile parlare, in un quadro così complesso, di “tradizione”.

La diversità di pratiche matrimoniali determina anche profonde differenze nel ruolo della donna. Matrimonio combinato (cioè pianificato dai genitori) non significa necessariamente matrimonio forzato (imposto alle ragazze contro la loro volontà): rituali e tradizioni cambiano da gruppo a gruppo, e cambia anche il grado di libertà garantito alle giovani spose. Nella maggior parte dei casi, il consenso delle ragazze è un elemento fondamentale nel determinare la scelta del matrimonio.

Ma c’è di più. «La nostra indagine», ha spiegato a Radio Bulgaria Deyan Kolev, uno degli estensori della ricerca, «ha messo in luce tre fattori significativi legati all’età precoce del matrimonio. Il fattore più importante è il grado di istruzione: i rom che non hanno terminato le scuole elementari si sposano in media attorno ai sedici anni, mentre tra i laureati l’età media del matrimonio si aggira intorno ai venticinque. Gli altri due fattori sono le condizioni economiche e quelle abitative».

In altre parole, c’è un nesso tra pratiche matrimoniali ed emarginazione sociale. Ne spiega le ragioni la già citata Alexandra Oprea in un articolo illuminante: «la mancanza di opportunità di istruzione e di lavoro per le giovani rom determina in molti casi le decisioni famigliari. Detto in altri termini, i genitori finiscono per pensare “mia figlia non sta facendo nulla nella vita, tanto vale che si sposi…”. Migliori opportunità di istruzione e di lavoro favorirebbero l’emancipazione delle donne rom, agevolando la loro mobilità sociale e ampliando il ventaglio delle scelte di vita possibili».

Attiviste rom romene come Alexandra Oprea e Nicoleta Bitu si soffermano molto su questo punto: le pratiche dei matrimoni combinati non sono espressione della “cultura rom”. Nessuna cultura, del resto, è monolitica e impermeabile, e tutte le pratiche sociali – ivi incluse quelle delle minoranze – sono il prodotto di interazioni con il mondo circostante: la discriminazione, il mancato accesso alla scuola e al lavoro, la segregazione abitativa sono fattori che determinano le pratiche cosiddette tradizionali.

Una rivendicazione “antica”: diritto di scelta, autodeterminazione
Il femminismo rom non nega l’esistenza di conflitti all’interno delle proprie comunità. Tutt’altro. Quella che viene contestata è, piuttosto, l’immagine manichea fornita dalla stampa e dal sistema dei media: da una parte il mondo dei rom, arretrato e patriarcale, dall’altra la società “moderna”, civile e “femminista”.

In questa visione manichea, la donna rom non è un soggetto attivo e consapevole. Non decide le forme e le modalità della propria emancipazione. Non ha il diritto di trovarsi un lavoro o di andare a scuola. Non è autorizzata a negoziare il proprio ruolo all’interno della coppia e della comunità di appartenenza. Deve essere “salvata” dall’esterno: dalla polizia, dagli assistenti sociali, dalle autorità pubbliche.
Un po’ come accade in certe città italiane durante gli sgomberi: alle donne viene offerto un posto letto, sempre temporaneo, purché si separino dai mariti: purché accettino di essere “liberate dall’oppressione”, consegnate agli assistenti sociali “liberatori”.

In questo senso, il nuovo femminismo rom dell’Europa dell’Est rivendica un principio in fin dei conti semplice e “antico”: il diritto all’autodeterminazione e la libertà di scelta della donna rom. Un principio che chiama in causa le comunità di appartenenza, ma anche (e forse soprattutto) la nostra società e le nostre istituzioni, sedicenti “libere” e “progredite”.

Sergio Bontempelli, 18 Marzo 2013

Quando gli italiani emigravano in Romania

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

 

Tutti sanno che, accanto al flusso migratorio di rumeni verso l’Italia, ne esiste uno opposto, di italiani che vanno in Romania: si tratta però di un’immigrazione diversa, fatta prevalentemente di imprenditori che delocalizzano le loro attività produttive in città come Timisoara. Sono in pochi a sapere invece che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, molti italiani sono emigrati in Romania, nello stesso modo in cui oggi i rumeni arrivano nel nostro paese: come lavoratori edili, operai di fabbrica e umili salariati.

