Diritti dei migranti e antirazzismo

Tag: rebeldia

Pisa, un marchio per non essere marchiati

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa Rivista, 6 Novembre 2018

La mensa universitaria è in pieno centro, a due passi dalla storica Piazza dei Cavalieri: gli studenti, dopo pranzo, si attardano nei bar della zona e sorseggiano i loro caffè, in attesa di tornare a lezione. Tra i tavolini all’aperto, collocati negli angusti vicoli medievali, fanno capolino spesso gli ambulanti senegalesi: vendono accendini, fazzoletti, portachiavi, ombrelli. Le reazioni degli studenti sono diverse: c’è chi si ferma a parlare, chi compra qualcosa, chi fa l’elemosina e regala qualche spicciolo. E poi c’è chi si infastidisce, e manda via in malo modo il venditore.

Siamo a Pisa, piccola città famosa per la sua “Torre Pendente”, che è giusto a due passi dalla zona universitaria: basta allontanarsi di qualche metro, costeggiando la Facoltà di Lingue, e si arriva davanti alla Torre. Qui il paesaggio umano cambia: di studenti se ne vedono pochi, di pisani “autoctoni” ancor meno. La Piazza dei Miracoli, col suo complesso monumentale, è piena fino all’inverosimile di turisti. Ci sono anche i venditori senegalesi, che però vendono merci più adatte alla clientela di questa porzione di città: bastoni da selfie, cappelli per ripararsi dal sole, magliette, souvenir della Torre.

I senegalesi sono una componente storica dell’immigrazione in Toscana, e in particolare a Pisa. I primi arrivi risalgono alla fine degli anni Ottanta: le fabbriche della provincia – soprattutto le concerie del Valdarno – avevano un disperato bisogno di manodopera, e i giovani africani trovavano facilmente un impiego. Per più di venti anni, le piccole e medie imprese del circondario hanno fatto fortuna grazie al lavoro di migliaia di operai senegalesi. Poi è arrivata la crisi, molte aziende hanno chiuso, e in tanti sono rimasti disoccupati: alcuni sono tornati in Senegal, altri hanno cercato fortuna nel Nord Italia, ma qualcuno è rimasto qui, in attesa di tempi migliori. E per sbarcare il lunario ha deciso di fare l’ambulante.

«Devo mantenere la mia famiglia, i miei figli, ma non voglio rubare né spacciare droga», ci spiega Abdul, che vende nella zona del Duomo. Ed è un discorso che si sente fare spesso dai senegalesi che abitano a Pisa: fare l’ambulante, per molti di loro, significa guadagnarsi da vivere onestamente. Senza rubare né spacciare, appunto. Il problema è che, da qualche anno a questa parte, la vendita ambulante è stata criminalizzata: le amministrazioni locali la considerano sinonimo di “degrado”, e i commercianti – soprattutto quelli nella zona turistica – si lamentano della presenza dei senegalesi vicino ai loro negozi.

Ma il tema caldo del dibattito cittadino è il commercio di oggetti contraffatti: alcuni ambulanti vendono borse e cappotti “firmati”, con le etichette false dei marchi più conosciuti e prestigiosi (Calvin Klein, Gucci etc.). Abdul, che ha scelto di non vendere questi oggetti “griffati”, ci spiega che molti suoi connazionali lo fanno perché in questo modo guadagnano di più: «I turisti non comprano né accendini né bastoni da selfie: tutti ci chiedono qualche borsa con il marchio».

La vendita di oggetti contraffatti è una violazione delle norme in materia di diritto d’autore (un reato simile, per capirci, a quello che si compie scaricando illegalmente film o pezzi musicali), ed è punito con sanzioni penali severissime, tra cui la revoca del permesso di soggiorno. Così, da qualche anno alcuni senegalesi si chiedono come poter continuare a vendere e a sopravvivere, senza correre rischi così alti.

È da questa riflessione collettiva che è nata l’idea di produrre un proprio marchio, un “brand” dei “senegalesi di Pisa”, da applicare alle borse e ai capi di abbigliamento venduti per le strade della città: un’idea che prende spunto da un’analoga iniziativa avviata a Salerno, sempre dalle comunità senegalesi. L’obiettivo è quello di creare curiosità attorno al nuovo marchio, così da spingere i turisti e i passanti a comprare i relativi prodotti, rinunciando ai brand più prestigiosi.

Il progetto è ancora in fase di definizione, ma i senegalesi sono ottimisti. «Sarà un modo per evitare la diffusione di oggetti contraffatti», scrivono in un comunicato firmato dalla loro associazione di riferimento, Senegal Mbolo, e da due associazioni cittadine di solidarietà, Africa Insieme e Rebeldia. «Invece di commercializzare borse, occhiali e vestiti “di marca”, venderemo borse, occhiali e vestiti caratterizzati dal nostro marchio. Sarà l’unico marchio che nasce dalle strade e dalle piazze di Pisa: un vanto per la città, un suo prodotto tipico e originale. Si chiamerà ABUSIF, ma sarà abusivo solo di nome».

