Diritti dei migranti e antirazzismo

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Sulla cittadinanza, un referendum “anti-sovranista”

Originariamente pubblicato sul sito dell’Associazione Libertà e Giustizia

L’8 e il 9 giugno i cittadini saranno chiamati al voto su cinque referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza. Sabato 12 aprile parte formalmente la campagna elettorale con l’obiettivo iniziale di raggiungere il quorum.
Il quinto quesito chiede in sostanza che venga dimezzato (da 10 a 5 anni) il tempo di permanenza “sul territorio della Repubblica” per ottenere la cittadinanza: le norme attuali risalgono al 1992 e da allora la società italiana è cambiata.

Sono circa un milione e mezzo i residenti stranieri che hanno in tasca un permesso di soggiorno “per soggiornanti di lungo periodo”, valido cioè a tempo indeterminato: un documento che si può richiedere dopo cinque anni di permanenza regolare e ininterrotta sul territorio nazionale, a condizione di avere una serie di requisiti (reddito, alloggio, conoscenza della lingua ecc.). I titolari di questo permesso abitano in Italia da molto tempo – a volte anche da decenni –, spesso hanno figli nati e cresciuti in Italia, e in ogni caso hanno scelto il nostro Paese come luogo in cui vivere, lavorare, costruire relazioni, metter su famiglia, comprare casa, avere dei bambini, invecchiare. Non stiamo parlando dunque di “immigrati” ma di “ex immigrati”: perché la condizione di “immigrato” – come quella di “straniero” – non è eterna, non resta attaccata alle persone come i tatuaggi, o come certe fastidiose cicatrici che ci facciamo da bambini e non se ne vanno più via.

Se guardiamo al mondo della scuola, ci accorgiamo che gli alunni stranieri sono quasi un milione, e ben 600mila sono nati in Italia da genitori non italiani. Qui abbiamo il paradosso di giovani uomini e giovani donne che le statistiche ufficiali classificano come “immigrati”, e che però non hanno mai avuto un’esperienza migratoria in tutta la loro vita (sono nati nello stesso Paese in cui sono cresciuti e in cui studiano). A dir la verità, anche gli altri 400mila alunni “non italiani” sono difficilmente collocabili nella categoria dei migranti: non sono nati sul territorio nazionale, è vero, ma spesso vi sono arrivati in tenera età, quando erano piccoli o piccolissimi, e non hanno memoria di aver vissuto altrove. L’Italia, molto semplicemente, è la loro terra.

Ecco due esempi di “italiani senza cittadinanza”: di persone, cioè, che sono classificate come “altre” e “straniere” dalla Pubblica Amministrazione, e che però nei fatti sono parte integrante del “noi”. Non stiamo parlando di casi isolati né di sparute minoranze, ma di milioni di uomini, donne, ragazze e ragazzi: un’intera fetta della popolazione esclusa dai diritti politici e dall’appartenenza alla collettività nazionale. Questa vera e propria “segregazione giuridica” – difficile definirla in altro modo – è il prodotto due fattori che nel corso del tempo si sono intrecciati e rafforzati a vicenda: una legge sulla cittadinanza vecchia e inadeguata, e un’ideologia nazionalista “sangue e suolo” condivisa da politici, giornalisti e funzionari ministeriali. Un mix esplosivo.

La legge che regola l’acquisizione della cittadinanza risale al 1992: venne scritta e approvata in un periodo storico in cui l’Italia si pensava ancora come Paese di emigranti e non come terra di immigrati. Per la verità, in quegli anni stavano già arrivando lavoratori provenienti dal Marocco, dall’Albania, dalla Tunisia o dal Senegal, e già allora si sapeva che l’immigrazione sarebbe divenuta prima o poi un fenomeno rilevante: non erano chiare, però, le conseguenze di un cambiamento così radicale.

La legge si preoccupava di tutelare i connazionali che vivevano all’estero, e per questo garantiva un’applicazione molto estesa del principio di discendenza (il cosiddetto “ius sanguinis”): tutti i bambini nati in altri Paesi, se avevano familiari o avi italiani, diventavano a loro volta italiani. Per gli immigrati residenti nello Stivale, invece, i meccanismi di acquisizione della nazionalità erano astrusi e farraginosi: chi nasceva sul territorio da genitori stranieri doveva arrivare a diciotto anni prima di poter diventare italiano per “diritto di nascita” (il cosiddetto “ius soli”), mentre lo straniero adulto doveva risiedere ininterrottamente per un intero decennio nella Penisola prima di chiedere la cittadinanza per “naturalizzazione”. Era una norma, insomma, che guardava al passato e non al futuro, agli emigranti e non agli immigrati.

Nulla di strano e nulla di grave: sono moltissime le leggi che, approvate in un determinato periodo, si rivelano inadeguate a fronteggiare le sfide di un’altra fase storica. Sarebbe bastato modificare e aggiornare la norma, introducendo forme di naturalizzazione più ragionevoli, e garantendo la cittadinanza a chi nasceva e cresceva in Italia. Ma qui è intervenuto il secondo fattore che nel corso dei decenni ha inquinato tutto il dibattito, e cioè l’ideologia tossica del “sangue e suolo”. Il “diritto di discendenza” – lo abbiamo visto – era stato pensato per mantenere un legame tra la Repubblica e la sua diaspora: accordare la cittadinanza ai figli e ai nipoti degli emigranti significava cioè assicurarsi che le comunità italiane all’estero rimanessero in contatto con la madrepatria. Negli ultimi decenni, però, questa esigenza “pragmatica” ha lasciato il posto a una concezione familistica e razziale della nazionalità: si è cominciato a dire che “è italiano chi ha sangue italiano”, cioè chi può “vantare” (si fa per dire) una discendenza da avi italiani. Tutti gli altri – gli stranieri residenti da lungo tempo sul territorio, e i bambini nati in Italia da genitori immigrati – sono e devono rimanere stranieri, salvo casi eccezionali e sporadici.

Intendiamoci: questa ideologia “sangue e suolo” non è una novità in senso assoluto. L’Italia è pur sempre il Paese che ha approvato le leggi razziali antiebraiche del 1938, e altre leggi razziali troppo spesso dimenticate, quelle dell’Impero coloniale (in cui i nativi furono esclusi dalla cittadinanza della madrepatria). All’indomani della Seconda Guerra Mondiale il fascismo era stato sconfitto, e la Repubblica si era data una Costituzione democratica ed egualitaria: eppure, nei recessi profondi dell’immaginario collettivo una certa immagine razzializzante dell’italianità ha continuato a circolare per decenni. Ed ecco il problema: negli ultimi tempi, questa immagine ha conosciuto una nuova fortuna, ed è entrata prepotentemente nel dibattito sulla cittadinanza. Lo abbiamo visto qualche anno fa, quando la campagna nazionale “l’Italia sono anch’io”, e alcune forze del centro-sinistra, hanno proposto di allargare le maglie dello “ius soli” in modo da tutelare i minori nati in Italia. La reazione del centro-destra è stata virulenta, e ha fatto emergere quell’immaginario razziale che sembrava definitivamente sepolto.

Non basta. Intimorite dall’aggressività dei loro avversari, e timorose di perdere voti, le forze di centro-sinistra hanno finito per modificare le loro argomentazioni, e per introiettare loro stesse un immaginario nazionalista. Molti commentatori e leader politici hanno cominciato a dire, per esempio, che la cittadinanza presupporrebbe la condivisione di una lingua e di alcuni “valori”: secondo questo ragionamento, chi vuol essere italiano deve parlare italiano, e deve aderire a una non meglio definita “cultura nazionale”. Può sembrare un discorso di buon senso, ma è in realtà un pericoloso scivolamento verso quell’idea di “omogeneità etnica”, che è in fondo il pilastro di ogni nazionalismo escludente e aggressivo.

È un’idea, oltretutto, che introduce una ingiustificata discriminazione tra coloro che sono italiani dalla nascita (la maggioranza della popolazione), e gli stranieri che acquisiscono la nazionalità in un momento successivo: perché non è affatto vero che, per i primi, la cittadinanza si fonda sulla condivisione di un’identità, di una cultura o di presunti “valori” comuni. Chi nasce da genitori italiani è italiano dal primo giorno di vita in base ad un automatismo di legge: a lui (o a lei) non viene chiesto di dimostrare la sua “italianità”, la sua padronanza dell’idioma nazionale o la sua adesione a un particolare stile di vita. Se appartiene a una minoranza linguistica – ad esempio ai sud-tirolesi di lingua tedesca dell’Alto Adige – e non parla bene italiano, nessuno gli toglierà la cittadinanza per questo. Se adotterà uno stile di vita “da straniero” (qualunque cosa ciò voglia dire), continuerà a essere giuridicamente un cittadino. In altri termini, la pretesa di attribuire lo status civitatis a chi possiede specifici tratti identitari si applica solo ed esclusivamente agli immigrati: è un modo per ribadire la loro presunta “diversità”.

La cittadinanza andrebbe svincolata dalla (presunta) identità etno-culturale, e ancorata semmai all’effettiva partecipazione alla vita collettiva: ad esempio, in una Repubblica che nella sua Carta Fondamentale si proclama “fondata sul lavoro”, dovrebbe essere cittadino chi col suo lavoro quotidiano (e con le tasse che paga allo Stato) contribuisce allo sviluppo economico e sociale del Paese. Il richiamo a una presunta “omogeneità” non fa che perpetuare il clima di avvelenato nazionalismo che stiamo vivendo in questi anni. Non c’è affatto bisogno di essere tutti uguali – di far parte della stessa presunta “etnia”, di avere gli stessi presunti “valori” o la stessa presunta “cultura” – per essere un corpo politico capace di auto-governarsi: la democrazia è la convivenza e la convivialità delle differenze, non l’omogeneizzazione forzata dei governati.

Il quesito referendario su cui siamo chiamati a votare l’8 e il 9 Giugno non interviene su questo insieme così ampio di problemi, e si limita a modificare  – come sempre accade in un referendum – una specifica disposizione di legge: il requisito di dieci anni di residenza ininterrotta sul territorio nazionale, necessario per richiedere la cittadinanza. Se vincono i SI, questo periodo verrebbe portato a cinque anni, cioè al tempo previsto da quasi tutti gli altri Paesi europei. Si tratta di una piccola modifica, certo, che però manderebbe un segnale importantissimo al mondo politico: gli elettori non tollerano più quella segregazione giuridica che ha ridotto decine di migliaia di persone allo status di “italiani senza cittadinanza”; e sono disposti, finalmente, a ragionare di una riforma più complessiva delle norme che regolano l’appartenenza alla collettività nazionale. Sarebbe, insomma, un primo passo per rimettere in discussione quel nazionalismo escludente e aggressivo, che ha pervaso il dibattito politico negli ultimi decenni.

Sergio Bontempelli

Sergio Bontempelli lavora nell’ambito della tutela legale dei migranti. Attualmente dirige gli sportelli per stranieri nei Comuni della Provincia di Pistoia per conto della Cooperativa ARCA. È Presidente dell’Associazione Africa Insieme di Pisa e membro di Adif-Associazione Diritti e Frontiere.

