Diritti dei migranti e antirazzismo

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Pisa, un marchio per non essere marchiati

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa Rivista, 6 Novembre 2018

La mensa universitaria è in pieno centro, a due passi dalla storica Piazza dei Cavalieri: gli studenti, dopo pranzo, si attardano nei bar della zona e sorseggiano i loro caffè, in attesa di tornare a lezione. Tra i tavolini all’aperto, collocati negli angusti vicoli medievali, fanno capolino spesso gli ambulanti senegalesi: vendono accendini, fazzoletti, portachiavi, ombrelli. Le reazioni degli studenti sono diverse: c’è chi si ferma a parlare, chi compra qualcosa, chi fa l’elemosina e regala qualche spicciolo. E poi c’è chi si infastidisce, e manda via in malo modo il venditore.

Siamo a Pisa, piccola città famosa per la sua “Torre Pendente”, che è giusto a due passi dalla zona universitaria: basta allontanarsi di qualche metro, costeggiando la Facoltà di Lingue, e si arriva davanti alla Torre. Qui il paesaggio umano cambia: di studenti se ne vedono pochi, di pisani “autoctoni” ancor meno. La Piazza dei Miracoli, col suo complesso monumentale, è piena fino all’inverosimile di turisti. Ci sono anche i venditori senegalesi, che però vendono merci più adatte alla clientela di questa porzione di città: bastoni da selfie, cappelli per ripararsi dal sole, magliette, souvenir della Torre.

I senegalesi sono una componente storica dell’immigrazione in Toscana, e in particolare a Pisa. I primi arrivi risalgono alla fine degli anni Ottanta: le fabbriche della provincia – soprattutto le concerie del Valdarno – avevano un disperato bisogno di manodopera, e i giovani africani trovavano facilmente un impiego. Per più di venti anni, le piccole e medie imprese del circondario hanno fatto fortuna grazie al lavoro di migliaia di operai senegalesi. Poi è arrivata la crisi, molte aziende hanno chiuso, e in tanti sono rimasti disoccupati: alcuni sono tornati in Senegal, altri hanno cercato fortuna nel Nord Italia, ma qualcuno è rimasto qui, in attesa di tempi migliori. E per sbarcare il lunario ha deciso di fare l’ambulante.

«Devo mantenere la mia famiglia, i miei figli, ma non voglio rubare né spacciare droga», ci spiega Abdul, che vende nella zona del Duomo. Ed è un discorso che si sente fare spesso dai senegalesi che abitano a Pisa: fare l’ambulante, per molti di loro, significa guadagnarsi da vivere onestamente. Senza rubare né spacciare, appunto. Il problema è che, da qualche anno a questa parte, la vendita ambulante è stata criminalizzata: le amministrazioni locali la considerano sinonimo di “degrado”, e i commercianti – soprattutto quelli nella zona turistica – si lamentano della presenza dei senegalesi vicino ai loro negozi.

Ma il tema caldo del dibattito cittadino è il commercio di oggetti contraffatti: alcuni ambulanti vendono borse e cappotti “firmati”, con le etichette false dei marchi più conosciuti e prestigiosi (Calvin Klein, Gucci etc.). Abdul, che ha scelto di non vendere questi oggetti “griffati”, ci spiega che molti suoi connazionali lo fanno perché in questo modo guadagnano di più: «I turisti non comprano né accendini né bastoni da selfie: tutti ci chiedono qualche borsa con il marchio».

La vendita di oggetti contraffatti è una violazione delle norme in materia di diritto d’autore (un reato simile, per capirci, a quello che si compie scaricando illegalmente film o pezzi musicali), ed è punito con sanzioni penali severissime, tra cui la revoca del permesso di soggiorno. Così, da qualche anno alcuni senegalesi si chiedono come poter continuare a vendere e a sopravvivere, senza correre rischi così alti.

È da questa riflessione collettiva che è nata l’idea di produrre un proprio marchio, un “brand” dei “senegalesi di Pisa”, da applicare alle borse e ai capi di abbigliamento venduti per le strade della città: un’idea che prende spunto da un’analoga iniziativa avviata a Salerno, sempre dalle comunità senegalesi. L’obiettivo è quello di creare curiosità attorno al nuovo marchio, così da spingere i turisti e i passanti a comprare i relativi prodotti, rinunciando ai brand più prestigiosi.

Il progetto è ancora in fase di definizione, ma i senegalesi sono ottimisti. «Sarà un modo per evitare la diffusione di oggetti contraffatti», scrivono in un comunicato firmato dalla loro associazione di riferimento, Senegal Mbolo, e da due associazioni cittadine di solidarietà, Africa Insieme e Rebeldia. «Invece di commercializzare borse, occhiali e vestiti “di marca”, venderemo borse, occhiali e vestiti caratterizzati dal nostro marchio. Sarà l’unico marchio che nasce dalle strade e dalle piazze di Pisa: un vanto per la città, un suo prodotto tipico e originale. Si chiamerà ABUSIF, ma sarà abusivo solo di nome».

