Diritti dei migranti e antirazzismo

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Migranti, che cos’è la “protezione speciale” che il decreto Cutro vorrebbe abolire

Originariamente pubblicato in “Per un’Altra Città”, 16 Maggio 2023

Alla fine quello che molti di noi temevano è accaduto: il tristemente noto “Decreto Cutro” è stato convertito in legge: si tratta, come è stato scritto, di un provvedimento pesantissimo, che rischia di ricacciare nell’irregolarità migliaia di uomini e donne migranti, e che lede un diritto di asilo peraltro già compromesso dalle (contro)riforme degli ultimi anni. Tra le disposizioni più contestate c’è quella che ridimensiona fortemente – pur senza riuscire ad abrogarla del tutto – la cosiddetta «protezione speciale».

Ma cos’è esattamente la protezione speciale? Alcuni organi di stampa hanno cercato di spiegarlo, ma l’argomento è molto tecnico, e si ha l’impressione che gli stessi giornalisti facciano fatica a comprenderlo. Proviamo dunque a vederci più chiaro.

Le tipologie di protezione

La prima cosa da sapere è che nel linguaggio giuridico si chiama «protezione» il diritto a non essere espulsi e a rimanere legalmente in Italia: in prima approssimazione possiamo dire quindi che abbiamo a che fare con una specifica tipologia di permesso di soggiorno. Tuttavia, a differenza dei permessi di soggiorno «classici» – quelli, per intenderci, rilasciati per motivi di lavoro o di studio – la «protezione speciale» è pensata per tutelare i migranti che fuggono da violenze, abusi e violazioni subìte nelle loro terre di origine: insieme alle altre forme di «protezione», su cui ci soffermeremo tra un attimo, serve per garantire il diritto di asilo.

E qui le parole sono importanti. Abbiamo detto «diritto di asilo» e non semplicemente «asilo» perché, secondo le norme internazionali, l’Italia è obbligata ad accogliere gli stranieri vittime di persecuzioni o abusi. Un diritto è tale proprio perché ad esso corrisponde un dovere a carico dello Stato: non è dunque possibile limitare o comprimere l’asilo in nome di un’astratta «salvaguardia dei confini», come sembra pensare il Governo in carica.

Ma torniamo al nostro ragionamento. Lo straniero che, arrivato in Italia, intenda chiedere protezione al nostro Paese, può presentare una formale domanda di asilo. La domanda viene valutata dalla cosiddetta «Commissione Territoriale», che è l’organismo competente a decidere su queste materie. Esaminata la domanda, la Commissione può rifiutarla del tutto (e in questo caso l’interessato deve allontanarsi dall’Italia, salvo che non faccia ricorso al tribunale), oppure può riconoscere una delle tre «protezioni» previste dalla legge: lo status di rifugiato, la protezione «sussidiaria» o – appunto – la protezione «speciale».

Ed eccoci arrivati al dunque: cerchiamo di capire cosa sono esattamente queste tre forme di protezione, che come abbiamo visto corrispondono ad altrettanti permessi di soggiorno. La prima, lo status di rifugiato, è riconosciuta allo straniero che ha un «fondato timore di persecuzione», e che per questo non può o non vuole tornare al suo Paese di origine. La seconda, la «sussidiaria», viene accordata a chi fugge da guerre e conflitti armati, oppure a chi – in caso di rimpatrio – potrebbe subire una condanna a morte o una qualche forma di tortura.

Se queste formulazioni vi sembrano un po’ vaghe, generiche o addirittura confuse, non avete tutti i torti: da tempo giuristi, studiosi e magistrati si interrogano sul loro significato, senza arrivare a conclusioni univoche. Cosa si intende, ad esempio, con la parola «persecuzione»? Come si distingue la persecuzione da una generica ostilità, o da un controllo poliziesco più «occhiuto» del normale? Essere perseguitati significa necessariamente subire una qualche violenza, o può essere sufficiente una minaccia, un’intimidazione, un avvertimento? E ancora: perché la tortura – che a rigor di logica dovrebbe essere la forma più estrema di persecuzione – viene inserita nella protezione sussidiaria e non nello status di rifugiato? Le risposte a queste domande non si trovano direttamente nei testi normativi: sono i giuristi, i magistrati e i membri delle Commissioni che devono interpretare le leggi, conferendo un significato univoco a formulazioni ambigue o comunque problematiche.