 

 

 

Riflessioni su fascismi, razzismi e non solo

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

Care lettrici, cari lettori

Stiamo seguendo, come molti, una accelerazione costante e complessa, non solo episodica di una pericolosa deriva autoritaria che investe non solo l’Italia. La marginalizzazione, se non la messa sul banco degli imputati di chi si rende “colpevole di solidarietà” verso i migranti, si accompagna a recrudescenze fascistoidi e razziste – i fatti di Macerata sono ad oggi solo l’apice – a cui mancano ancora risposte propositive. Anzi dalle istituzioni preposte giungono messaggi che possono divenire giustificatori e rassicuranti atti a non turbare una brutta campagna elettorale. Intanto forme di disagio sociale, che sarebbe erroneo e supponente giudicare come decodificabili con categorie binarie, mutano sempre più e in peggio un sentire comune permeato da paure indotte e, a volte, anche reali. Abbiamo provato -col testo che segue – ad accennare alcuni temi che meritano nel tempo ampia e più articolata riflessione. Abbiamo cercato di mettere questi temi in connessioni cercando di ribaltare la narrazione tossica dominante. Ci piacerebbe che questo servisse ad aprire un confronto aperto e privo di remore, perché soprattutto a sinistra di questo c’è bisogno. Domani 10 febbraio saremo come ADIF, nelle diverse piazze in cui si manifesta contro il terrorismo fascista e razzista. Lo riteniamo necessario ma non basta.
Buona lettura

 

 

1. Assistiamo, soprattutto negli ultimi mesi, ad una preoccupante crescita di movimenti fascisti, neo-fascisti e di estrema destra, che mai come oggi sembrano godere, tra l’altro, di ampi e diffusi consensi popolari. Gruppi politici esplicitamente fascisti, come Casa Pound, ottengono lusinghieri (per quanto ancora sporadici) risultati alle elezioni amministrative, si radicano in alcune periferie delle nostre città, e ottengono ascolto presso giornali e televisioni. Idee fino ad oggi ritenute estranee al discorso politico legittimo, e spesso coperte da un vero e proprio tabù discorsivo – il razzismo, il suprematismo bianco, il revisionismo storico, persino l’antisemitismo e l’odio razziale – entrano nei “normali” circuiti del dibattito pubblico, guadagnano credibilità, ottengono lo status di “opinioni” meritevoli di rispetto, quando non di attenzione e considerazione. Persino le aggressioni e le violenze razziste vengono giustificate e minimizzate, se non proprio legittimate e autorizzate. Emblematici, da questo punto di vista, sono molti commenti seguiti ai tragici fatti di Macerata: l’azione terroristica del neofascista Luca Traini è stata criticata, da molti uomini della destra italiana, ma anche dal ministro dell’interno Minniti, non per la sua violenza e il suo carico di odio, ma perché sarebbe sbagliato «farsi giustizia da soli». Come se una strage fosse, appunto, un atto di «giustizia»…

2. Per capire le origini, le cause e i possibili sviluppi di questo inquietante revival razzista e neofascista, è bene uscire dalla desolante provincia italiana, e guardare a cosa accade altrove, in Europa e nel mondo. Assistiamo quasi ovunque alla crescita di movimenti appartenenti alla destra eversiva; e quasi ovunque si registrano svolte autoritarie, attacchi alla democrazia, colpi di Stato più o meno mascherati (e più o meno sanguinosi). L’elenco è troppo lungo, e troppo noto a chi ci legge, per soffermarvisi. Basterà ricordare, tra i molti esempi possibili, il colpo di Stato di Al-Sisi in Egitto, che ha instaurato un regime dittatoriale tra i più feroci della storia del paese, la svolta autoritaria di Erdogan in Turchia, che ha portato in carcere centinaia di attivisti democratici e che oggi si lancia in una nuova avventura bellica, l’affermazione di partiti nazionalisti e antisemiti nell’Est Europeo – in primis Ungheria, Ucraina e Polonia – ma anche i recenti risultati elettorali in Austria, o, ancora, la temperie reazionaria in America Latina. Per non parlare di fenomeni largamente riportati sulla stampa italiana, e dunque assai più conosciuti qui da noi, come l’affermazione di Trump negli Stati Uniti. Si tratta, beninteso, di fenomeni molto diversi tra loro, che qui non proponiamo affatto di “equiparare”: essi sono tuttavia espressione di una diffusa tendenza neo-autoritaria, che come ovvio può assumere modalità diverse, a seconda dei contesti e dei paesi in cui prende piede.

3. Se teniamo conto di questo ampio contesto storico e geopolitico, non è difficile accorgersi che siamo in presenza di una vera e propria “crisi della democrazia”: la libertà di espressione, il diritto di manifestare, la partecipazione popolare, le garanzie dello Stato di diritto sono ovunque messe in discussione, delegittimate, poste sotto attacco (sia pure in modi e forme assai differenti, come non ci stancheremo di ripetere). Si direbbe che una parte del potere politico, collegato con i grandi gruppi economici, voglia (o debba) sbarazzarsi della democrazia, o almeno mettere tra parentesi, ridimensionare gli istituti democratici, per tornare a forme di governo autoritarie, fondate sul carisma del “capo” e, nei casi più drammatici, alla violenta repressione del dissenso e delle minoranze.

Non è difficile abbozzare una prima, approssimativa spiegazione di questo fenomeno involutivo. Posti di fronte alla rottura del “patto fordista” prima, e ai drammatici effetti della crisi economica e delle politiche di austerità poi, i poteri politici sono sempre meno in grado di governare i conflitti e i dissensi. Incapaci di agire come mediatori e garanti del patto sociale, costrette – o convinte – a praticare scelte anti-popolari, non più in grado di garantire una seppur minima redistribuzione delle risorse, le leadership di molti paesi del mondo (o per meglio dire una parte di esse) si orientano verso una gestione autoritaria del potere. Operazione politica che si traduce in misure legislative che cancellano i diritti dei lavoratori, e che si presta ad una redistribuzione della ricchezza a tutto vantaggio della rendita speculativa e delle multinazionali.

Per dirla in modo fin troppo semplicistico: è difficile governare in modo democratico e trasparente quando si devono imporre tagli alla sanità e alle pensioni, o quando si deve ridurre alla fame e alla disperazione una parte consistente del corpo sociale.

Quest’analisi, come ovvio, è parziale e non spiega tutto: ci consente però di fare un po’ di luce sui nessi, troppo spesso dimenticati, tra crisi della democrazia, globalizzazione e crisi economica. Di fatto – e il fenomeno è cresciuto come una lenta Weimar – si rafforza una nuova/antica incompatibilità fra diritti e profitti, fra capitale, impresa, finanza e democrazia sostanziale.

4. Si sarebbe tentati, di fronte a questa pericolosa involuzione della politica, di collocarsi in una posizione – per così dire – “difensiva”, a tutela di ciò che resta della dialettica democratica. In Italia, di fronte al dilagare del neo-fascismo, c’è chi richiama all’unità tutte le forze democratiche: al di là di pur legittimi dissensi, l’urgenza del momento imporrebbe di fare “fronte comune”, di costruire un argine alla deriva fascista e/o populista, di difendere le istituzioni della democrazia rappresentativa.

Matteo Renzi ha fatto largo uso di questa retorica, a fini strumentali di campagna elettorale: non è tempo di dividersi o di disperdere il voto, ha spiegato. Si chiede così di mantenere quella quiete e quel silenzio necessari in tempi brevi a non perdere consensi, in tempi lunghi a lasciare che i messaggi di odio possano proliferare. E si assiste a un Ministro dell’Interno che intende negare il diritto di manifestare, ponendo sullo stesso piano fascismo ed antifascismo.

5. Su un punto, ci pare, poco si è riflettuto in queste settimane: la destra in ascesa si presenta al mondo come una forza popolare, che tutela i ceti più deboli, che contrasta le politiche di austerità e i diktat europei, che si batte contro i privilegi delle élites e delle “caste”con un movimento non nuovo nella storia dei fascismi, chi sostiene i “padroni del vapore” si presenta al mondo come anticapitalista e anti-sistema; chi promuove una svolta autoritaria e anti-popolare si propone come soggetto rappresentativo proprio delle classi più svantaggiate; una politica eversiva (dell’ordine costituzionale) si maschera da politica sovversiva (a favore degli oppressi e degli sfruttati). Come già era accaduto con i fascismi storici, anche il neo-fascismo assume le vesti di un “socialismo degli imbecilli”.

Potrebbe sembrare un gioco di prestigio: eppure, è un fatto che i nuovi fascismi abbiano, negli ultimi anni, trasformato in rancore e in risentimento – dunque in risorsa politica per loro vantaggiosa – la rabbia popolare nei confronti delle politiche di austerità. In assenza di una sinistra degna di questo nome, sono i neofascisti a farsi interpreti del malessere di ampi strati della popolazione. E lo fanno secondo il copione ormai consolidato dei loro omologhi novecenteschi: scaricando la rabbia su facili “capri espiatori” – ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e i richiedenti asilo – e agitando slogan contro la “casta” dei politici, contro le burocrazie, contro privilegi veri, o più spesso presunti. È un meccanismo – dobbiamo riconoscerlo – che al momento funziona e che produce consenso.

Se le cose stanno così, è davvero possibile contrastare i neofascismi sostenendo – sia pure indirettamente, in modo temporaneo o puramente elettorale – chi ha finora promosso politiche di austerità e di impoverimento? Non si rischia in questo modo proprio di accreditare l’immagine dei neofascismi come unici movimenti di reale opposizione all’establishment? 

6. L’antifascismo, oggi come ieri, non può non fare i conti con la crisi economica e con i fenomeni di progressivo impoverimento indotti dalle politiche di austerità. E non può presentarsi in alcun modo come un supporto all’establishment, pena la perdita della sua stessa ragion d’essere. Una sinistra che non tuteli i lavoratori e le lavoratrici, che non si opponga davvero alle scelte antipopolari degli ultimi anni, è destinata a favorire la destra, ad accreditarla come unica forza “anti-sistema”.

È invece necessario mostrare che i nuovi fascismi – come già quelli “vecchi” – sono tutt’altro che anti-sistema. La Lega Nord, dopo aver fatto il cane da guardia ai governi Berlusconi, dopo aver votato i peggiori provvedimenti monetaristi e liberisti di quei governi, in Italia come in Europa, si presenta oggi come sostenitrice della “sovranità popolare contro l’euro”: ma il suo “sovranismo”, guardato un po’ più da vicino, è nient’altro che un liberismo selvaggio, temperato da qualche dazio doganale (e dalla svalutazione della moneta) per favorire i piccoli imprenditori del Nord-Est. Nulla che interessi le classi popolari, i lavoratori e le lavoratrici, i pensionati e i giovani precari.

Non sarebbe difficile, per una sinistra che davvero contrastasse le politiche di austerità, smascherare questo equivoco. Ma se ci si muove sul terreno minato dell’«unità democratica», se si sostiene per l’appunto l’establishment in nome di una logica rinunciataria e difensiva («meglio chi comanda oggi rispetto ai fascisti»), il rischio è proprio quello di alimentare il flusso di consensi alla destra estrema.

7. È necessario affermare con forza che i nuovi fascismi non agitano affatto “problemi reali”, come si sente dire sempre più spesso: piuttosto, canalizzano la rabbia – dettata, questa sì, da disagi reali – su problemi inesistenti o fantasmatici.

La differenza non è di poco conto. In Italia, c’è chi pensa – a partire dal Ministro dell’Interno Minniti – che l’immigrazione sia un “problema reale”, a cui si dovrebbe dare una qualche “risposta”, per evitare che le destre se ne approprino. I risultati di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: le frontiere sono state chiuse, i migranti trattenuti in Libia, le ONG allontanate dalle loro attività di soccorso, il numero delle vittime in mare ed in Libia è in crescita esponenziale, ma per Minniti ed il governo che lo esprime il problema si sarebbe, se non proprio “risolto”, almeno avviato a una qualche “soluzione” (le virgolette sono d’obbligo…). I fascismi, però, non solo non sono stati fermati, ma prosperano come mai era accaduto prima.

I fascismi non si sconfiggono assecondando il loro linguaggio, assumendo la loro stessa lettura della società, nominando i “problemi” nel loro stesso modo. Se si assume che “il problema” è la presenza “eccessiva” dei migranti, si avalla il discorso fascista: lo si legittima, col risultato di farlo tracimare.