Quello proveniente dalla Romania è divenuto il principale flusso migratorio diretto verso l’Italia: questo lo sanno tutti. Ma quanti sanno che nella storia – tra l’altro in tempi relativamente recenti – è esistito il fenomeno inverso, di italiani che andavano in Romania? E non si parla qui dell’emigrazione attuale, fatta di imprenditori del Nord-Est che trasferiscono le proprie attività in città come Timisoara, non a caso ribattezzata “Trevisoara”: si parla di un vero e proprio flusso di manodopera salariata – operai, minatori, edili – che dall’Italia partiva per la Romania. A far luce su questa storia «dimenticata» è un recente volume sulle migrazioni rumene curato dalla Caritas [Caritas Italiana, Immigrazioni e lavoro in Italia. Statistiche, problemi e prospettive, IDOS, Roma 2008].

I primi flussi verso la Romania cominciano nel XIX secolo: si tratta di lavoratori dell’odierno Triveneto, diretti per lo più in Transilvania. «L’Austria Ungheria», scrive Antonio Ricci, curatore del saggio sulle migrazioni italiane pubblicato nel volume della Caritas, «tende a favorire le migrazioni interne tra le regioni più povere e di confine» [Caritas, cit., pag. 59]. Le prime partenze risalgono – pare – al 1821, quando alcune famiglie della Val di Fassa e della Val di Fiemme (nel Trentino) vengono condotte nei monti Apuseni, in Transilvania, a lavorare come tagliaboschi e lavoratori del legno per conto di un commerciante austriaco di legname [Ibid., pag. 61].

L’emigrazione – in Transilvania, ma non solo – prosegue anche dopo l’unità d’Italia: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, anzi, la Romania diventa una meta secondaria ma tutt’altro che irrilevante per l’emigrazione italiana. Si è calcolato ad esempio che alla fine del XIX secolo circa il 10-15% degli emigranti partiti dal Veneto si sia diretto in Romania [Ibid., pag. 59]. Si è trattato, spesso, di migrazioni stagionali: una sorta di pendolarismo transnazionale che ha trovato sbocco nell’edilizia, nella costruzione delle ferrovie, in attività boschive o nelle miniere [Ibid., pag. 61]. Stando ai censimenti del Ministero degli Affari Esteri, il numero di emigranti italiani in Romania è quasi decuplicato nell’arco di tre decenni, passando dagli 830 del 1871 ai più di 8.000 del 1901 [Ibid., pag. 64].

Un «manuale» per l’emigrante italiano nei Balcani e in Romania, pubblicato nel 1910, si sofferma sulle procedure burocratiche necessarie per raggiungere il paese: e qui le analogie con la situazione attuale – ma, ovviamente, a parti rovesciate – sono impressionanti. Il Regio Commissariato dell’Emigrazione, curatore del volumetto, raccomanda infatti di richiedere il passaporto – opportunamente vistato da un consolato rumeno – e di stipulate un contratto di lavoro prima della partenza: il datore di lavoro in Romania, d’altra parte, deve munirsi dell’apposita autorizzazione all’ingresso per il proprio lavoratore, da richiedere al Ministero dell’Interno. Si tratta di formalità burocratiche – avverte il Regio Commissariato – senza le quali si rischia di venir respinti alla frontiera dalle solerti autorità rumene di polizia [Ibid., pag. 60]. Sono le stesse procedure burocratiche che l’Italia ha chiesto agli immigrati rumeni, fino all’ingresso del loro paese nell’Unione Europea.

Proseguita nel periodo tra le due guerre mondiali (alcune stime hanno calcolato la presenza in Romania, negli anni Trenta, di circa 60.000 italiani), l’emigrazione è andata man mano esaurendosi negli anni Quaranta. Sono rimasti, nelle città rumene, quegli emigranti che nel frattempo avevano rinunciato alla cittadinanza italiana: a queste piccole comunità lo Stato rumeno ha riconosciuto, all’indomani della caduta del regime comunista, lo status di minoranza linguistica e il diritto ad essere rappresentate alla Camera dei Deputati da un proprio parlamentare [Ibid., pag. 68]. «Trascorsi ormai un secolo-un secolo e mezzo dalla partenza», conclude il saggio pubblicato dalla Caritas, «la vicenda degli italiani di Romania mantiene un carattere esemplare, ancor più oggi che in Italia si assiste a un malumore diffuso nei confronti dei rumeni».