L’asilo costituzionale e la «terza protezione»

I lettori più attenti avranno notato che in questo discorso manca qualcosa: e quel «qualcosa» è la Carta Costituzionale, vero e proprio «elefante nel tinello» di tutto il ragionamento sulla protezione. Come si sa, l’articolo 10 comma 3 della nostra legge fondamentale stabilisce che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica».

In queste poche e semplici parole si delinea un concetto di asilo assai più ampio di quello definito dalle norme sulla «protezione». Non si parla (solo) di persecuzioni, torture, condanne a morte o pericoli derivanti da situazioni di conflitto armato; non si allude (solo) a una minaccia che incomba su un individuo, e che lo costringa a fuggire. Si prevede invece una tutela molto più estesa, da garantire a tutti coloro che non hanno la fortuna di vivere in Paesi democratici e rispettosi delle libertà fondamentali.

Per comprendere la differenza tra questo «asilo costituzionale» e lo «status di rifugiato» è utile rileggere una sentenza del Tribunale di Catania, risalente all’ormai lontano 2004 e riguardante un cittadino iracheno appartenente alla minoranza curda. Nel suo Paese l’uomo aveva lavorato come guardia carceraria in un istituto di pena, ed era stato accusato (ingiustamente) di complicità nell’evasione di alcuni detenuti: era perciò fuggito, si era rifugiato in Italia e aveva chiesto asilo, sostenendo di essere perseguitato dal regime di Saddam Hussein. Il Tribunale osservò che, dopo l’invasione dell’Iraq da parte della coalizione a guida americana, l’amministrazione facente capo a Saddam si era quasi completamente dissolta, e non poteva perciò «perseguitare» nessuno: di conseguenza, l’uomo non ottenne lo status di rifugiato. I giudici decisero però di riconoscere l’asilo «costituzionale», perché in Iraq le potenze occupanti non garantivano i diritti della popolazione civile, e non erano in grado di mantenere l’ordine e la sicurezza pubblica. Morale della favola: senza l’articolo 10 della nostra Carta, quel cittadino iracheno non avrebbe mai ottenuto il permesso di soggiorno.

Attorno alla metà degli anni Duemila, proprio per dare attuazione al dettato costituzionale, le amministrazioni cominciarono a usare una norma semi-nascosta del Testo Unico sull’immigrazione, cioè della legge che regolava (e regola tuttora) l’ingresso e la permanenza degli stranieri in Italia. L’articolo 5 comma 6 del Testo Unico consentiva di rilasciare un permesso di soggiorno quando ricorrevano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali»: il riferimento era dunque alla Costituzione ma anche agli accordi multilaterali firmati dall’Italia, in primis la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

Nacque così una terza forma di protezione – la cosiddetta «protezione umanitaria»che andò ad aggiungersi allo status di rifugiato e alla «sussidiaria». E la Corte di Cassazione – in una sua storica sentenza del 2012 – invitò i giudici a non accordare più l’asilo sulla base dell’articolo 10 della Costituzione, perché – dissero gli ermellini – «il diritto di asilo [previsto dall’art. 10, ndr.] è oggi (…) interamente attuato (…) dalla esaustiva normativa [vigente]». Cioè perché esisteva una terza forma di protezione, chiamata ad attuare il dettato costituzionale.