8. E di quale presenza dei migranti si parla, poi? Coloro che, in modo talvolta un po’ approssimativo, vengono definiti “immigrati” costituiscono un universo assai variegato, difficile da ricondurre a un denominatore comune. Non parliamo tanto delle provenienze nazionali, quanto soprattutto dei percorsi di inserimento sociale, delle modalità di interazione con i contesti locali, delle forme di inclusione (o di esclusione) nei mercati del lavoro. Le migrazioni si sono scontrate con un sistema sociale ed economico gerarchico, privo – più che per gli autoctoni – di mobilità sociale, parcellizzato in mille nicchie, generazionali, urbane, economiche e culturali: e così le presenze migranti in Italia sono divenute frammenti in una società polverizzata. Eppure, le rappresentazioni mediatiche del mondo dell’immigrazione sono spesso – per non dire quasi sempre – piatte e uniformi.

Ad uno stadio di pseudo normalità sono considerati i tanti cittadini stranieri più o meno inseriti nei circuiti produttivi, con nuclei familiari stabili, comunque sottoposti a forme diverse di sfruttamento. Esempi “di qualità” come atleti e calciatori, modelle e attori, sono eccezioni: la “normalità” è quella di un ceto operaio e popolare impoverito, formato da immigrati che lavorano con un contratto regolare o semi-regolare, spesso in bilico tra disoccupazione e precarietà, ma comunque percepiti come “integrati”.

La negazione sempre più diffusa del diritto alla protezione internazionale, la trafila fragile dei titoli di soggiorno, la privazione del diritto di voto, gli ostacoli opposti anche per l’ottenimento della cittadinanza, così come la lingua, il colore della pelle, la religione, i mille caratteri distintivi servono di fatto a rimarcare una distanza incolmabile: un “noi” rispetto a un “loro” che permea e spersonalizza gli “infiniti loro”, che getta le basi per la discriminazione, la stigmatizzazione, oltre che per rappresentazioni statiche e semplificate.

Questa platea di “altri” cosiddetti “integrati” per quanto maggioritaria, è rappresentata solo come una eccezione di quel fatto sociale totale che è l’immigrazione. Nel percepire comune, alimentato dal discorso pubblico dei mass-media e della politica, prevalgono l’ansia e il disagio rappresentati da minoranze che numericamente sarebbero insignificanti, ma che sono divenute l’alibi rabbioso dei fascismi vecchi e nuovi.

Esemplare al riguardo è il tema centrale di questa ultima campagna elettorale, la questione posta da Berlusconi d’intesa con Salvini: l’espulsione annunciata (ma irrealizzabile) di oltre 500.000 migranti irregolari presenti oggi in Italia, spesso dopo essere stati soccorsi sulla rotta libica. In molti casi ospiti di un sistema di accoglienza che non si è saputo o voluto rendere degno di un paese civile (basti pensare ai centri di Mineo e Crotone). In altri casi costretti alla condizione di senza fissa dimora, in perenne movimento tra le capitali dello sfruttamento, da Castelvolturno a Borgo Mezzanone, da Rosarno a Campobello di Mazara e a Vittoria in Sicilia.

9. In questi strati più bassi della gerarchia sociale, si trovano comportamenti ritenuti fastidiosi, e che sembrano dare corpo alla metafora sociale del degrado. Si tratta ad esempio dei ragazzi dall’aria spaurita che, tenuti fuori dai cosiddetti centri di accoglienza, passano le giornate girando per le strade e ingannando il tempo. Sono giovani, poveri e spesso il loro colore della pelle è stigma preventivo. “Stanno sempre in giro senza far nulla”, si dice: una condizione, peraltro spesso non voluta, che è letta come sintomo di pericolosità potenziale.

Ad un altro gradino, semplificando, si trovano coloro che hanno la povertà come carattere distintivo. Che osano turbare la quiete vendendo oggetti, insistentemente a volte, chiedendo una moneta, guardandoti in faccia con la speranza che in quella moneta si possa trovare mezza giornata di futuro. Che fanno mostra della loro povertà, nei cartoni in cui riposano, nelle panchine ancora non ferrate dalle ordinanze dei Sindaci, nei parchi rimasti incustoditi e negli stabili diroccati.

È per questa tipologia di migranti – gli ultimi degli ultimi – che si manifesta il fastidio e si invocano risposte istituzionali repressive, per cancellare l’immagine di una povertà diffusa ormai anche fra gli autoctoni.

Ad un girone ancora successivo, di un inferno chiamato presente, ci sono coloro che hanno fatto almeno temporaneamente “il salto” e diventano l’emblema del nemico contro cui scagliarsi. Persone che hanno scelto, più o meno consapevolmente, di rompere i codici normati di convivenza. Sono nel mercato perché spacciano, non mediano, offendono, aggrediscono, pretendono e a volte diventano anche predatori, in contesti in cui la violenza è unico codice comunicativo. Ci sono e fanno parte, da sempre, del tessuto sociale, quando non si redistribuiscono le eccedenze e la scala sociale è sempre più ripida e impervia. Ci sono e spesso sono confinati nei quartieri più abbandonati da politiche urbanistiche in mano a speculatori, privi dei servizi essenziali e in cui la distanza sociale  aumenta giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro, buca dopo buca.

Fino agli scontri del 7 gennaio 2010 l’ESAC, ex Opera Sila, ARSSA era lo stabilimento diventato la più grande baraccopoli per i lavoratori stagionali delle campagne tra Rosarno e Gioia Tauro. Questo “ruolo” era prima affidato alla Cartiera, andata però in fumo e poi murata nell’agosto del 2009. Le condizioni di vita degli abitanti erano pessime. Secondo Medici Senza Frontiere, che per anni hanno seguito i lavoratori stagionali in Calabria, gli africani arrivavano qui in buone condizioni di salute per poi ammalarsi qui cronicamente. 30 dicembre 2009 www.andreascarfo.com

Quest’ultimo girone diviene il centro del racconto, della percezione, dell’elaborazione, spesso della realtà, di chi in questi quartieri ci vive. Facili diventare nemici, facile essere considerati cause e non effetti di un modello di sviluppo privo di prospettiva. E facile presa hanno le parole d’ordine in cui l’odio si mescola alla ricerca spasmodica di un ordine mai esistito sotto la miseria, di una identità rassicurante e serena, sogno di una età dell’oro che non c’è mai stata ma a cui ci si aggrappa mentre il mondo ci crolla addosso. Facile infine – in assenza di una appartenenza che si chiami classe, ceto sociale, collocazione stabile – che si ricomponga una appartenenza reazionaria fondata sui “noi” e i “voi” separati da muri altissimi e insuperabili.

10. Si compiono sovente due errori speculari nel cercare di interpretare tali forme profonde, quasi antropologiche di disagio: ergersi a giudici e condannare come “razzismo” ogni risposta che non rientri nei codici culturali cui siamo abituati, oppure – ed è questa la strada che si imbocca più di frequente oggi – comprendere, sotterraneamente giustificare, chi urla contro “l’invasione degli stranieri”.

Quello che invece oggi servirebbe con urgenza è un agire e un pensare proiettato ad altra proposta di società. Agire nel mutualismo, nella ricostruzione di legami in cui ognuno possa essere ricompreso e incluso, rimettendo insieme quanto il liberismo individualista divide e separa. Servirebbero azioni concrete per dimostrare che di fronte alla fame, ad uno sfratto, all’assenza di un giaciglio, nessuno (autoctono o meno) deve essere lasciato da solo. Rompere la solitudine in cui si viene rinchiusi, l’infelicità da consumatori frustrati, l’insoddisfazione dei bisogni primari: sono queste le risposte praticabili al terrorismo mediatico, che a volte si trasforma in azione criminale ed eversiva.

La sfida politica del terzo millennio, in Europa forse, è tutta qui. Nella creazione di “un’altra umanità”, avrebbe detto Franco Fortini.

 

Il collettivo di ADIF

13 Febbraio 2018

Enoch Powell, il discorso dei “fiumi di sangue”

Originariamente pubblicato sul blog “La Bottega del Barbieri”, 14 Maggio 2016

Ho ritrovato fra i miei appunti la traduzione di un famoso discorso di Enoch Powell, politico conservatore inglese, promotore della svolta restrittiva in materia di immigrazione dei primi anni ’70.

Il discorso risale al 1969, ma sembra scritto oggi da un amministratore toscano del Pd o anche da un Veltroni qualsiasi. Gli elementi ci sono tutti: la retorica delle regole, il “non sono razzista ma”, l’appello al senso comune, il riferimento al cosiddetto “vissuto” dei cittadini (l’anziana che non può più vivere nel suo quartiere perché pieno di “negri”, l’onesto lavoratore che si sente “straniero a casa sua”…). Usa persino il termine “divisivo” (divisive in inglese), tipico del lessico veltroniano. Ecco da chi hanno copiato i nostri amministratori luminosi (che tali sono se qualcun altro paga la luce…).

Sotto trovate anche il link all’originale inglese, così se volete potete controllare la traduzione (e magari farla meglio di quanto possa fare io).

Il discorso sui fiumi di sangue. Enoch Powell, 20 Aprile 1968

Traduzione di Sergio Bontempelli

Lo scopo più alto dell’arte di governare è quello di prevenire i mali evitabili. Nel cercare di farlo, si incontrano ostacoli profondamente radicati nella natura umana.

Uno di questi ostacoli è che, per loro stessa natura, i problemi non sono evidenti fino a quando non si verificano: e in ogni fase del loro manifestarsi c’è spazio per dubbi e per controversie, reali o immaginarie che siano. Per lo stesso motivo, i problemi futuri attirano poca attenzione rispetto alle difficoltà attuali, ben più evidenti e pressanti: di qui la tentazione costante della politica, di dedicare attenzioni esclusive al presente dimenticando il futuro.

Spesso, le persone fanno confusione, e chi solleva un problema è considerato causa del problema stesso, o comunque fomentatore di guai: “Se nessuno ne avesse parlato”, si dice spesso, “non sarebbe successo”. Forse questo atteggiamento deriva dalle credenze primitive, secondo cui la parola e la cosa, il nome e l’oggetto, sono identici.

Per un uomo politico, la discussione sui problemi futuri, ancorché evitabili, è dunque il lavoro più impopolare e allo stesso tempo il più necessario. Coloro che consapevolmente si sottraggono a questo lavoro meritano, e non di rado ricevono, le maledizioni di quelli che verranno dopo.

Una o due settimane fa, mi è capitato di discutere con un elettore, un normale lavoratore di mezza età impiegato in una delle nostre industrie nazionalizzate.

Dopo qualche frase di circostanza sul tempo, improvvisamente mi ha detto: “Se avessi i soldi per andarmene, non rimarrei in questo Paese”. Ho risposto in modo deciso, spiegando che anche questo governo non sarebbe durato per sempre; ma lui non ci ha fatto caso, e ha continuato: “Ho tre figli, tutti sono andati a scuola e due di loro si sono sposati. Non sarò soddisfatto finché non li vedrò andare all’estero. In questo Paese, nel giro di quindici o venti anni, l’uomo nero diventerà il padrone dell’uomo bianco”.

Sento già i cori della polemica: come si può dire una cosa così orribile? E perché riferire questo scambio di battute, così gravido di risentimenti e foriero di problemi?

La risposta è che non ho il diritto di tenere segreta questa conversazione. Perché qui siamo di fronte a un lavoratore inglese, a una persona normale e beneducata, che in pieno giorno dice a me, parlamentare eletto dai cittadini, che il suo Paese non sarà vivibile per i suoi figli.

Semplicemente non ho il diritto di alzare le spalle e pensare ad altro. Ciò che quest’uomo mi sta dicendo, lo dicono e lo pensano migliaia, centinaia di migliaia di persone: non tutta la Gran Bretagna, forse, ma molti di coloro che vivono nelle zone che stanno subendo una trasformazione epocale, senza precedenti in un millennio di storia inglese.