Chi sono i rom rumeni? Un dossier

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Chi sono davvero i Rom di Romania? Perchè vengono in Italia? Cosa cercano nel nostro paese, e perchè abbandonano il loro? Ci vorrebbe un libro intero per rispondere a queste domande. Qui di seguito, un piccolo dossier per capire questi nuovi flussi migratori, al di là di facili stereotipi.

Chi sono i Rom rumeni? La stampa quotidiana e le televisioni ci hanno abituati a parlare comunemente di questo fenomeno migratorio, ma non ci aiutano a capirlo: così, quando si discute di «rom rumeni», a molti verranno in mente ladruncoli, spacciatori, scippatori, violentatori di donne o rapitori di bambini, e poco altro. Cerchiamo allora, per quanto possibile in un blog, di fare un po’ di chiarezza, e anche di fornire qualche dato e informazione storica.

Cominciamo con un necessario chiarimento terminologico, che a molti lettori apparirà banale. Poichè spesso si fa confusione tra Rom e rumeni, sarà bene chiarire che con la parola «rumeno» (o «romeno») si indica comunemente il cittadino della Romania, mentre il termine «Rom» identifica una minoranza «etnico-linguistica», cioè un insieme di gruppi che parlano – o che parlavano in passato – una medesima lingua detta romanés, a sua volta articolata in numerosi dialetti. I «Rom» sono diffusi in tutti i paesi d’Europa, e hanno perciò varie nazionalità: esistono così Rom italiani – cittadini a pieno titolo del nostro paese, nati da famiglie italiane e cresciuti in Italia -, Rom spagnoli, Rom serbi e così via. In Romania, la minoranza Rom è molto numerosa: i suoi componenti sono cittadini rumeni che, oltre alla lingua nazionale del loro paese (il rumeno, appunto) parlano diversi dialetti della lingua romanés. Perciò, detto in estrema sintesi, tutti i Rom rumeni sono cittadini della Romania ma, all’inverso, non tutti i rumeni appartengono alla minoranza Rom.

La minoranza Rom: cenni storici

Nonostante abbiano un nome simile, la lingua rumena e quella romanés sono molto diverse. In Romania si parla una lingua di derivazione latina, molto vicina all’italiano, allo spagnolo e al francese, con significativi «prestiti» slavi e qualche parola di origine ungherese, albanese o turca. Il romanés, invece, deriva dalle lingue indiane e neo-indiane: gli storici ritengono che le origini del popolo Rom siano da ricercarsi proprio in India, da dove i cosiddetti «zingari» si sarebbero spostati tra l’VIII e il XII secolo, raggiungendo poi tutti i paesi d’Europa [cfr. L. Piasere, I Rom d’Europa. Una storia moderna, Laterza, Bari-Roma 2004, pagg. 23 e ss.].
Il primo documento scritto che attesta la presenza di Rom nell’attuale Romania risale al 1385 [cfr. Piasere, cit., pag. 35]. Nei principati di Valacchia e di Moldavia – antenati della Romania – i Rom sono stati schiavi fino al 1856, anno in cui in Valacchia viene emanata una legge che prevede l’abolizione della schiavitù [cfr. Piasere, cit., pag. 44]: nei periodi successivi, tra XIX e XX secolo, i Rom hanno svolto prevalentemente mestieri artigianali e girovaghi, sono stati calderai, fabbri, artigiani del legno, raccoglitori di vetro ecc. [si veda, in lingua rumena, CEDIMR-SE. Centrul de Documentare si Informare despre Minoritatile din Europa de Sud-Est (CEDIMR-SE). Minoritatile din Europa de Sud-Est. Romii din România, 2001, pag. 7].

Questa collocazione sociale è una delle origini della prolungata marginalità dei Rom: in un paese prevalentemente agricolo come la Romania, i Rom hanno abbandonato le terre in cui lavoravano come schiavi, e hanno svolto mansioni itineranti, legate ad un artigianato povero e precario. Il fatto di essere una minoranza etnico-linguistica, con una propria lingua diversa da quella maggioritaria, li ha poi resi sospetti, scomodi, “fuori posto” proprio nel momento in cui, in Romania come in gran parte dei paesi europei, si affermava l’ideologia nazionalista. Le versioni più radicali di quest’ultima – sangue e suolo – porteranno, a cavallo tra le due guerre mondiali, a vere e proprie persecuzioni a sfondo razziale: nel periodo Antonescu, 25.000 Rom verranno deportati in Transnistria, e lasciati morire al freddo [cfr. Viorel Achim, Ţiganii în istoria Romăniei, Editura Enciclopedica, Bucureşti 1998, pagg. 139-148; Viorel Achim, The Roma in Romanian History, Central European University Press, Budapest 2004, pagg. 170-179].