(Sergio Bontempelli)

C’era una volta il Questore di Pisa

Sergio Bontempelli e Dario Danti
originariamente pubblicato su «Carta», settimanale, 15-21 Gennaio 2004

19 Luglio 2003: all’alba, la polizia irrompe nei locali occupati dai disobbedienti e ne ordina lo sgombero, provvedendo anche alla denuncia degli occupanti. Siamo a Pisa, e nella città che ha dato i natali al ‘68 nessuno si scandalizza per l’occupazione di un edificio abbandonato: specialmente se quello stesso edificio diventa per 50 giorni un luogo di incontri, dibattiti e feste aperte a tutti, e se gli occupanti provvedono alla bonifica dell’area circostante (divenuta nel tempo una comoda ed invisibile discarica in pieno centro cittadino). Lo sgombero appare però, ad occhi poco attenti, una storia come tante altre: in fondo quei ragazzi, pur avendo suscitato le simpatie degli abitanti del quartiere, hanno commesso un reato, e la polizia ha pur sempre fatto il suo dovere. Certo, ha usato modi insolitamente duri che si potevano evitare: ma sono cose che capitano.

E invece non si tratta del “solito” sgombero: siamo di fronte – lo vedremo tra poco – al prologo di un’altra storia. I ragazzi del Rebeldia – così era stata ribattezzata la struttura nei 50 giorni dell’occupazione – protestano, fanno sentire la loro voce e decidono di rientrare nell’edificio per poche ore, a titolo simbolico. La risposta della polizia non si fa attendere: e lo sgombero, stavolta, è eseguito con insolita durezza. Il capo della DIGOS, nel corso delle operazioni, estrae addirittura la pistola: lo ferma solo l’intervento di Giovanni Russo Spena e Titti de Simone, deputati di Rifondazione giunti a Pisa per garantire lo svolgimento pacifico della manifestazione.

5 Giugno 2003: la stampa locale dà notizia che, nell’ambito della riorganizzazione interna della Questura, il Dirigente dell’Ufficio Immigrazione dott. Giuffrida viene confermato nel suo incarico. Cambia, invece, il responsabile della Divisione P.A.S., cioè la struttura che coordina il lavoro degli uffici amministrativi (passaporti, porto d’armi, immigrazione ecc.). Passano circa due mesi e cambia anche il dirigente dell’Ufficio Immigrazione. Sembrano normali avvicendamenti burocratici, come quelli già avvenuti pochi mesi prima ai vertici della DIGOS, e nessuno dà peso alla notizia: ma anche le piccole cose, a volte, hanno la loro importanza.

E infatti, nell’arco di poche settimane cambia tutto: l’Ufficio Immigrazione decide di non ricevere più né avvocati, né associazioni. I problemi che da anni caratterizzano lo sportello al pubblico – scarsità di personale, fascicoli persi, violazione sistematica dei diritti degli utenti – non vengono più risolti dall’intervento del dirigente, e si trasformano in veri e propri drammi: gli stranieri sono costretti a fare lunghe file per sentirsi dire che il soggiorno è stato perso, e non possono rivolgersi ad un legale. Per di più, l’intraprendente responsabile della divisione P.A.S. decide di negare il permesso di soggiorno a numerosi rom del campo nomadi, per i quali un progetto del Comune – generosamente finanziato dalla Regione Toscana – prevedeva percorsi di regolarizzazione e l’inserimento abitativo in case popolari o in alloggi pubblici.

Così, a trovarsi vittime di una nuova gestione autoritaria della Questura sono non solo i disobbedienti del Rebeldia, ma anche gli stranieri, gli avvocati, le associazioni di volontariato e gli stessi enti locali. E il comportamento del nuovo Questore dott. Eugenio Introcaso, da poco più di un anno a Pisa, comincia ad assumere un profilo chiaro: non si tratta infatti dell’eccesso di zelo di un poliziotto troppo legato al suo ruolo, ma di un vero e proprio progetto politico. Sulla stampa locale, per tutto l’anno 2003, appaiono centinaia di articoli che celebrano le gesta della Polizia di Stato: retate contro prostitute e stranieri, azioni antiracket, controllo capillare del territorio, sequestro di merce contraffatta sono notizie che ogni giorno rimbalzano sulle prime pagine e sulle “civette” dei giornali.

Il dott. Introcaso, insomma, comunica direttamente con l’opinione pubblica e con la stampa locale, vuole parlare al “cittadino” e all’”uomo qualunque” solleticando il suo bisogno di ordine e sicurezza. E rifiuta ogni forma di mediazione sociale: gli enti locali, i sindaci, le associazioni, gli stessi avvocati sono un fastidio inutile. Il progetto di Introcaso sembra calare dall’alto: e la nuova Questura, con quel mix di gestione autoritaria e di comunicazione mediale, appare la longa manus berlusconiana in una piccola città della “rossa” Toscana.