La metto, la tolgo, la rimetto: l’altalena della protezione umanitaria

Con l’arrivo di Salvini al Ministero dell’Interno la protezione umanitaria divenne però il bersaglio di mille polemiche. Il nuovo inquilino del Viminale, dimostrando una crassa ignoranza sulla materia, protestò per i «troppi» migranti che accedevano a questo permesso (come se un diritto fondamentale potesse essere limitato a un «numero massimo» di beneficiari). Gli alti funzionari ministeriali, per assecondare i furori del loro comandante, scrissero – in una serie di slide illustrative di involontaria e irresistibile comicità – che si era «determinata una situazione paradossale, [con] un altissimo numero di permessi di soggiorno per cosiddetti (sic!) motivi umanitari, comprensivi delle più svariate ipotesi».

Sulla base di questi presupposti, nel 2018 il decreto Salvini abolì la norma del Testo Unico, e al suo posto introdusse una nuova forma di protezione, chiamata «protezione speciale», che poteva essere riconosciuta solo in presenza di circostanze ben precise e limitate. In particolare, poteva ottenere il permesso di soggiorno chi avesse gravi motivi di salute, chi provenisse da Paesi dove si erano verificate calamità naturali (terremoti, alluvioni ecc.), o ancora chi, in caso di rimpatrio, corresse il pericolo di subire forme di tortura o di persecuzione (e qui la norma era confusionaria e incoerente, perché faceva riferimento a fattispecie già ricomprese nelle altre forme di protezione).

Dopo la (temporanea) uscita di scena del leader della Lega, la nuova Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese abrogò il decreto Salvini e reintrodusse la «vecchia» protezione umanitaria, aggiungendovi però un ulteriore e importante tassello: il permesso di soggiorno poteva essere rilasciato ora non solo per ottemperare agli «obblighi costituzionali o internazionali», come era scritto nella storica norma del Testo Unico, ma anche quando «l’allontanamento [dello straniero dall’Italia] [poteva comportare] una violazione del diritto alla vita privata e familiare».

Qui la legge faceva riferimento alla posizione assunta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: nella sentenza «Hamidovic contro Italia» del 2012, i giudici di Strasburgo avevano condannato il nostro Paese per aver espulso una donna rom che viveva da anni sul territorio assieme al marito e ai figli piccoli. Secondo la Corte, era illegittimo allontanare dai suoi affetti familiari una cittadina straniera, anche se quest’ultima non aveva il permesso di soggiorno ed era irregolare.

Il decreto Cutro ha davvero abrogato la «protezione speciale»?

Il resto è cronaca di oggi: il decreto Cutro ha cercato di abolire, o comunque di ridimensionare fortemente, l’istituto della «protezione speciale», così come era stato delineato dalla riforma Lamorgese. In primo luogo, è stata abolita la convertibilità dei permessi per protezione, cioè la facoltà di trasformarli in permessi «normali» per lavoro o per studio. In secondo luogo, è stata modificata la norma istitutiva della protezione. Al Senato, Maurizio Gasparri ha addirittura proposto di cancellare del tutto il riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali»: poi, a quanto pare, è intervenuto Mattarella per ricordare che la Costituzione e i trattati internazionali si applicano lo stesso, anche quando la legge non lo dice. Povero Gasparri: nessuno lo aveva informato di come funziona uno Stato di diritto, e lui era all’oscuro di tutto…

Il riferimento agli «obblighi costituzionali o internazionali» è dunque rimasto in piedi – e questa è senz’altro una buona notizia – ma la norma sul «diritto alla vita privata e familiare» è stata cancellata. E tuttavia, così come la Costituzione si applica sempre e comunque, anche se la legge non lo specifica, allo stesso modo la Convenzione Europea sui diritti dell’uomo si applica sempre e comunque, anche se la legge non lo dice. Come hanno detto i giudici di Strasburgo, l’Italia è in ogni caso obbligata a tutelare la vita privata e familiare degli stranieri, anche riconoscendo loro un permesso di soggiorno. Nei prossimi mesi si apre dunque lo spazio per un’ampia battaglia politica e giuridica: dobbiamo ribadire che la protezione speciale non è stata affatto abolita, semplicemente perché il Parlamento non aveva e non ha il potere di abolirla. E dunque, come si diceva tanti anni fa, al lavoro, alla lotta!