Il primo periodo comunista

L’avvento del regime comunista sembra risollevare un po’ le sorti di questa minoranza fragile e discriminata. Nella campagna elettorale del 1946, il Blocul Partidelor Democratice (alleanza elettorale guidata dal PC) indirizza agli zingari uno speciale appello, «Fraţi romi şi surori romniţe» (fratelli Rom e sorelle romnì), che invita a votare per il Blocul, e si impegna a contrastare discriminazioni ed esclusioni contro le minoranze [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 189].

Si tratta, però, di un interesse fugace. Già nel Dicembre 1948, il Comitato Centrale del Partito Comunista ormai al potere (che in questo periodo si chiama PMR, Partidul Muncitoresc Român, cioè «Partito Rumeno del Lavoro») dedica una speciale sessione di dibattito al problema delle minoranze etniche: la risoluzione finale dell’Ufficio Politico, mentre attribuisce nuovi poteri a minoranze nazionali come quella ungherese, ignora completamente l’esistenza dei Rom [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pagg. 189-190].

La politica del regime, in effetti, si rifiuterà sempre di riconoscere i Rom come una vera e propria minoranza etnica. Gli ţigani (zingari) saranno trattati piuttosto come un problema sociale, in ragione della loro povertà e della precarietà dei loro mestieri: essi verranno esclusi – certo – dai benefici delle nazionalità minoritarie, ma, al contempo, finiranno per usufruire delle numerose opportunità di ascesa sociale garantite ai più poveri. Gli studi storici sottolineano in particolare che, nel primo periodo del regime comunista, molti Rom diventano Sindaci, quadri di partito, funzionari dei servizi segreti, ufficiali dell’esercito, dirigenti di polizia: scompaiono, insomma, in quanto Rom, ma acquisiscono ruoli e prestigio in quanto individui [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 190].

L’era Ceaucescu e la sedentarizzazione forzata

Nel secondo periodo di vita del regime comunista – che possiamo far coincidere, grosso modo, con l’era Ceaucescu – la Romania cerca di avviare una vera e propria assimilazione forzata dei Rom, in particolare di coloro che praticano ancora mestieri girovaghi e ambulanti, e che sono per questo definiti nomazi (nomadi). I provvedimenti non si discostano molto da quelli che, più o meno nello stesso periodo, sono presi negli altri paesi socialisti. Dopo un primo esperimento promosso dalla Polonia nel 1952, infatti, è l’URSS di Krusciov a fornire le «linee guida» delle politiche contro il vagabondaggio: con un decreto del 1956, lo stato sovietico vieta la vita «nomade», prevede cinque anni di lavori forzati per chi resiste, e al contempo garantisce casa, lavoro, assistenza sanitaria e inserimento scolastico per le famiglie che si «adeguano» [cfr. Piasere, cit., pagg. 60-61].
Questa sedentarizzazione forzata produce, in Romania, i suoi effetti: «le autorità locali», spiega Viorel Achim, «vengono obbligate a mettere a disposizione alloggi, e ad assicurare posti di lavoro. Nelle province con una numerosa presenza di nomadi (Mures, Alba ecc.), una parte delle famiglie vengono trasferite in altre province o addirittura in altre zone del paese, spesso nei grandi centri urbani. L’intera operazione viene diretta a livello centrale, ma messa in pratica dalle autorità locali e dalla milizia. Scompaiono così dal paesaggio rumeno le carovane di zingari che percorrono i villaggi» [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 191; la traduzione è mia].

Avviata già dalla fine degli anni ’60, questa politica di sedentarizzazione raggiunge il suo culmine nel 1977, quando il Comitato Centrale del Partito Comunista promuove un programma speciale di integrazione sociale dei Rom (i cui dettagli non verranno mai resi pubblici). Nel 1977, il censimento registra la presenza di circa 65.000 zingari nomadi, e di quasi 230.000 cittadini di etnia Rom, equivalenti all’1,76% della popolazione: un dato che gli storici ritengono largamente sottostimato, essendo il numero reale valutabile in circa un milione [per questi dati cfr. cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 191; CEDIM – SE, cit., pag. 11].