Nel giro di quindici o venti anni, se le attuali tendenze rimarranno costanti, ci saranno in questo Paese tre milioni e mezzo fra immigrati del Commonwealth e loro discendenti. Non sono io a dirlo: sono i dati ufficiali, presentati in Parlamento dal portavoce dell’Ufficio Generale del Registro.

Non ci sono previsioni ufficiali per l’anno 2000, ma la cifra potrebbe aggirarsi tra i cinque e i sette milioni, circa un decimo di tutta la popolazione, e più o meno il numero di abitanti di tutta la città di Londra. Ovviamente gli immigrati non saranno distribuiti in modo uniforme da Margate a Aberystwyth e da Penzance a Aberdeen.

Intere aree, città e parti di città in tutta l’Inghilterra saranno occupati da immigrati e discendenti di immigrati.

Col passare del tempo, la percentuale dei discendenti di immigrati, cioè di coloro che sono nati in Inghilterra, che dunque sono arrivati qui facendo esattamente il nostro stesso percorso, aumenterà rapidamente. Già nel 1985 i nati in Gran Bretagna saranno la maggioranza. È questo fatto che crea l’estrema urgenza di agire subito, e di agire in un modo che è complicato per i politici, perché le difficoltà nascono dal presente, ma i mali da prevenire o ridurre al minimo si verificheranno diverse legislature più avanti.

Di fronte a una simile prospettiva, la prima domanda naturale e razionale da porre è: “Come possiamo ridurre queste cifre?”. Si tratta di un fenomeno che non possiamo evitare del tutto, ma che possiamo limitare, tenendo presente che i numeri qui sono essenziali: quando in un Paese si introduce un elemento straniero, profondamente diverso dalla popolazione autoctona, l’impatto è assai diverso a seconda che tale elemento rappresenti l’1 o il 10 per cento.

E di fronte a una domanda così semplice e razionale, le risposte sono altrettanto semplici e razionali: dobbiamo fermare, o limitare drasticamente, ogni ulteriore afflusso, e al contempo promuovere un ampio deflusso di immigrati. Entrambe le risposte sono parte della politica ufficiale del Partito conservatore.

È opinione comune che ogni settimana arrivino 20 o 30 bambini immigrati da oltreoceano a Wolverhampton e questo significa che avremo 15 o 20 ulteriori famiglie nell’arco di un decennio o due.

Se gli dei ti vogliono distruggere, prima ti fanno impazzire. La nostra nazione deve essere pazza, letteralmente pazza, se permette l’afflusso annuale di circa 50.000 familiari, che rappresentano la materia prima per la futura crescita della popolazione discendente da immigrati. È come guardare una nazione attivamente impegnata nell’accumulare la propria pira funebre. Siamo così folli che consentiamo alle persone non sposate di emigrare, allo scopo di fondare una famiglia con coniugi e fidanzati che non hanno mai visto.

Non c’è motivo di ritenere che il flusso di familiari sia destinato a ridursi automaticamente. Al contrario, anche con l’attuale tasso di ammissione di soli 5.000 migranti l’anno, c’è materiale sufficiente per 25.000 successivi ingressi di familiari, senza considerare l’enorme serbatoio di relazioni esistenti in questo Paese ­ e non faccio alcun distinguo con chi entra in modo fraudolento. In queste circostanze l’unica cosa da fare è quella di ridurre a dimensioni trascurabili l’afflusso di nuovi immigrati che arrivano per stabilirsi qui, e prendere i necessari provvedimenti legislativi e amministrativi, senza indugio.

Sottolineo “che arrivano per stabilirsi qui”. Il discorso non riguarda l’ingresso di quei cittadini del Commonwealth, e di quegli stranieri, che arrivano per studiare o per migliorare le loro qualifiche, come (per esempio) i medici del Commonwealth che, a vantaggio anche dei loro Paesi, hanno permesso al nostro servizio ospedaliero di essere ampliato più velocemente di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Essi non sono, e non sono mai stati, degli immigrati.

Vengo al tema della ri-emigrazione. Se tutta l’immigrazione si interrompesse domani, il tasso di crescita degli immigrati e dei loro discendenti sarebbe sostanzialmente ridotto, ma la dimensione potenziale dell’elemento straniero nella popolazione lascerebbe inalterato il pericolo. È necessario dunque allontanare una parte consistente delle persone entrate in questo Paese negli ultimi dieci anni.

Di qui l’urgenza di dare applicazione al secondo pilastro della politica del Partito Conservatore: l’incentivo alla ri-emigrazione.

Non è possibile sapere quante persone, se stimolate da generosi incentivi, sceglierebbero di tornare alle loro terre di origine, o di andare in altri Paesi ansiosi di usufruire della manodopera e delle competenze dei nostri immigrati.

Non è possibile saperlo, perché una simile politica non è stata ancora sperimentata. Posso solo dire che, anche oggi, gli immigrati che conosco mi vengono a trovare di tanto in tanto, e mi chiedono un aiuto per ritornare a casa. Se una politica di ritorno venisse adottata e messa in pratica, con la determinazione imposta dalla gravità della situazione, il deflusso di migranti potrebbe cambiare apprezzabilmente le cose.

Il terzo pilastro della politica del Partito Conservatore è che tutti coloro che si trovano in questo Paese in qualità di cittadini devono essere uguali di fronte alla legge, e che non deve esservi alcuna discriminazione o differenza fatta tra loro da un’autorità pubblica.

Come ha ben detto il signor Heath, non dobbiamo avere cittadini “di serie A e di serie B”. Questo non significa che l’immigrato e il suo discendente debbano essere elevati a una classe privilegiata o speciale, né che al cittadino debba essere negato il diritto di discriminare, nella gestione dei suoi affari, tra un concittadino e un altro, e nemmeno che si debba imporre un comportamento piuttosto che un altro a chicchessia.

È una mistificazione grossolana della realtà quella di chi chiede a gran voce una legislazione “contro la discriminazione” come spesso viene chiamata: essa viene invocata da molti scrittori e commentatori, nonché da quei giornali che anno dopo anno, nel decennio 1930, hanno cercato di accecare questo Paese di fronte al pericolo, o da arcivescovi che vivono chiusi nei loro palazzi, con le coperte delicatamente tirate fin sopra la testa. Questa gente ha fatto esattamente e diametralmente il contrario di quel che si doveva fare.

La discriminazione e la deprivazione, il senso di allarme e il risentimento, albergano non tra gli immigrati, ma tra coloro che hanno visto e vedono arrivare un numero crescente di immigrati. Per questo, adottare oggi una legislazione del genere significa gettare un fiammifero sulla polvere da sparo. La cosa più gentile che si può dire, di coloro che sostengono simili proposte, è che non sanno quello che fanno.

Non c’è nulla di più fuorviante del paragone tra l’immigrato del Commonwealth in Gran Bretagna e il negro americano. La popolazione negra degli Stati Uniti, che esisteva prima che gli Stati Uniti diventassero una nazione, ha iniziato ad esistere, letteralmente, come una popolazione di schiavi: è stata successivamente affrancata, ha ottenuto i diritti di cittadinanza, all’esercizio dei quali è arrivata solo gradualmente e in forma ancora incompleta. L’immigrato del Commonwealth è venuto in Gran Bretagna come cittadino a pieno titolo, in un Paese che non concepiva alcuna discriminazione tra un cittadino e un altro, e ha avuto subito i diritti di cittadinanza, dal voto all’assistenza sanitaria gratuita.

I problemi cui vanno incontro i nostri immigrati non derivano dalla legge, né dalle politiche pubbliche, e nemmeno dall’azione amministrativa, ma da quelle circostanze personali e da quegli eventi in forza dei quali, oggi come sempre, la fortuna e l’esperienza di un uomo sono differenti da quelle di un altro uomo.

Ma mentre, per l’immigrato, l’ingresso in questo Paese ha significato ammissione a privilegi e a opportunità avidamente ricercate, l’impatto sulla popolazione esistente è stato assai diverso. Per ragioni che non potevano comprendere, e in virtù di un fatto compiuto sul quale non sono stati mai consultati, i cittadini si sono trovati a essere stranieri nel loro stesso Paese.

Hanno scoperto che le loro mogli non riescono ad avere un letto in ospedale al momento del parto, che per i loro figli non ci sono posti nelle scuole, che le loro case e e i loro quartieri sono cambiati fino a diventare irriconoscibili, che i piani e le prospettive per il loro futuro non si sono realizzati; al lavoro, hanno scoperto che i datori di lavoro esitano ad applicare anche all’immigrato gli standard di disciplina e di competenza richiesti al lavoratore nativo; si sentono dire sempre più spesso che sono loro gli indesiderabili. Vedono che il Parlamento sta per sancire per legge un privilegio a senso unico; e quella legge che non può e non vuole proteggerli, né ascoltare le loro rimostranze, sta per essere approvata, e darà allo straniero e al provocatore il potere di gogna sulle loro azioni private.

Nelle centinaia e centinaia di lettere che ho ricevuto quando ho parlato l’ultima volta di queste cose, due o tre mesi fa, c’era un elemento sorprendente e in gran parte nuovo, che trovo inquietante.

Tutti i parlamentari sono da sempre destinatari di lettere inviate dal classico corrispondente anonimo; ma ciò che mi ha sorpreso e allarmato è l’alta percentuale di persone comuni, di buon senso, beneducate, che hanno scritto lettere cortesi e ragionevoli, ma che hanno scelto di omettere il loro indirizzo perché era pericoloso scrivere a un parlamentare esprimendo il punto di vista che avevo espresso io: rischiavano rappresaglie se qualcuno lo avesse saputo. La sensazione di essere una minoranza perseguitata, che sta crescendo tra la gente comune, è difficile da immaginare per chi non ha esperienza diretta di questi fenomeni.

Faccio parlare una delle centinaia di persone che mi hanno scritto: “Otto anni fa, in una strada rispettabile di Wolverhampton, una casa è stata venduta a un negro. Ora solo una persona bianca (un’anziana signora in pensione) vive in quella zona”. Questa è la sua storia. Ha perso il marito ed entrambi i figli in guerra. Così ha trasformato la sua casa di sette stanze, la sua unica fonte di ricchezza, in una pensione. Ha lavorato tanto e bene, ha pagato il mutuo e ha cominciato a mettere qualcosa da parte per la vecchiaia. Poi sono arrivati gli immigrati. Li ha visti, con sgomento, prendere una casa dopo l’altra. La strada, un tempo così tranquilla, è diventata un luogo di rumore e confusione. Purtroppo, i suoi inquilini bianchi si sono tutti trasferiti. Il giorno dopo la partenza dell’ultima famiglia di bianchi, la signora venne svegliata alle 7 del mattino da due negri che volevano usare il suo telefono per contattare il datore di lavoro. Lei rifiutò, come avrebbe fatto chiunque con degli estranei a quell’ora: venne insultata, ed ebbe paura di subire violenza, nonostante avesse la catena alla porta. Alcune famiglie di immigrati hanno cercato di affittare delle camere in casa sua, ma lei ha sempre rifiutato. I suoi modesti risparmi si sono dissolti, e dopo aver pagato le tasse guadagna meno di 2 sterline a settimana. Quando è andata a chiedere una riduzione delle tasse ha incontrato una giovane ragazza: questa, sentendo che la donna aveva una casa di sette stanze, le ha suggerito di affittare o vendere una parte dell’alloggio. Quando la signora ha risposto che le uniche persone che potevano acquistarlo o affittarlo erano negre, la ragazza ha risposto: “Il pregiudizio razziale non la porterà da nessuna parte”. Il telefono è la sua ancora di salvezza. La sua famiglia paga le bollette, e la aiuta per quanto possibile. Gli immigrati le hanno offerto di comprare la sua casa ­ ad un prezzo che il futuro proprietario avrebbe potuto recuperare dai suoi inquilini nel giro di poche settimane, al massimo di qualche mese. Lei ha sempre paura di uscire. Le finestre sono rotte. Trova spesso escrementi depositati nella cassetta delle lettere. Quando va a fare la spesa, viene seguita regolarmente da gruppi di bambini negretti, belli e sorridenti. Non parlano inglese, ma una parola la conoscono. “Razzista” cantano. Questa donna è convinta che finirà in prigione quando il Race Relations Bill sarà approvato. Sbaglia? Comincio ad avere qualche dubbio.