Sergio Bontempelli

Ucraina: i rifugiati, messaggeri di pace

Dal sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

L’escalation bellica in Ucraina, cui stiamo assistendo in queste ore, ha colto impreparati molti commentatori, e ha suscitato incredulità anche nei movimenti pacifisti, che pure si sono tempestivamente mobilitati scendendo in piazza in tutte le città d’Italia. Siamo, inutile dirlo, in un momento drammatico della storia, che sembra preludere a una nuova guerra mondiale: uno scenario, non a caso, irresponsabilmente evocato sia dal presidente bielorusso Aleksander Lukashenko, sia dal presidente degli Usa Joe Biden. In un contesto del genere, le mobilitazioni popolari contro la guerra rischiano di essere letteralmente “risucchiate” da un clima sempre più diffuso di chiamata alle armi. Serve, dunque, una forte presenza pacifista, che sappia imporre sulla scena pubblica un punto di vista chiaro, concreto, autorevole, autonomo dalle parti in conflitto.

1. Non va sottaciuto il fatto che Putin è oggi il principale responsabile di questa crisi, e che l’aggressione all’Ucraina è un crimine ingiustificabile. In questi giorni alcuni esponenti storici del pacifismo italiano – su tutti Luciana Castellina – hanno evidenziato le responsabilità della Nato, la cui progressiva espansione nell’Est Europa ha acuito le tensioni con la Russia. Ora, non c’è dubbio che l’Alleanza Atlantica abbia giocato un ruolo nefasto di destabilizzazione in diversi scacchieri, non ultimo quello europeo: e tuttavia, insistere soltanto o principalmente su questo rischia di far passare in secondo piano le gravissime responsabilità della Russia di Putin. Siamo di fronte a una superpotenza che, ignorando qualsiasi regola di diritto internazionale, invade un paese sovrano, scatena una guerra devastante e provoca la morte di migliaia di civili (per di più usando l’ipocrita retorica dell’operazione di peacekeeping, che abbiamo imparato a conoscere bene negli ultimi decenni…). Un atto del genere deve essere condannato “senza se e senza ma”, come si diceva un tempo. Ovviamente nessun pacifista – né tantomeno Luciana Castellina – ha mai giustificato né sminuito le responsabilità di Putin: e tuttavia, l’enfasi quasi esclusiva sulle politiche dell’Alleanza Atlantica suona quantomeno “fuori fuoco” di fronte al fatto gravissimo del momento, l’invasione ingiustificata (e ingiustificabile) di un paese e di una intera popolazione civile.

2. Il gesto di Putin non è affatto un “eccesso di legittima difesa”: e in Ucraina le repubbliche filo-russe sono corresponsabili del clima di violenza che si è consolidato in questi anni. La propaganda putiniana cerca di presentare l’aggressione come un atto di legittima difesa, a tutela delle minoranze russofone che vivono nelle regioni orientali e meridionali del paese guidato da Volodymyr Zelensky. Anche su questo punto va fatta chiarezza: è vero che in Ucraina, a partire almeno dal 2014, si è assistito a una drammatica escalation di violenze nazionaliste; è altrettanto vero però che i responsabili di questa escalation sono stati tanto i gruppi dirigenti di Kiev quanto i leaders delle autoproclamate «repubbliche popolari» filo-russe e filo-Putin.

Per quanto riguarda il nazionalismo ucraino, si è registrata una sempre maggiore presenza sulla scena pubblica di gruppi esplicitamente neofascisti e neonazisti, spesso non ostacolati o addirittura coperti dal governo di Kiev. Tra gli episodi più drammatici va ricordata la strage di Odessa del 2 Maggio 2014, quando i militanti di Pravyj Sektor – una delle forze più aggressive della galassia neonazi – hanno dato alle fiamme il Palazzo dei Sindacati, dove avevano trovato rifugio alcune decine di manifestanti filo-russi disarmati: il bilancio ufficiale fu di trentotto morti, alcuni dei quali uccisi dagli aguzzini di Pravyj Sektor mentre cercavano di sfuggire alle fiamme.