I Rom alla fine del periodo comunista: tra meticciato e marginalità sociale

Dobbiamo ora fermarci per un attimo, e valutare le conseguenze delle politiche messe in pratica dal regime: ciò consentirà di capire in che modo la minoranza Rom arriva all’appuntamento del crollo del comunismo, e come le condizioni sociali in cui i Rom si troveranno a vivere contribuiranno, negli anni Novanta, all’avvio dei processi migratori.

Un primo fenomeno degno di nota è l’inserimento massiccio dei Rom nel mercato del lavoro, sia agricolo che industriale: le comunità girovaghe dedite a mestieri artigianali tendono a scomparire, e i loro membri diventano sempre più operai, lavoratori agricoli, ferrovieri, impiegati, persino dirigenti di partito o quadri dell’esercito. Questo fenomeno agevola processi di meticciato, perchè i Rom – sempre meno separati dal resto della popolazione – cominciano a convivere con gli «altri rumeni» (o con le «altre rumene»), e con loro lavorano, vivono, si sposano, mettono su famiglia, fanno figli. Si tratta di una dinamica di straordinaria importanza, e che pure viene sottovalutata spesso soprattutto dai resoconti giornalistici: gran parte dei Rom comincia a parlare il rumeno come prima lingua, in tanti perdono l’uso del romanés, molte comunità si mescolano, il confine che separa gli «zingari» dai «rumeni» si fa via via meno rigido (ma, è opportuno ricordarlo, nessun confine «etnico» è mai stato tale). Oggi, le tracce di questi potenti processi di meticciato – avviati ben prima del periodo comunista, ma agevolati dalle politiche di assimilazione e di integrazione – sono ben visibili nei gruppi emigrati in Italia. Chi conosce anche superficialmente i «campi» sulle rive dei fiumi, le «baraccopoli» delle grandi città, sa benissimo che vi si trovano popolazioni dall’identità incerta e mobile: molti si definiscono «Rom», altri parlano di se stessi come di «rumeni», altri ancora utilizzano termini dialettali che alludono proprio all’esser «meticci», mescolati, misti.

Un secondo fenomeno degno di nota riguarda la perdurante emarginazione sociale dei Rom: un’emarginazione che rimanda, come abbiamo visto, alla «storia profonda» della Romania, al suo essere paese rurale, e poi anche industriale, con una minoranza Rom dedita a mestieri poveri legati all’artigianato e all’ambulantato. Le politiche di assimilazione forzata, l’inserimento degli «zingari» nel lavoro agricolo o di fabbrica, otterranno successi solo parziali: il regime, infatti, avvierà questi interventi in un momento di grave crisi economica, e non riuscirà a mobilitare tutte le risorse necessarie per raggiungere gli obiettivi prefissati. Così, se nel 1977 circa un terzo dei Rom risultano disoccupati, nel 1983 i senza lavoro saranno ancora cresciuti [cfr. Viorel Achim, The Roma in Romanian History, cit., pag. 196].

Infine, un terzo fenomeno degno di nota attiene alla sfera, per così dire, «ideologica» e simbolica. Il regime comunista ha fatto del nazionalismo uno degli assi portanti delle proprie politiche «identitarie»: prima che dittatura del proletariato e socialismo realizzato, l’élite dirigente ha pensato alla Romania contemporanea come ad una «nazione», erede di un lungo percorso storico che dal periodo dacio-romano porta alla costruzione di uno stato moderno su basi «etniche». Ed è in particolare tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 che Ceaucescu promuove una intensissima campagna ideologica nazionalista, riprendendo persino temi propri del tradizionalismo rumeno di estrema destra [cfr. Lucian Boia, La Roumanie. Un pays à la frontière de l’Europe, Les Belles Lettres, Parigi 2003, pagg. 35 e ss.]. Come è facile intuire, in un clima di rinnovato nazionalismo, dove si esalta la presunta «omogeneità etnica» della Romania, le minoranze etnico-linguistiche diventano oggetto di sospetti e diffidenze.