L’altra illusione pericolosa, di cui soffrono coloro che non vogliono o non sanno vedere la realtà dei fatti, si riassume nella parola “integrazione”. Essere integrati in una popolazione significa diventare a tutti gli effetti indistinguibili dai suoi membri.

Ora, in ogni epoca, quando ci sono marcate differenze fisiche, in particolare di colore, l’integrazione è difficile, ma nel medio periodo non impossibile. Molti immigrati del Commonwealth sono venuti a vivere qui negli ultimi quindici anni, e tra loro vi sono migliaia di persone il cui desiderio è di essere integrate, e i cui sforzi vanno in questa direzione.

Ma immaginare che un obiettivo del genere entri nella testa di una grande e crescente maggioranza di immigrati e di loro discendenti, è un’idea ridicola e pericolosa.

Siamo alla vigilia di un grande cambiamento. Finora è stata la forza delle cose a rendere l’idea stessa di integrazione inaccessibile alla maggior parte della popolazione immigrata: perché questa non ha mai concepito una cosa del genere, e perché il numero di immigrati e la loro concentrazione hanno fatto sì che le pressioni verso l’integrazione non funzionassero.

Ora stiamo assistendo alla crescita di forze che agiscono contro l’integrazione, che hanno interesse a conservare e a irrigidire le differenze razziali e religiose, al fine di esercitare un potere, anzitutto sugli altri immigrati, poi sul resto della popolazione. La nuvola non più grande di una mano, che può rapidamente oscurare il cielo, è stata ben visibile di recente a Wolverhampton, ed è capace di diffondersi in fretta. Le parole che sto per usare, testualmente come apparivano sulla stampa locale il 17 febbraio, non sono mie, ma di un parlamentare laburista che è anche un ministro del governo attuale: “La campagna delle comunità sikh, finalizzata a mantenere abitudini inappropriate in Gran Bretagna, è assai deplorevole. Lavorando in Gran Bretagna, in particolare nei servizi pubblici, queste persone dovrebbero accettare i termini e le condizioni del loro impiego. Rivendicare speciali diritti (o dovrei dire riti?) porta ad una frammentazione pericolosa all’interno della società. Questo comunitarismo è un cancro; e deve essere condannato, da qualunque colore provenga”.

Massima stima per John Stonehouse per aver percepito il pericolo, e per aver avuto il coraggio di pronunciare queste parole.

Per questi elementi pericolosi e divisivi, il Race Relations Bill è il brodo di coltura di cui hanno bisogno per prosperare. Ecco il modo per mostrare che le comunità di immigrati possono organizzarsi, possono agire contro i loro stessi concittadini, possono intimidire e dominare il resto della popolazione con quelle armi legali che gli ignoranti e i male informati hanno fornito loro.

Guardando al futuro, sono pieno di inquietudini; come l’antico romano, mi sembra di vedere “il Tevere schiumare di sangue”.

Quel fenomeno tragico e ingovernabile, che guardiamo con orrore al di là dell’Atlantico, sta arrivando da noi, per nostra volontà e per nostra negligenza. Anzi, è già arrivato. In termini numerici, avrà proporzioni americane molto prima della fine del secolo.

Solo un’azione risoluta e urgente può evitarlo, anche ora. Se ci sarà la volontà politica di chiedere ed ottenere questa azione, non lo so.

Tutto quel che so è che vedere, e non parlare, sarebbe il peggior tradimento.

Fonte: John Enoch Powell, speech in Birmingham, meeting of the Conservative Political Centre, 20 Aprile 1968, pubblicato come John Enoch Powell, Immigration, in John Wood (a cura di), J. Enoch Powell ­ Freedom and Reality, Elliot Right Way Books, Kingswoo 1969, pagg. 213-219, ripubblicato online come Enoch Powell’s “Rivers of Blood” speech, in «The Telegraph», edizione web, 6 Novembre 2007.

Che razza di costituenti

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Ne abbiamo parlato nell’ultimo numero del nostro giornale: due autorevoli scienziati, Gianfranco Biondi e Olga Rickards, hanno lanciato un appello per cancellare la parola «razza» dalla Costituzione italiana. Si ricorderà che, all’art. 3, il testo fondativo della Repubblica stabilisce che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza…»: e quella parola – «razza» – suona davvero male, in una carta che sancisce la piena uguaglianza e la parità di diritti.

Già, ma perché i Padri Costituenti usarono un termine così odioso, che richiamava  l’antisemitismo di stato e i progetti hitleriani di sterminio? Difficile pensare a una svista: chiunque conosca anche superficialmente i lavori della Costituente sa che ogni parola fu attentamente soppesata, ponderata, «limata» fino alla nausea. Ed è improbabile  che un vocabolo così «pesante» possa essere sfuggito di mano. E, infatti, i deputati di allora si interrogarono a lungo sulla parola «razza», e decisero di usarla, per così dire, a ragion veduta. Lo si evince dai verbali delle sedute, disponibili in rete sia nel sito della Camera (qui e qui) sia, in versione più facilmente consultabile, in un portale wiki curato dall’Università di Bologna.

Il contesto
Prima di entrare nel dettaglio, sarà bene ricordare un dato «di contesto»: all’epoca, il concetto di «razza» era politicamente screditato, ma aveva ancora una sua legittimità scientifica. I Costituenti sapevano benissimo che quel termine aveva legittimato lo sterminio e la persecuzione degli ebrei, nonché le tante «pulizie etniche» della Seconda Guerra Mondiale: eppure, esso faceva parte del vocabolario degli studiosi e dei ricercatori, ed era difficile prescinderne.

La prima presa di posizione antirazzista della scienza «ufficiale» arrivò in effetti solo nel 1950. In quell’anno un gruppo di antropologi e biologi, riuniti sotto l’egida dell’UNESCO, elaborò la cosiddetta «Dichiarazione sulla razza», secondo la quale non vi era «alcuna prova che i gruppi umani differiscano nelle loro caratteristiche mentali innate, riguardo all’intelligenza o al comportamento». Posizioni di questo tipo esistevano già all’indomani della guerra, ma erano ancora minoritarie nel mondo scientifico. Il dibattito alla Costituente è uno specchio di queste ambiguità: da una parte, i deputati volevano superare la stagione delle leggi razziali e della discriminazione di Stato, ma dall’altra facevano un uso disinvolto del concetto di «razza». Così, nei verbali delle sedute si trovano a volte frasi di questo tenore:  «basta aprire un qualsiasi testo di geografia per trovare che gli uomini si dividono in quattro o cinque razze» [Seduta Plenaria del 24 Marzo 1947, pag. 2423, l’affermazione è di Renzo Laconi, Pci]

«Razza» o «stirpe»?
Ma andiamo con ordine. Come noto, i lavori della Costituente si articolarono in due momenti distinti. In una prima fase, l’Assemblea demandò il compito di redigere un testo provvisorio a una Commissione: questa lavorò dal Luglio 1946 al Gennaio 1947, dividendosi a sua volta in tre «sottocommissioni». A partire dal Marzo 1947, il progetto di carta costituzionale passò poi al dibattito in Aula.

La parola «razza» fece capolino subito, sin dalle prime riunioni della Commissione: fu il democristiano Giorgio La Pira, il futuro (e famoso) Sindaco di Firenze, a inserirla in una  bozza di lavoro presentata ai deputati. «Davanti al sistema integrale dei diritti della persona – si leggeva in uno degli articoli proposti da La Pira – gli uomini sono tutti eguali a prescindere dalle loro attitudini, dalla loro razza, classe, religione, opinione politica o sesso». Era, per così dire, l’«antenato» dell’attuale articolo 3.

L’utilizzo della parola «razza» non sfuggì agli attenti deputati. Roberto Lucifero d’Aprigliano, esponente del Partito Liberale e monarchico convinto, propose di sostituirla con “stirpe”, un vocabolo «più consono alla dignità umana». Gli altri parlamentari, però, obiettarono che il termine razza era «entrato nell’uso comune da quando fu impostata dal fascismo la questione razziale»: era dunque difficile prescinderne. Quella parola così odiosa, concluse Togliatti, «dovrebbe essere usata appunto per ripudiare la politica razziale del fascismo» [Commissione per la Costituzione, Prima Sottocommissione, Resoconto del 14 Novembre 1946, pagg. 377-378].

Le comunità ebraiche scendono in campo
La prima bozza di Costituzione, uscita nel Gennaio 1947, conteneva dunque la parola «razza». Ma il dibattito sull’opportunità di usare quel termine non si chiuse con i lavori della Commissione. E anzi si spostò dalle aule parlamentari alla discussione pubblica «nel paese», come si diceva allora.

Il 3 Marzo 1947 intervennero le prime vittime delle politiche razziali del fascismo: l’Unione delle comunità israelitiche italiane inviò alla Costituente un documento molto articolato, in cui accanto alle libertà religiose si chiedeva l’eliminazione della parola “razza”, «da lasciare ai cani e ai cavalli» [Rilievi e proposte presentate dalla Unione delle Comunità israelitiche italiane sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana formulato dalla Commissione per la Costituzione, Roma 1947, pag. 9].

Le scelte dei Costituenti
L’intervento delle comunità ebraiche sollecitò una nuova discussione, stavolta in assemblea plenaria. Nella seduta del 24 Marzo, il gruppo DC presentò un emendamento volto a sostituire la parola «razza» con «stirpe»: e paradossalmente, furono le sinistre a opporsi.

«In questa parte dell’articolo – spiegò il comunista Laconi – vi è un preciso riferimento a qualche cosa che è realmente accaduto in Italia, al fatto cioè che determinati principî razziali sono stati impiegati come strumento di politica ed hanno fornito un criterio di discriminazione degli italiani, in differenti categorie di reprobi e di eletti».

«Comprendo che vi sia chi desideri liberarsi da questa parola maledetta – aggiunse Meuccio Ruini, esponente del Partito Democratico del Lavoro di Ivanoe Bonomi – ma è proprio per reagire a quanto è avvenuto nei regimi nazifascisti, per negare nettamente ogni diseguaglianza che si leghi in qualche modo alla razza, è per questo che – anche con significato di contingenza storica – vogliamo affermare la parità umana e civile delle razze».

La preoccupazione dei Costituenti, insomma, era quella di superare la stagione delle discriminazioni. E poiché la parola «razza» era stata usata per discriminare ed escludere, non si poteva cancellarla con un colpo di penna: era necessario usarla, ma per affermare l’uguaglianza di tutti i cittadini. Il ragionamento, alla fine, convinse anche i democristiani, che ritirarono l’emendamento e votarono a favore dell’articolo 3.

Sergio Bontempelli, 16 Marzo 2015

Una Costituzione senza razza. Dialogo con Federico Faloppa

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni, 8 Marzo 2015

Bisogna cancellare la parola “razza” dalla Costituzione italiana? Un dialogo tra il nostro redattore Sergio Bontempelli e il linguista Federico Faloppa

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza…». Recita così l’articolo 3 della Costituzione italiana, che stabilisce l’uguaglianza di tutti i cittadini: «senza distinzione di razza», appunto. Ma è quella paroletta – «razza» – a suscitare perplessità: perché se le razze non esistono, non si capisce perché si debba invocarle in un testo costituzionale.