Sul fronte delle autoproclamate «Repubbliche Popolari», però, le cose non sono molto migliori. I dirigenti di queste entità pseudo-statali provengono quasi tutti dall’estrema destra nazionalista russa, e hanno legami organici con quell’Aleksandr Dugin che è oggi l’eminenza grigia del neofascismo europeo (e che in passato, non a caso, ha avuto rapporti anche con la Lega). Nel Donetsk, una delle due «repubbliche», i dissidenti filo-ucraini vengono spediti senza troppi complimenti a Izoliatsiia, un centro di torture che quanto a ferocia non ha nulla da invidiare a Guantanamo. Le minoranze religiose sono perseguitate, i partiti politici di opposizione sono fuorilegge, e di recente persino le manifestazioni sindacali dei minatori sono state duramente represse. Putin, dunque, non ha alcun titolo a presentarsi quale «garante» dei diritti umani in Ucraina, visto che è lui stesso a violarli nelle zone sotto il suo controllo.

3. Una escalation militare in risposta all’invasione di Putin porterebbe inevitabilmente ad allargare il conflitto, coinvolgendo l’intera Europa. Se il gesto di Putin non trova alcuna giustificazione, contrastarlo con una reazione militare significherebbe coinvolgere tutta l’Europa in un conflitto di dimensioni spaventose. Sta qui il motivo per cui dobbiamo urgentemente sottrarci alla retorica bellicista imperante: che è tanto più ipocrita, in quanto proviene da politici e uomini di Stato che nel corso degli anni hanno a più riprese «flirtato» con la Russia putiniana. Inviare contingenti in Ucraina, o anche solo armare i paesi vicini come la Polonia o la Romania, significherebbe precipitare rapidamente in una guerra mondiale. Non possiamo permettercelo.

4. Una risposta pacifista è oggi difficile ma non impossibile. Non dobbiamo nasconderci che, in questo scenario, l’opzione pacifista è difficile e per molti aspetti contro-intuitiva. Il primo obiettivo – tutt’altro che semplice da raggiungere – deve essere quello di arrivare a un cessate il fuoco, in assenza del quale qualsiasi strategia mirata a contenere l’escalation rischia di segnare il passo.

Decisivo in questo senso può essere il dissenso interno in Russia, che può spingere Putin a fare un passo indietro. Le migliaia di manifestanti scesi per le strade in varie città russe, la presa di posizione della direttrice del Teatro di Mosca, o la coraggiosa scelta del giornale Novaya Gazeta (la testata dove lavorava Anna Politkovskaya, oggi diretta dal Nobel per la Pace Dmitrij Muratov) che è uscito in edizione bilingue russa e ucraina, ci dicono che qualcosa si sta muovendo. Parallelamente, la Russia putiniana va accerchiata con l’isolamento diplomatico e commerciale, e con sanzioni che – come ha scritto Thomas Piketty nell’ultimo numero di Internazionale – colpiscano gli oligarchi e la cerchia di potere di Putin, e non la popolazione.

5. La diaspora ucraina e i rifugiati: messaggeri di pace. Nel medio-lungo periodo, le migliori risorse per una svolta di pace possono essere proprio gli emigranti ucraini (e russi) in Europa, così come i tanti rifugiati che in queste ore stanno lasciando il paese in cerca di salvezza.

Se le sirene delle due opposte (e complementari) propagande nazionaliste si fanno sentire, condizionando anche le rispettive diaspore, resta vero che la popolazione civile ucraina possiede robusti anticorpi, che possono rappresentare la premessa di un nuovo discorso pubblico orientato alla pace. Quasi tutti gli ucraini sono bilingui – parlano o capiscono perfettamente sia il russo che l’ucraino – e molti dei cosiddetti “russofoni” non si percepiscono come un gruppo etnico separato: il mito delle “due Ucraine” è per l’appunto un mito fomentato ad arte. Nelle zone occidentali del paese si parla addirittura uno slang popolare – il suržyk – che è un mix tra russo e ucraino: una mescolanza linguistica molto frequente nelle zone di contatto e di confine. Persino il successo elettorale dell’attuale presidente Zelensky – personaggio in sé tutt’altro che trasparente – ha rappresentato, nell’ormai lontano 2019, una sorta di protesta popolare contro le politiche ultranazionaliste del suo predecessore Petro Poroshenko.