Il post-comunismo

I Rom, dunque, giungono all’appuntamento della caduta del regime in condizioni di relativa marginalità sociale: non sono più – o sono sempre meno – un corpo separato dal resto della società, non girano più da decenni in carovane “nomadi”, esercitano sempre meno i mestieri ambulanti tradizionali, ma sono comunque poveri e percepiti come “diversi”.

Nel 1991 viene approvata la cosiddetta «Legge del Fondo Fondiario», che smantella le grandi imprese agricole di Stato e restituisce ai “legittimi proprietari” la terra espropriata nell’epoca comunista. I terreni agricoli vengono assegnati, per lo più in piccoli lotti, ai discendenti di coloro che l’avevano posseduta prima della collettivizzazione: così, molte famiglie rumene diventano proprietarie di piccoli terreni, con i quali riescono ad avviare una minima economia di sussistenza [«Legea Fondului Funciar n°18/1991» (Legge del Fondo Fondiario n. 18/1991). Una utilissima ricostruzione, in lingua italiana, delle vicende che hanno portato all’approvazione di questa riforma si trova in Gloria Zagaglioni, Le peculiarità del mondo rurale romeno e le sfide dello sviluppo: tra transizione post-comunista e allargamento dell’Unione Europea, tesi di laurea, Università di Bologna Anno Accademico 2003-2004].

Questa legge, però, penalizza gravemente la minoranza Rom, che storicamente non ha mai posseduto terreni, e che dunque ora non può beneficiare della «restituzione» [Cfr. Ina Zoon, On the Margins. Roma and Public Services in Romania, Bulgaria and Macedonia, Open Society Institute, New York 2001, pag. 123; Dena Ringold, Mitchell A. Orenstein e Erika Wilkens, Roma in an expanding Europe. Breaking the poverty circle, World Bank, Washington 2003, pagg. 97 e ss.; UNITED NATIONS DEVELOPMENT PROGRAMME, Avoiding the dependency trap. Roma in Central and Eastern Europe, UNDP, Bratislava 2002, pag. 15].
Tra l’altro molti Rom erano impiegati proprio nelle imprese agricole statalizzate dell’epoca Ceaucescu: la chiusura di queste aziende provoca un’ondata di licenziamenti, e un incremento della disoccupazione soprattutto nelle minoranze etniche più fragili e discriminate.

Nel 1993, una équipe di ricercatori dell’Università di Bucarest e dell’«Institutul de Cercetare a Calităţii Vieţii» (Istituto di Ricerca sulla Qualità della Vita), pubblica i risultati di un importante studio sulla condizione dei Rom di Romania [cfr. Elena e Cătălin Zamfir (a cura di), Ţigani între ignorare şi îngrijorare, Editura Alternative, Bucureşti 1993]. Ne emerge un quadro sconfortante. Il 79,4% dei Rom risulta completamente disoccupato (58% tra gli uomini e 88% tra le donne), il reddito medio di una famiglia Rom è assai più basso della media nazionale, e molti giovani, che non trovano lavoro, restano a lungo nelle famiglie di origine.
Al contempo, la ricerca dimostra che i processi di meticciato, di mescolanza sono largamente compiuti. Così, per esempio, solo il 40,9% delle persone che si definiscono «Rom» parla il romanés come lingua madre, e solo il 3,9% svolge mestieri e professioni tradizionali legati alla «cultura Rom». Lo studio osserva che dietro l’etichetta generica di «zingari» si raccolgono popolazioni assai diverse, per molte delle quali è difficile tracciare un confine rigido con i rumeni non-Rom.