Almeno questo è il parere di due autorevoli scienziati, Gianfranco Biondi e Olga Rickards: che hanno sottoscritto di recente un appello per cancellare quella parola dal testo fondativo della nostra Repubblica. «Nel corso degli ultimi cinque decenni», scrivono i due biologi, «la ricerca ha dimostrato sperimentalmente che il concetto di razza non può essere applicato alla nostra specie Homo Sapiens (…). Auspichiamo perciò che il termine sia eliminato dalla Costituzione e dagli atti ufficiali del nostro Paese».

E a dir la verità i due scienziati sono, per così dire, in buona compagnia: perché un gesto simile è già stato compiuto dalla Francia di Hollande, ed è oggetto di un vivace dibattito anche in Australia. Insomma, l’idea di cancellare la parola «razza» dal vocabolario giuridico si sta facendo strada in tutto il mondo. Ed è ora di parlarne anche in Italia.

La questione, però, è più complessa di quanto si immagini: e difatti, nel dibattito seguito all’appello degli scienziati, si sono registrate voci “dissonanti”, che hanno proposto di guardare il problema sotto diverse angolazioni. Federico Faloppa, autorevole linguista e Lecturer nel Dipartimento di Modern Languages dell’Università di Reading (Gran Bretagna), è una di queste voci. Lo abbiamo incontrato per capire meglio il suo punto di vista (espresso in un articolo pubblicato sul sito di Carta di Roma).

Professor Faloppa, cos’è che non la convince nella proposta dei due biologi?

Chiariamo subito una cosa, per evitare equivoci: capisco il senso dell’appello di Gianfranco Biondi e Olga Rickards, e ovviamente ne condivido lo spirito e le finalità. Sarebbe davvero ora che la parola “razza” – assieme al concetto che essa indica – scomparissero per sempre dal nostro vocabolario. L’appello sottoscritto dai due scienziati ha il merito indiscutibile di aver aperto il dibattito su questo tema. Mi chiedo però se la cancellazione di un termine da un testo giuridico sia sufficiente. Se non si debba invece mettere in campo una strategia più articolata.

Che intende dire? Ci spieghi meglio

Come ho spiegato nel mio articolo sul sito di Carta di Roma, il linguaggio si modifica a partire dall’uso dei parlanti. E quindi, prima di tutto, dovremmo capire se la parola «razza» è ancora in uso tra le persone, nelle conversazioni comuni o nei discorsi della stampa e dei mass-media. Oggi ci sono dei software che raccolgono le parole più comuni nell’italiano corrente, e che ci permettono perciò di capire non soltanto se un certo termine è utilizzato, ma qual è il suo reale significato nella lingua d’uso, quali i registri in cui viene utilizzato, quali i termini che co-occorrono con esso in determinati contesti, ecc. Ho provato per curiosità a fare una rapida ricerca su un vasto corpus di italiano “elettronico” (accessibile al sito www.sketchengine.com) della parola «razza». Questa non solo è ancora largamente usata, ma compare con significati molto generici e nei più diversi contesti. Dovremmo interrogarci di più su questo punto, per evitare di imporre un cambiamento, per così dire, «dall’alto», che rischierebbe di essere inefficace.

Il fatto che una parola sia largamente usata, però, non la rende corretta…

Certamente no. Però intanto ci chiede di riflettere se sia più utile un atteggiamento prescrittivo (questo termine è “corretto”, quello no) o criticamente descrittivo del linguaggio (questo termine è più frequente in determinati contesti perché…, quello in altri perché…). È auspicabile una “correttezza” assoluta, quando di parla di lingua?

Inoltre, complica gli strumenti che devono essere messi in campo per superare la parola «razza», o meglio per suggerirne delle alternative appropriate al contesto.

Mi spiego meglio: i due scienziati dicono, giustamente, che le «razze» non esistono dal punto di vista biologico e genetico. È una sacrosanta verità. Ma la parola «razza», nell’uso comune, si riferisce solo a una differenza biologica? O ancora: siamo sicuri che le discriminazioni razziali si basino solo sul concetto genetico di razza?

Quando si confinano i rom e i sinti nei campi, non si dice che «gli zingari sono geneticamente inferiori»: magari si fa appello a una diversità culturale considerata irriducibile, o a una (presunta) identità «etnica» un po’ primitiva, fondata sul nomadismo. Non si parla di biologia, di sangue, di patrimonio genetico: si allude all’etnia, alla cultura, alle «tradizioni» peculiari di un popolo. Ma anche in questo modo i rom e i sinti vengono razzializzati, cioè percepiti e trattati come una «razza», come un’entità differente e non assimilabile. Allora forse bisognerebbe interrogarsi sulla complessa stratificazione concettuale che sta dietro al termine «razza».

Ascoltandola, mi viene in mente che in effetti, anche dal punto di vista storico, il concetto di «razza» non è sempre stato associato alla biologia e alla genetica. Nell’Ottocento, gli irlandesi e gli italiani emigrati negli Stati Uniti erano discriminati e trattati come una «razza» inferiore: perché erano cattolici e quindi «irriducibilmente diversi» dal mondo protestante americano; perché erano considerati primitivi, arretrati; perché i loro «usi e costumi» apparivano lontani dalla «civiltà». Si parlava comunemente di una diversità razziale: solo che la razza non era interamente associata a un fatto fisico, biologico, genetico…

Ecco, questo è il punto. Nella storia contemporanea sono esistiti tanti tipi di razzismo, e tanti modi di pensare la «razza». Lei faceva l’esempio degli italiani negli Stati Uniti. A me vengono in mente alcuni tratti del razzismo coloniale italiano, che parlava di «sbiancamento» del colonizzato: cioè di un’opera «educativa», diciamo così, che facesse progredire e civilizzare – sbiancare, appunto – gli africani neri considerati «incivili».

Sono solo degli esempi, se ne potrebbero fare molti altri. Il rischio è quello di identificare il razzismo con le teorie genetiche dei nazisti: ma quella è stata solo una fase – la più tragica, senza dubbio – del razzismo europeo. La storia è molto più complicata e articolata. E intorno alla razza si è costruita una complessa stratificazione di significati…

Siamo d’accordo su questo. Però tornerei al punto: la proposta dei due scienziati è quella di cancellare la parola «razza» dal testo costituzionale. Il fatto che il termine abbia avuto usi diversi, non solo legati alla biologia e alla genetica, non è un argomento per respingere la proposta dell’appello. Anzi, semmai potrebbe essere un ulteriore motivo per sostenerla, no?

Beh, anzitutto io non ho mai detto che la proposta di Biondi e della Rickards è sbagliata. Mi sono limitato a complicare un po’ il quadro, diciamo così: a fare una valutazione più complessa circa i tempi e i modi con cui condurre una iniziativa del genere: perché complesse sono le implicazioni, e non solo sul piano strettamente lessicale.

Il fatto che il concetto di razza abbia una storia così variegata e articolata, poi, significa che non basta un colpo di penna, un emendamento, per cancellarla. Le discriminazioni razziali esistono tuttora. La razza non esiste in natura, certo, ma esistono i processi sociali di razzializzazione.

Che intende dire?

Gli immigrati in Italia sono discriminati e trattati come un’entità separata, diversa. I rom e i sinti sono confinati nei campi. Le amministrazioni pubbliche spesso legittimano trattamenti differenziali e discriminatori tra «noi» (cittadini italiani) e «loro» (stranieri, migranti, minoranze). Per le strade o sui campi di calcio dilagano offese e insulti a sfondo razziale («sporco negro», e così via). La «razza» non esiste in natura: esiste però come processo sociale, come costruzione.

E allora bisogna interrogarsi su come descrivere e affrontare questi processi. Limitarsi a dire che «la razza non esiste» rischia di diventare un gesto un po’ «illuminista», diciamo così: è un discorso giusto, ma poi bisogna fare i conti con la realtà concreta, con la naturale vitalità della lingua e con le opzioni a disposizione dei parlanti.

Ascoltandola, mi veniva in mente una perplessità che ho sempre avuto su questo tipo di proposte. A mio parere, quando i testi normativi dicono che non bisogna discriminare per motivi di razza, non stanno dicendo che la razza esiste in natura: stanno vietando la discriminazione fondata su quel concetto, su quell’idea (vera o falsa che sia). Togliere la parola da un testo normativo rischia, paradossalmente, di indebolire l’efficacia del dettato normativo.

Anche questa mi sembra un’obiezione pertinente. E del resto un ragionamento del genere è stato sollevato – ad esempio – anche dal Guardian, in un articolo che parlava dell’iniziativa di Hollande in Francia.

In effetti, i testi giuridici hanno una funzione precisa, ed è importante tenerlo presente. Per dirla in modo schematico: la Costituzione vieta la discriminazione per motivi di razza; quindi, se tu dici «sporco negro» a qualcuno, hai utilizzato una categoria razziale, e io posso sanzionarti. A questo serviva il riferimento alla parola razza nella Costituzione: non certo a legittimare l’esistenza di diversità razziali… non dimentichiamo che la nostra carta fondamentale nasce dalla Resistenza e dalla lotta contro il nazifascismo. Le leggi razziali erano un riferimento ben noto ai nostri padri costituenti, i quali tra l’altro dedicarono un’attenzione scrupolosissima al linguaggio, che doveva essere preciso, semplice, diretto, acessibile a tutti…

Aggiungerei un elemento: se leggiamo le sentenze sui fatti di discriminazione, scopriamo che il concetto di «razzismo» non è affatto definito dal punto di vista giuridico. Vi sono magistrati che non considerano l’epiteto «sporco negro» come un insulto a sfondo razziale, e altri che invece lo condannano come un gesto razzista. Forse bisognerebbe chiedere di definire meglio il razzismo: di darne una definizione giuridica più precisa. Servirebbe a rendere più efficaci le norme contro la discriminazione. Che è poi la vera sfida: bandire il razzismo, disarmando il suo vocabolario.

Sergio Bontempelli

A proposito di aggressioni razziste

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

L’omicidio di un bengalese a Pisa non è una delle “classiche” aggressioni razziste che abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni. Eppure il razzismo c’entra. Vediamo perché.

È la notte del 13 aprile, siamo a Pisa. Zakir Hossain, un immigrato del Bangladesh, ha finito di lavorare al ristorante indiano “Tanduri”, nella centralissima Piazza Gambacorti (che tutti chiamano “Piazza la Pera”, per via di un buffo reperto etrusco a forma, appunto, di pera). Zakir fa il cameriere, ed esce tardi dal lavoro: qualche volta si ferma a chiacchierare coi colleghi e finisce per fare – letteralmente – le ore piccole. Quella del 13 aprile è una notte come le altre, ed è molto tardi quando Zakir si incammina verso casa.

Piazza La Pera è vicina a Corso Italia, vero e proprio “cuore pulsante” della città. È la strada dello shopping, dello “struscio” pomeridiano, ma anche degli uffici pubblici e delle banche: poi, la sera, diventa uno dei centri della “movida”. Quando Zakir raggiunge “il Corso”, però, è notte fonda e non c’è più nessuno in giro. Tutto è tranquillo e silenzioso. All’improvviso, come dal nulla, spuntano tre individui: sembrano ubriachi, e uno di loro si rivolge con fare minaccioso proprio a Zakir. I testimoni assistono ad uno strano alterco: lo sconosciuto urla, Zakir rimane in silenzio. Poi parte un pugno: il giovane bengalese cade a terra. Viene trasportato d’urgenza all’Ospedale, dove muore qualche ora dopo.