Gli anticorpi al nazionalismo, insomma, ci sono: si tratta di farli emergere, di conferire loro dignità di discorso pubblico. Occorre evitare una jugoslavizzazione dell’Ucraina: è, questo, un obiettivo centrale di un nuovo movimento pacifista.

Come già è accaduto in altre occasioni di conflitto, dunque, l’impegno per i rifugiati e gli esuli è un tassello decisivo dell’impegno per la pace. Chiedere con forza l’apertura delle frontiere, costruire “dal basso” forme di accoglienza diffusa, creare reti di mutuo soccorso e di convivialità con i profughi e i rifugiati, rivendicare diritti e garanzie per tutti gli emigranti e i richiedenti asilo, sono una parte essenziale della difficile lotta per la pace.

Sergio Bontempelli

Rifugiati ambientali: dopo il convegno di Milano

Articolo scritto dal collettivo redazionale, pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere, 2 Ottobre 2016

 

Il Convegno su “Il Secolo dei Rifugiati Ambientali”. Leggi gli atti

All’indomani del Convegno Internazionale “Il secolo dei rifugiati ambientali”,  il collettivo redazionale di Adif – Associazione Diritti e Frontiere, ha pubblicato sul proprio sito web questo articolo, risultato di una riflessione collettiva

Il convegno su Il Secolo dei Rifugiati Ambientali?, organizzato dall’europarlamentare on. Barbara Spinelli con il contributo, tra gli altri, della nostra associazione, ha segnato una piccola ma significativa “pietra miliare” nel dibattito politico italiano. Finora, infatti, il tema dei “rifugiati ambientali” è stato ampiamente discusso a livello internazionale ed europeo [si veda, per un primo inquadramento, qui e qui], ma ha ricevuto scarsa e sporadica attenzione nel nostro paese.

L’appuntamento di Milano ha rappresentato da questo punto di vista una positiva inversione di tendenza, perché – forse per la prima volta qui da noi – attivisti, ricercatori, studiosi e policy-makers hanno potuto confrontarsi su un tema di drammatica attualità: si è fatto, potremmo dire, un passo avanti nella doverosa sprovincializzazione del dibattito sui fenomeni migratori.

Riascolta il convegno su Radio Radicale o guarda i video su youtube: Sessione prima e Sessione seconda

Il tema dei rifugiati ambientali è tuttavia straordinariamente complesso, non privo di ambiguità e di questioni non risolte: così, come era prevedibile, dalla sala del Palazzo Reale sono uscite preziose indicazioni politiche, ma anche e soprattutto domande, temi da approfondire, interrogativi su cui ragionare, nodi ancora da sciogliere. Proviamo dunque a ripercorrere, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni punti su cui continuare a discutere, a partire dai tanti stimoli venuti dal convegno.

Umano, troppo umano: disuguaglianze globali e cambiamenti climatici

Recenti stime dicono che il numero dei rifugiati ambientali nel 2015 ha superato quello dei profughi di guerra: il fenomeno riguarda soprattutto i cosiddetti internally displaced persons o “sfollati interni” – cioè coloro che fuggono da case, villaggi e città senza varcare i confini del proprio paese – ma naturalmente coinvolge anche migranti e rifugiati “internazionali”. Già oggi, dunque, le migrazioni forzate nascono non tanto e non solo dalle guerre, dai conflitti e dalle persecuzioni politiche, quanto e soprattutto dai cambiamenti climatici e dalle loro conseguenze nei territori interessati.