E’ forse anche per questo motivo che, per lunghi mesi, nessuno apre bocca per contestare i nuovi orientamenti della polizia locale: il dott. Introcaso sembra molto forte, è sicuro di sé ed è protetto da Roma. L’orientamento decisionista della Questura finisce così per nutrirsi di un ingrediente fondamentale per ogni progetto politico autoritario: la paura. Hanno paura gli stranieri, che temono per i loro permessi di soggiorno; hanno paura le associazioni di volontariato, che difendono persone vulnerabili e temono ritorsioni contro i loro assistiti; hanno paura gli enti locali, che nel dott. Introcaso vedono un uomo potente e inattaccabile; e si ha paura per le decine di denunce che piovono ad ogni manifestazione e iniziativa pubblica.

Così, per mesi interi nessuno fa il primo passo, e la foto del dott. Introcaso campeggia indisturbata su tutti i quotidiani locali, a garantire quiete e sicurezza al cittadino comune. Sono poche le storie a lieto fine, ma questa per fortuna lo è. I ragazzi del Rebeldia sono i primi a rompere il silenzio. “La questione dello spazio” – racconta Ciccio Auletta dei disobbedienti – “diventa la questione degli spazi. Abbiamo denunciato i tanti immobili di proprietà dell’Università comprati e lasciati abbandonati da anni: si tratta di migliaia di metri quadri in pieno centro”. Così a Novembre l’occupazione temporanea della ex officina Fiat Etruria vede all’interno una tre giorni di socialità e politica. Intorno a questa esigenza di “intendere lo spazio pubblico come bene comune” si forma anche un cartello della società civile con l’adesione di oltre trenta associazioni cittadine e, tra i singoli, del regista di Segreti di Stato Paolo Benvenuti. All’inizio di Dicembre, due nuove occupazioni – una dei disobbedienti, l’altra degli studenti delle scuole superiori – finiscono con il solito sgombero e con le solite minacce.

Gli occupanti non ci stanno e protestano pubblicamente: chiedono solidarietà e si rivolgono ai partiti, al sindaco, agli enti locali. In poche ore il clima di silenzio si trasforma in un frastuono assordante: contro gli sgomberi intervengono Rifondazione, i Verdi, la Margherita, i DS, il Sindaco di Pisa e il Presidente della Provincia, il consiglio comunale e due consigli di circoscrizione, gli ultras della squadra di calcio, la Legambiente e la Rete di Lilliput. Un lungo corteo di mille persone – la stessa “gente” che doveva costituire l’interlocutore naturale del dott. Introcaso – sfila per le strade cittadine.

Il silenzio si è rotto, e a prendere coraggio sono stavolta gli stessi poliziotti in servizio alla Questura di Pisa, vessati da provvedimenti disciplinari e trasferimenti punitivi: nessuno ci aveva pensato – forse per l’antica diffidenza che una città sessantottina riserva alla gente in divisa – ma sono loro le prime vittime del “nuovo corso”. Il 14 Dicembre, quattro sigle sindacali per la prima volta unite attaccano, e denunciano sulla stampa locale il “clima di terrore” instaurato all’interno della Questura.

Passano pochi giorni e arriva l’ultima bordata. Africa Insieme, la storica associazione cittadina impegnata sui diritti dei migranti, accusa l’Ufficio Immigrazione: minacce, pratiche sparite, diritti sistematicamente calpestati, irreperibilità dei dirigenti. E annuncia tre interrogazioni parlamentari: una, alla Camera, di Giovanni Russo Spena (PRC), una al Senato di Stefano Boco (Verdi) e l’ultima, sempre al Senato, dell’ex Rettore dell’Università di Pisa Luciano Modica e della senatrice Vittoria Franco (DS).

“Per chi, come noi, l’ha vissuta dall’interno”, spiega Giuliano Campioni, docente universitario e Presidente di Africa Insieme, “questa è una storia drammatica, difficile, costellata di paure e di preoccupazione. A raccontarla, invece, sembra sin troppo banale”. Banale perché, anzitutto, come le favole dei bambini, ha un lieto fine: il 27 Dicembre, pochi giorni dopo le numerose denunce pubbliche contro l’operato del Questore, i giornali locali annunciano il trasferimento del dott. Introcaso a Taranto. E poi perché, come le più stucchevoli storie dei bambini, ha una “morale della favola”. Anzi due.

La prima “morale della favola” è che la paura è cattiva consigliera: chi sembra invincibile spesso non lo è, e gioca proprio sul timore di chi gli sta vicino, sul suo silenzio e sulla sua forzata complicità. La seconda “morale della favola” è che l’unione fa la forza. Nessuno prima d’ora, a Pisa e forse anche altrove, aveva anche solo immaginato che potessero finire dalla stessa parte, ognuno col suo linguaggio, i disobbedienti, i migranti, il volontariato e i sindacati di polizia: e invece è proprio la pluralità delle voci che ha garantito efficacia e risultati. Un lieto fine e due morali della favola: proprio una piccola storia, insomma, quella di Pisa. Quasi non valeva la pena raccontarla.

Sergio Bontempelli e Dario Danti

© 2024 Sergio Bontempelli

Theme by Anders NorenUp ↑