Un delitto a sfondo “razziale”?
Il delitto scuote dal torpore la piccola città toscana. Anzitutto, perché si tratta di un evento senza precedenti, almeno da queste parti. Poi perché è avvenuto in pieno centro, in una zona di solito tranquilla, e comunque controllata dalle telecamere. Chi ha commesso l’omicidio, e perché? La nazionalità della vittima ha a che fare con il movente del gesto? Detto in altri termini, possiamo parlare di una violenza a sfondo razziale?

Riuniti in assemblea all’indomani dell’evento, i bengalesi non hanno dubbi: in città si respira da tempo un clima ostile contro gli immigrati. E ad esserne colpiti sono soprattutto loro, gli stranieri che vengono dal Bangladesh: che gestiscono minimarket e rivendite di kebab, e che per questo sono oggetto di invidie e risentimenti da parte dei commercianti “autoctoni”. Insomma, c’è un clima negativo, che certo non è la “causa” dell’omicidio, ma che può aver influito sulle motivazioni dell’assassino.

Passano alcune ore e gli inquirenti scoprono che a sferrare il colpo mortale è stato un cittadino tunisino, Hamza Hamrouni. L’omicidio, quindi, non può avere motivazioni razziste: così almeno dice il Sindaco, Marco Filippeschi, durante la manifestazione di solidarietà convocata dalla Comunità Bengalese. Ma le cose stanno davvero così?

Un omicidio “insolito”
Su un punto ha ragione il primo cittadino: quella subita da Zakir non è un’aggressione razzista “classica”. Quando pensiamo alla violenza a sfondo razziale, ci riferiamo infatti a un “copione” standard, in cui gli attori hanno ruoli ben definiti:  l’aggressore è – di solito – un italiano “purosangue”, magari imbevuto di idee e sentimenti xenofobi; la vittima è uno straniero marginale, escluso, in genere povero e poco inserito nella società di accoglienza.

L’omicidio di Jerry Essan Masslo, nel lontano 1989, è per certi versi il “prototipo” di queste violenze. Masslo era un giovane sudafricano che aveva chiesto asilo politico in Italia: per guadagnarsi da vivere era finito a fare il bracciante a Villa Literno. Viveva in una baracca fatiscente, lavorava quindici ore al giorno ed era pagato una miseria: era un escluso, e in quanto escluso fu aggredito e ucciso.
Per venire ad eventi più recenti, anche la strage di Firenze del 2011 segue un copione, diciamo così, “classico”. L’aggressore è un italiano di estrema destra, che pensa di “farsi giustizia” (le virgolette sono d’obbligo) irrompendo in una piazza e sparando ai venditori ambulanti senegalesi. Le vittime sono, appunto, dei venditori ambulanti: immigrati poveri, marginali, e (di nuovo) “esclusi”.

Ecco, il delitto di Pisa non segue questo copione. Zakir non è povero né “escluso”. Certo, non naviga nell’oro e non lo si può definire “ricco”: ma ha un permesso di soggiorno, vive in un’abitazione dignitosa e lavora regolarmente. Quando siamo andati in Piazza La Pera, a parlare con gli esercenti della zona, molti ci hanno detto: “Zakir era uno di noi”. «Per me non era nemmeno un bengalese – ci ha spiegato il titolare di un negozio – lavorava qui, e non l’ho mai percepito come uno straniero».

Anche l’aggressore non rientra nelle categorie rigide “noi” (gli “autoctoni”) / “loro” (gli immigrati). È tunisino, ma abita in provincia di Pisa da quando era adolescente, e ha una famiglia mista: la madre, tunisina anche lei, si è sposata in seconde nozze con un italiano, che ha rappresentato un “secondo padre” per il ragazzo. Hamza frequenta un circolo Arci e una palestra di pugilato, e ha amici italiani con cui esce la sera a “far baldoria”.

Tutto questo è, forse, un segno dei tempi. L’immigrazione si è ormai stabilizzata, e gli “stranieri” di ieri si sono inseriti nella società, a volte si sono “mescolati” con gli italiani. Il copione dell’«indigeno» che aggredisce «l’altro» funziona sempre meno…
Ciò significa forse che il razzismo è scomparso, e che aggressioni di questo tipo non possono più essere ricondotte ad un clima xenofobo? Ecco, qui le cose si fanno complesse, e bisogna stare attenti a non semplificarle troppo. Vediamo meglio.

Nuove vittime…
Partiamo dalla vittima: un bengalese. I migranti del Bangladesh, a Pisa, sono ben “integrati” – come si usa dire – ma occupano un ruolo preciso nel mercato del lavoro. Sono titolari di minimarket e kebab, e gestiscono un segmento definito del commercio al dettaglio: quello dei negozi aperti a tutte le ore, che vendono a prezzi stracciati o che propongono una ristorazione economica e veloce. È difficile – per non dire impossibile – trovare un bengalese che lavora in una fabbrica o in un ufficio, o che fa l’infermiere in Ospedale. Una delle caratteristiche del razzismo è proprio questa: gruppi identificati in base al colore della pelle, alla (presunta) “cultura” di appartenenza, o al paese di origine, devono “stare al loro posto”. Possono essere accettati e persino guardati con simpatia, a patto che restino nei confini loro assegnati.

La collocazione sociale dei bengalesi li espone al rischio di diventare un “gruppo target”. I kebab e i minimarket, in effetti, sono oggetto di diffusi risentimenti. In primo luogo, ci sono i commercianti “autoctoni”, che temono la concorrenza di negozi aperti a tutte le ore: proprio la sezione locale di Confcommercio ha chiesto recentemente di bloccare il “proliferare di kebab” in città. E poi, un’attività aperta la sera fino a tarda ora attira una clientela “di strada”, fatta di clochard e senza fissa dimora: persone che, per la loro “visibilità”, rischiano di compromettere “l’immagine” di un negozio, e che per questo sono viste con sospetto e diffidenza dai titolari degli esercizi. In zona stazione, sono frequenti le risse tra commercianti bengalesi e clienti definiti come “balordi”. E poiché questi ultimi, a Pisa, sono spesso tunisini, i conflitti assumono una connotazione “etnica”: Bangladesh contro Tunisia, Asia contro Nordafrica.

… e nuovi aggressori
Da questo punto di vista, è significativo che l’aggressore sia proprio un tunisino. Ma, anche qui, siamo di fronte a un migrante “particolare”: non un “estraneo” appena arrivato, che non padroneggia la lingua e che vive solo tra connazionali. Hamza – lo abbiamo visto – frequenta coetanei italiani, e quando ha ucciso Zakir era accompagnato dai suoi amici “autoctoni”. Una banda “mista” e “meticcia”, che non per questo è necessariamente immune dal razzismo: al contrario, nelle sue scorribande prende di mira un immigrato ben identificabile, appartenente al “gruppo-target” dei bengalesi.

Infine, per completare il quadro, bisogna far cenno anche alla reazione della cittadinanza. Da un lato si sono registrate diffuse manifestazioni di solidarietà alla vittima: quasi tutti i commercianti di Piazza La Pera, ad esempio, hanno chiuso i loro negozi per una giornata in segno di lutto (un fatto tutt’altro che scontato, da queste parti).

Dall’altro lato, la tragedia ha attivato le classiche reazioni “securitarie”: la richiesta è quella di avere più telecamere, più controlli di polizia, più espulsioni di immigrati “indesiderabili” (e magari anche meno tunisini in giro per le strade…). Ma l’elemento nuovo è che queste rivendicazioni sono fatte proprie anche dai rappresentanti dei bengalesi: al classico conflitto italiani contro immigrati si è dunque sostituita una contrapposizione più articolata, dove diversi “gruppi-target” possono trovarsi su posizioni diverse e opposte. Un po’ come gli Stati Uniti di un secolo fa, dove erano frequenti gli scontri tra neri e immigrati italiani (o irlandesi).

Il delitto di Pisa, insomma, potrebbe far emergere una realtà nuova: un’Italia ormai compiutamente “meticcia”, dove gli “immigrati” di ieri stanno diventando i “cittadini” di oggi (e, speriamo, di domani). Ma dove, probabilmente, il razzismo non scompare affatto: cambia volto e natura, e al tempo stesso pervade profondamente la società.

Sergio Bontempelli, 6 Maggio 2014

Ungheria, razzismo di governo

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni, 24 Febbraio 2014 (vedi copia di Archive.org)

Guardare la “questione rom” dall’Italia – ma anche dalla Francia, dalla Spagna, e dall’Europa occidentale in generale – significa avere lo sguardo strabico. Perché nel nostro paese le minoranze rom e sinte sono appena lo 0,2% della popolazione, in Francia lo 0,5%, e nella Spagna – che lo stereotipo vorrebbe “terra dei gitani” inventori del flamenco – appena l’1,6%.

In realtà, le comunità più consistenti si trovano ad Est, nei paesi dell’Europa orientale. Solo per fare qualche esempio: in Romania e in Bulgaria, le minoranze rom rappresentano più dell’8% della popolazione, nella Repubblica Ceca sono il 2,4% dei residenti, mentre in Ungheria la percentuale sale al 3,1% (e se vi sembra un numero basso, ricordate che è quindici volte quello dell’Italia).

L’apparente “marginalità” di questi paesi nello scacchiere geopolitico del Vecchio Continente – parliamo di territori poveri, e di Stati che hanno scarsa incidenza nelle decisioni politiche dell’Unione Europea – non dovrebbe far dimenticare il loro ruolo nella diffusione dell’«antiziganismo» (cioè della forma specifica di razzismo che si rivolge contro rom e sinti). Qui, spesso, vengono sperimentate forme di segregazione e di discriminazione che finiscono per “contagiare” anche i paesi più ricchi.

È per questo che le nuove e violente forme di razzismo esplose in Ungheria non dovrebbero essere sottovalutate. E dovrebbero anzi suonare come un campanello d’allarme per tutta l’Europa (Italia compresa).

Guerra ai poveri: aggressioni, pogrom, addestramenti armati

È dell’inizio di febbraio il Rapporto pubblicato dall’Università di Harvard proprio sulla condizione dei rom ungheresi, il cui titolo è già significativo: Accelerating Patterns of Violence Against Roma in Hungary Sound Alarms (che si potrebbe tradurre, un po’ liberamente, come «un campanello d’allarme: l’escalation di violenza contro i Rom in Ungheria»). Ed è da questa pubblicazione, scaricabile gratuitamente dal web, che abbiamo tratto alcune notizie significative.

Anzitutto, la condizione sociale dei Rom nel paese magiaro è tra le più drammatiche del Vecchio Continente. Il 60% dei Rom vive in luoghi di segregazione abitativa: aree rurali isolate, ghetti urbani, periferie degradate o veri e propri slum (non nei “campi nomadi” però, che sono come noto un’invenzione tutta italiana). Il 70% si trova al di sotto della soglia di povertà, e l’aspettativa di vita è inferiore di dieci anni rispetto alla media nazionale.

Numerose sono poi le forme di discriminazione e di esclusione. Il 20% dei bambini rom – uno su cinque – frequenta la scuola in classi separate e speciali. Secondo un’indagine condotta nel 2011 dal Dipartimento di Stato Usa, quasi il 90% dei rom in età da lavoro si trova in condizioni di disoccupazione (poche sono le ditte disposte ad assumere uno “zingaro”). I cittadini rom sono spesso vittime di abusi e violenze da parte delle forze di polizia, e sono oggetto di frequenti controlli di carattere vessatorio.

È in questo clima generale di esclusione e di disprezzo che sono maturate negli ultimi anni vere e proprie esplosioni di violenza contro le comunità rom. Tra il 2008 e il 2012, l’European Roma Rights Center ha censito 61 episodi di violenza e ben nove omicidi (sette adulti e due bambini).