I cambiamenti climatici, però, sono fenomeni assai poco naturali. Certo, la piena di un fiume, un’alluvione o una stagione all’insegna della siccità sono eventi che appartengono alla natura, ma il mutamento globale delle condizioni climatiche è dovuto essenzialmente all’azione dell’uomo. L’alterazione dell’ecosistema, in particolare, è l’esito ultimo di un modello di sviluppo fondato sulle disuguaglianze, sull’appropriazione indebita di risorse, sullo sfruttamento irresponsabile del pianeta e delle sue ricchezze.

Per approfondire. Leggi il dossier “Crisi ambientale e migrazioni forzate”, di Associazione A Sud

I rifugiati ambientali, dunque, non sono vittime di un destino “cinico e baro”: sono, invece, il prodotto di un rapporto ineguale tra “Nord” e “Sud” del mondo. E non è un caso se proprio dal “Sud” – dai paesi che con eufemismo poco brillante chiamiamo “in via di sviluppo” – vengono gran parte dei flussi legati, direttamente o indirettamente, alle catastrofi ambientali.

Ecco dunque il primo, fondamentale tema emerso dal convegno: intervenire sulle migrazioni forzate indotte dal climate change significa contestare un modello economico neo-liberista e neo-coloniale, che depreda i tanti Sud del mondo e, al contempo, mette e repentaglio il fragile equilibrio tra la specie umana e le risorse del pianeta. Mai come oggi la giustizia sociale è indissociabile dalla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Climate change e migrazioni: una relazione complessa

La relazione tra cambiamenti climatici e migrazioni è però straordinariamente complessa, e il convegno di Milano ha avuto il merito di mettere in evidenza questa complessità. Occorre diffidare di catene troppo lineari di causa / effetto: quelle per cui ogni catastrofe ambientale sarebbe il prodotto del climate change, e produrrebbe a sua volta, inevitabilmente, profughi e migranti forzati.

Come hanno sottolineato molti esperti al convegno di Milano, le cose non sono così semplici. Da un lato, infatti, è impossibile attribuire in modo univoco il singolo evento ai cambiamenti climatici del pianeta: siccità, uragani, inondazioni e alluvioni sono sempre esistite, quel che cambia è “soltanto” (si fa per dire) la loro frequenza su scala globale.

Dall’altro lato, il climate change non produce solo eventi catastrofici – come uragani o alluvioni, appunto – ma anche fenomeni di più lungo periodo (si pensi alla progressiva desertificazione di intere aree del mondo). In questi casi, la rarefazione delle risorse disponibili alimenta e rafforza diseguaglianze, conflitti armati, guerre, che a loro volta producono migrazioni forzate.

Il rapporto tra mutamenti climatici e flussi di profughi è dunque indiretto, non lineare. Ciò rende difficile istituire la categoria giuridica dei “rifugiati ambientali”, perché non è sempre possibile stabilire una relazione immediata di causa/effetto tra fenomeni ambientali e migrazioni.

Ripensare la differenza tra migrazioni “economiche” e “forzate”

Migranti economici e richiedenti asilo: una divisione che discrimina. Fulvio Vassallo Paleologo, dal sito di ADIF

E tuttavia, a guardar bene questa ambiguità non riguarda solo i “profughi ambientali”, ma tutti i rifugiati: perché anche nel caso dei richiedenti asilo “classici” non è sempre facile stabilire una relazione diretta, univoca e lineare tra persecuzione politica e migrazione. Spesso – per non dire sempre – le cose sono più complesse: l’esperienza migratoria nasce da un ampio spettro di motivazioni, in cui si intrecciano necessità e scelta, motivi economici e ragioni politiche.

Da questo punto di vista – ed è una ulteriore, preziosa indicazione che ci viene dal convegno di Milano – è proprio la distinzione tra migrante economico e rifugiato che andrebbe ripensata a fondo: questa distinzione è servita, soprattutto negli ultimi anni, a legittimare ulteriori chiusure delle frontiere, e interpretazioni sempre più restrittive del diritto di asilo.

La redazione

Per approfondire:

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