Nonostante questo, però, i gruppi che l’immaginario collettivo continua a vedere come «zingari tout court» sono non solo percepiti come radicalmente diversi dai «rumeni», ma fatti oggetto di crescenti sentimenti razzisti e xenofobi. «Dopo la caduta del regime comunista in Romania», scrive per esempio la Rete di Urgenza contro il Razzismo in un documentato dossier pubblicato nel 1998, «vi fu, in particolare nella prima metà degli anni ’90, un’esplosione di violenza razzista nei confronti delle comunità Rom. In decine di villaggi rumeni folle inferocite assaltarono e incendiarono le case dei Rom, distrussero le loro proprietà e li cacciarono dai villaggi, impedendo loro di ritornare; durante queste violenze collettive alcuni Rom vennero assassinati. Esemplare in questo senso, e ormai tristemente famosa, è la sommossa di Hadareni, avvenuta nel 1993, durante la quale tre Rom furono uccisi, 19 case bruciate e 5 distrutte» [cfr. anche European Roma Rights Center, Sudden Rage at Dawn.Violence against Roma In Romania, Country Reports Series, No. 2., ERRC, Budapest 1996]. Ad alimentare le violenze a sfondo razziale interviene anche il clima di rinnovato nazionalismo che caratterizza la Romania all’indomani della transizione post-comunista. In particolare, già dagli anni ’90 emerge nel panorama politico-elettorale una nuova forza politica, il PRM – Partidul de Romania Mare («Partito della Grande Romania») guidato da Corneliu Vadim Tudor. Si tratta di una formazione ultranazionalista, che ripropone il mito della «purezza etnica» contro le minoranze del paese (quella Rom e quella, ben più forte e organizzata, degli ungheresi). Gli osservatori internazionali definiscono il PRM di «estrema destra», ma in realtà Tudor riprende anche i miti nazionalisti propri dell’ultima fase del regime comunista [cfr. L. Boia, cit., pag. 214].

L’emigrazione verso l’Italia

L’insieme di questi fenomeni, qui descritti in modo necessariamente sommario, favorisce l’emigrazione di molti Rom. In una primissima fase (attorno alla metà degli anni ’90), gli arrivi riguardano soprattutto comunità discriminate, oggetto di persecuzioni e di violenze, che fuggono dalla Romania e che, non di rado, chiedono asilo politico nel nostro paese, quasi sempre senza successo: è il caso, per esempio, del consistente gruppo segnalato a Torino nel 1997, che proviene dalla regione di Ialomita [cfr. Rete d’Urgenza, cit.; Marco Nieli, Genocidio culturale, in «Guerre e Pace», n. 106/2004]. Presto, però, le migrazioni di Rom rumeni si trasformano, investendo gruppi relativamente ben inseriti, che cercano all’estero opportunità di lavoro in modo da «compensare» il progressivo impoverimento dovuto agli effetti delle riforme agrarie. E’ il caso, soprattutto, della consistente comunità, che emigra da Craiova e dalla regione del Dolj e che si insedia nel campo nomadi «Garibaldi» di Milano, da dove nel 1996 viene trasferita alla baraccopoli di Via Barzaghi [informazioni tratte da Mauro Bottaro, Cronaca di uno sgombero annunciato, 2001, in http://www.casadellacultura.it/, link non più disponibile]. Da questo punto di vista, le migrazioni dei Rom seguono percorsi non troppo dissimili da quelle dei lavoratori rumeni: la leggenda degli zingari che verrebbero in Italia «per delinquere» – al contrario dei rumeni, che emigrerebbero «per lavorare» – è, appunto, una leggenda priva di riscontri [per una breve storia delle migrazioni rumene cfr. Sebastian Lazaroiu, Monica Alexandru, Controlling exits to gain accession. Romanian migration policy in the making, CESPI, Roma 2005].

Gli arrivi nel nostro paese registrano una vera e propria «impennata» tra il 2000 e il 2001: è il periodo in cui l’Italia abolisce l’«obbligo di visto» per i cittadini rumeni, consentendo a questi ultimi di varcare la frontiera esibendo semplicemente il passaporto. Quasi tutte le inchieste condotte nelle città – Milano, Bologna, Roma – mostrano che i Rom si inseriscono facilmente nei circuiti del lavoro nero e dell’economia sommersa, e costituiscono una manodera ambita soprattutto in edilizia [cfr. per es. VAG61, La colonna senza fine. Storia dei Rom rumeni a Bologna, 2008; Giovanna Boursier, Un piazzale per casa. Gli invisibili di Roma, in «Il Manifesto», 30 Luglio 2003]. Tanto a Milano quanto a Bologna, poi, i Rom rumeni si rendono protagonisti di importanti vertenze per il diritto alla casa e al soggiorno.

Oggi, la presenza complessiva di Rom rumeni in Italia viene stimata attorno alle 50.000 unità [cfr. F. Motta e S. Geraci, Rom e Sinti a Roma: un’emergenza sempre rinnovata, in Caritas di Roma, Osservatorio Romano sulle Migrazioni. Terzo Rapporto, IDOS, Roma 2007, pag. 289]

Sergio Bontempelli, 11 Giugno 2008

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