Ma c’è di più. In Ungheria proliferano i partiti politici e i movimenti di estrema destra, spesso legati alla galassia internazionale neo-nazista, che propagandano idee esplicitamente razziste e antisemite. Questi gruppi organizzano periodicamente veri e propri campi di addestramento paramilitare per i loro militanti: l’obiettivo è quello di formare “quadri politici” armati, pronti ad aggredire le minoranze, a scatenare disordini nelle manifestazioni e a organizzare azioni di tipo squadristico. Recentemente si è scoperto che il Fronte Nazionale Ungherese (uno dei gruppi più forti della galassia neonazista) organizza campi di formazione paramilitare praticamente ogni mese. E gli effetti si vedono.

Le contiguità con la politica “ufficiale”

Ma non è solo la violenza dell’estrema destra a preoccupare i ricercatori dell’Università di Harvard. Il vero problema è che le formazioni ultranazionaliste e xenofobe hanno solidi agganci e forti contiguità con la politica “ufficiale”, cioè con il Governo, con le amministrazioni locali e con le burocrazie statali.

Un dato è in questo senso significativo: i campi di addestramento paramilitare sono illegali – in Ungheria come in tutta Europa –, eppure nessuno finora è stato indagato né condannato per queste iniziative. Al contrario, le milizie dell’estrema destra agiscono spesso con la copertura delle forze di polizia, mentre leggi recenti hanno autorizzato il possesso di armi per la “difesa personale”.

Il Governo raramente stigmatizza gli episodi di violenza contro i rom, e le autorità di polizia raramente aprono inchieste contro i responsabili di crimini a sfondo razziale. Il clima diffuso di impunità fa da moltiplicatore agli episodi di violenza: secondo quanto riferiscono numerose Ong attive in Ungheria, i linciaggi sono ormai percepiti come una forma legittima di “punizione collettiva”. Un po’ come accadeva nel Sud degli Stati Uniti cento anni fa. E come potrebbe accadere in tanti altri paesi (Italia inclusa) se non si promuovono efficaci politiche di contrasto all’antiziganismo.

Sergio Bontempelli

La strategia della distrazione

 

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

La campagna anti-immigrati della Lega sembra fatta apposta per racimolare voti. Non sarà che, con la scusa di “difendere gli italiani”, ci stanno prendendo in giro?

Forse siamo ammalati di “dietrologia”, ma quello della Lega Nord ci sembra un giochino troppo facile. Che funziona, grosso modo, in tre tappe.

Nella prima si lancia l’esca: si fanno dichiarazioni roboanti contro Cécile Kyenge, si sparano slogan improbabili sull’invasione degli immigrati, si ribadisce che gli “italiani sono bianchi” e che la “Ministra nera” deve “tornare in Africa”.
Nella seconda tappa ci si siede in poltrona e si aspettano le reazioni: ci sarà sempre chi (giustamente, sia chiaro) stigmatizza la “xenofobia”, chi rievoca con angoscia le leggi razziali, chi richiama tutti al doveroso rispetto delle istituzioni…
Nella terza tappa non si fa altro che incassare il risultato. Gli “antirazzisti” hanno recitato la parte dei difensori dello status quo: parlano di “tolleranza”, ma lo fanno a pancia piena, ignorando le “sofferenze del popolo”. All’inverso, i “cattivi” – gli xenofobi, i razzisti – sono quelli che “dicono le cose come stanno”, pane al pane vino al vino: sì, se la prendono con gli immigrati, ma perché “difendono gli italiani”, stanno dalla parte della gente comune. E la gente comune non ne può più dell’arroganza dei politici, del lavoro che non c’è, della crisi che avanza, delle tasse, della burocrazia e naturalmente degli immigrati…

Giochi di prestigio
Ma davvero la Lega Nord difende “gli interessi degli italiani” (o dei padani, a seconda dei casi)? Fate caso alle date. Siamo nel mese di gennaio. A maggio si terranno le elezioni europee, e dunque ci troviamo già, di fatto, in campagna elettorale. Nel dicembre 2013, appena un mese fa, la Procura di Milano aveva rinviato a giudizio una decina di dirigenti della Lega Nord per truffa aggravata ai danni dello Stato (cioè dei contribuenti).

Vediamo rapidamente le accuse. Rosi Mauro, ex senatrice del Carroccio, è indagata per appropriazione indebita di 99.731,50 euro. Renzo e Riccardo Bossi, i due figli del Senatur, avrebbero usato a fini personali più di 300 mila euro di fondi pubblici (provenienti dai cosiddetti “rimborsi elettorali”): in particolare, il famoso “Trota” avrebbe speso circa 77 mila euro per comprarsi la laurea in Albania. Per l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito si parla di almeno due milioni di appropriazione indebita di fondi pubblici.

Certo, si tratta di accuse che dovranno essere dimostrate in Tribunale. Ma lo scandalo è finito sulle prime pagine di tutti i giornali e ha fatto il giro del web: l’immagine pubblica del Carroccio ne è uscita a pezzi, tanto che una parte dell’elettorato leghista ha preferito votare per i Cinque Stelle. A pensar male si fa peccato, d’accordo, ma il rinnovato attivismo della Lega fa proprio pensar male. O no?

I precedenti: Sarkozy in Francia…
Del resto, il giochetto di scatenare una campagna anti-immigrati per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica non è affatto nuovo. Se ne conoscono illustri precedenti.
Nell’Estate 2010, Nicolas Sarkozy viene travolto dallo “scandalo Bettencourt”: secondo le accuse lanciate da due quotidiani transalpini nel mese di giugno, Liliane Bettencourt – ricca ereditiera del gruppo L’Oreal – avrebbe finanziato al nero la campagna elettorale del presidente francese: il Ministro del Lavoro Eric Woerth, in particolare, è accusato di aver preso soldi in contanti per finanziare l’Ump, il partito di Sarkozy.

Travolto dalle polemiche, il Presidente pensa bene di scatenare una virulenta campagna contro i rom: già alla fine dell’Estate viene predisposto il piano di “rimpatri volontari” per i rom in condizione irregolare, e il 20 agosto, dall’aeroporto di Lione, parte il primo volo per Bucarest, carico di “zingari indesiderabili”.
Ne scaturisce una polemica internazionale: a stigmatizzare il razzismo sarkozista intervengono persino l’Ue e il Vaticano. Intanto, però, nessuno parla più dello scandalo Bettencourt. Per Sarkozy obiettivo raggiunto: l’uomo dell’Eliseo, agli occhi degli elettori, non è più il politico che ha intascato tangenti, ma il coraggioso difensore dei francesi contro l’invasione dei rom. Facile, no?

… e Veltroni in Italia
Sia chiaro: la “strategia della distrazione” non è un’esclusiva delle destre. Anzi.
Facciamo un piccolo passo indietro. Siamo nel 2007, e a Palazzo Chigi siede il secondo governo Prodi. È un esecutivo che non gode di grandi simpatie popolari, per varie ragioni. Anzitutto, perché la coalizione che lo sostiene è molto debole, e dunque incapace di azioni incisive. Grazie alla legge elettorale rimasta in vigore fino ad oggi (il “porcellum”), dalle urne è uscito un risultato a dir poco bizzarro: mentre alla Camera il centro-sinistra gode di un ampio sostegno parlamentare, al Senato la maggioranza è tale per appena 10 voti, gran parte dei quali provenienti dai senatori a vita.

D’altronde, le scelte dell’esecutivo scontentano un po’ tutti. L’indulto, approvato l’anno prima, ha mandato su tutte le furie l’elettorato “giustizialista”, mentre l’opinione pubblica pacifista è rimasta delusa dal rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Di crisi economica non si parla ancora, ma dall’altra parte dell’Oceano è già scoppiata la bolla dei mutui subprime, e il futuro si presenta tutt’altro che roseo. Insomma, il centro-sinistra teme di perdere le elezioni, e cerca qualcosa per recuperare consensi.

Quel “qualcosa” lo trova il Sindaco di Roma, Walter Veltroni. Il 31 ottobre 2007, alla stazione di Tor di Quinto, una donna – Giovanna Reggiani – viene seviziata e uccisa. L’omicida è un giovane romeno, Romulus Mailat. Il primo cittadino della Capitale convoca d’urgenza una conferenza stampa: la colpa, dice, è dell’eccessiva immigrazione romena, favorita dall’ingresso di Bucarest nell’Unione Europea e dalla conseguente apertura delle frontiere. Sollecitato da Veltroni, il Consiglio dei Ministri si riunisce d’urgenza e vara un “pacchetto sicurezza” che agevola le procedure di espulsione dei cittadini comunitari.

Da quel momento, l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sui romeni, e in particolare sui rom: in tutte le Prefetture vengono convocati d’urgenza i Comitati per l’Ordine e la Sicurezza, si raccolgono compulsivamente dati sulle presenze romene, si predispongono espulsioni e sgomberi. Anche in questo caso, il gioco è fatto: invece di discutere dell’incipiente crisi economica, o delle insufficienti politiche del lavoro, tutti parlano di “pericolo zingaro” e di “emergenza romeni”…

Zingaropoli a Milano: la sconfitta della “strategia della distrazione”
Bisogna anche dire che la “strategia della distrazione” non funziona sempre. C’è un caso clamoroso in cui non ha funzionato, e può essere interessante vedere perché.
Siamo a maggio del 2011. Milano è in piena campagna elettorale in vista del ballottaggio per le amministrative. La Sindaca uscente, Letizia Moratti, è in difficoltà, rischia di perdere e ha bisogno di risalire la china. Anche in questo caso, il centro-destra mette in atto la “strategia della distrazione”: e dunque il candidato rivale, Giuliano Pisapia, viene accusato di voler riempire la città di moschee e campi nomadi (la “zingaropoli islamica”: ricordate?).

Un gruppo di burloni scrive via twitter alla Moratti: «il quartiere Sucate dice no alla moschea in Via Giandomenico Puppa». Naturalmente non esiste nessun quartiere “Sucate”, né tantomeno nessuna via intitolata a “Giandomenico Puppa”. Ma lo staff della Moratti ci casca, e risponde: «nessuna tolleranza per le moschee abusive». Lo scambio di battute fa il giro della rete, e si diffonde in modo virale: nascono blog sarcastici che descrivono il paradiso di Sucate, «bellissimo quartiere pieno di rom, centri sociali e moschee», si diffondono battute e barzellette, e i social network sono letteralmente sommersi dal tormentone. La “strategia della distrazione” è stata messa in ridicolo. E alla fine, Letizia Moratti perde lo scranno a Palazzo Marino.

Rispondere “a tono”
Intendiamoci. È probabile che non tutti gli elettori milanesi abbiano maturato convinzioni antirazziste. Può darsi che molti sostenitori di Pisapia nutrano sentimenti di diffidenza nei confronti di rom, immigrati e minoranze religiose. È possibile che tanti cittadini esultino ancora nel sentire le notizie sugli sgomberi nei “campi nomadi”. Non siamo di fronte cioè a un’improvvisa “conversione” dell’elettorato.
Più semplicemente, la gente ha capito che la “tolleranza zero” è, spesso, un imbroglio, una strategia per deviare l’attenzione. Chi agita lo spettro dell’invasione degli immigrati è, di solito, assai poco interessato ai flussi migratori o alla “difesa degli italiani”, e molto più attento al proprio tornaconto elettorale.

Se questo è vero, forse (forse) bisognerebbe rispondere a tono. Di fronte alla campagna della Lega, è certo necessario stigmatizzare il razzismo: ma probabilmente si dovrebbe anche cambiare registro. La Lega vuole che si parli di immigrazione per recuperare terreno elettorale. E invece è necessario che si parli proprio della Lega Nord, delle inchieste che la riguardano, e delle accuse gravissime – tutte da verificare, ovviamente – che l’hanno investita: corruzione, uso spregiudicato di fondi pubblici, appropriazione indebita di risorse provenienti dalle tasche dei cittadini.
Questi sarebbero i “difensori degli italiani” (o dei padani)? Ma fateci il piacere…

Sergio Bontempelli

 

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