(Sergio Bontempelli)

“Africa Insieme”, 30 anni di impegno e solidarietà a Pisa

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa Rivista, 16 Ottobre 2018

Africa Insieme è una piccola associazione di volontariato che, sul territorio di Pisa, si occupa dei diritti dei cittadini stranieri, degli immigrati e dei rifugiati: gestisce uno sportello di tutela legale, organizza corsi di formazione per operatori, promuove dibattiti pubblici ed eventi dedicati al mondo dei migranti. È insomma e per fortuna un’associazione come tante sul territorio nazionale. Ma proprio in questi giorni Africa Insieme compie trent’anni. Ed è per sottolineare e festeggiare il suo lungo e per molti versi pioneristico impegno che ne parliamo qui.

Nell’ormai lontano 1988, quando è nata, in Italia si parlava ancora molto poco di immigrazione. Il Muro di Berlino non era ancora caduto, gli albanesi non attraversavano ancora il Canale di Otranto – come avrebbero fatto per tutti gli anni Novanta –, i rumeni erano governati da Ceaucescu e non potevano (né forse volevano) varcare i confini del loro paese. Il Mar Mediterraneo non era attraversato dalle tante imbarcazioni che oggi portano in Europa richiedenti asilo e rifugiati di origine africana.

Eppure l’Italia era già terra di immigrazione: proprio negli anni Ottanta cominciarono ad arrivare i primi lavoratori stranieri, dal Marocco, dalla Tunisia, ma anche dal Senegal e in generale dall’Africa sub-sahariana. I giornali ne parlavano poco, e non c’era un vero e proprio dibattito pubblico sulle politiche dell’immigrazione così come lo conosciamo oggi. Sulla stampa quotidiana, gli articoli in tema erano relegati quasi sempre alle pagine dell’economia, e venivano letti per lo più da sindacalisti, imprenditori e studiosi del mondo del lavoro: l’immigrazione era un tema «da specialisti».

Eppure, gli immigrati arrivavano, e andavano a lavorare nei campi del Sud Italia o nelle fabbriche del Centro-Nord. Avevano spesso problemi col permesso di soggiorno, e all’epoca era difficile trovare avvocati o consulenti che conoscessero le norme sull’immigrazione. Africa Insieme nacque per garantire i diritti dei nuovi arrivati, che spesso rimanevano «invischiati» nelle maglie di una normativa complicata, incoerente, contraddittoria, a volte inutilmente farraginosa e ostile.

I fondatori dell’associazione provenivano soprattutto dall’Arci, dalla Chiesa Valdese (che a Pisa è sempre stata una presenza storica del volontariato cittadino), dalla Fgci (l’organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano) e c’era poi un nutrito gruppo di giovani attivisti senegalesi. Africa Insieme – come il Naga di Milano e Senza Confine di Roma, che risalgono più o meno agli stessi anni – era anche una delle prime associazioni in Italia a occuparsi specificamente di immigrazione: in precedenza, a sostenere i migranti erano stati soprattutto i sindacati (la Cgil in particolare) e le associazioni del mondo cattolico, Caritas in primo luogo

L’esperienza di Africa Insieme sarebbe forse durata pochi anni se l’immigrazione non avesse conquistato di lì a poco le prime pagine di tutti i giornali, locali e soprattutto nazionali. Nell’Estate 1989, nelle campagne di Villa Literno in Campania, una banda di rapinatori uccise a colpi di pistola un giovane immigrato sudafricano, fuggito dall’apartheid nel suo paese (dove Mandela era ancora in carcere) e divenuto bracciante agricolo precario nelle campagne del Sud. Fu, per l’opinione pubblica, una sorta di fulmine a ciel sereno. Il nostro paese scopriva di essere diventato terra di immigrazione. E scopriva anche che i nuovi arrivati vivevano spesso in condizioni di semi-schiavitù, sfruttati e sottopagati da padroni senza scrupoli, vittime di violenze e di razzismo.

Il 7 Ottobre 1989, una manifestazione nazionale sfilò per le vie di Roma, ricordando Jerry Masslo e chiedendo a gran voce una legge che garantisse i diritti dei migranti: nasceva così un movimento antirazzista, che nel tempo si organizzò in associazioni e gruppi di volontariato locali. Africa Insieme, nata un anno prima, aveva in qualche modo «precorso i tempi».

Sergio Bontempelli

A proposito di aggressioni razziste

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

L’omicidio di un bengalese a Pisa non è una delle “classiche” aggressioni razziste che abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni. Eppure il razzismo c’entra. Vediamo perché.

È la notte del 13 aprile, siamo a Pisa. Zakir Hossain, un immigrato del Bangladesh, ha finito di lavorare al ristorante indiano “Tanduri”, nella centralissima Piazza Gambacorti (che tutti chiamano “Piazza la Pera”, per via di un buffo reperto etrusco a forma, appunto, di pera). Zakir fa il cameriere, ed esce tardi dal lavoro: qualche volta si ferma a chiacchierare coi colleghi e finisce per fare – letteralmente – le ore piccole. Quella del 13 aprile è una notte come le altre, ed è molto tardi quando Zakir si incammina verso casa.

Piazza La Pera è vicina a Corso Italia, vero e proprio “cuore pulsante” della città. È la strada dello shopping, dello “struscio” pomeridiano, ma anche degli uffici pubblici e delle banche: poi, la sera, diventa uno dei centri della “movida”. Quando Zakir raggiunge “il Corso”, però, è notte fonda e non c’è più nessuno in giro. Tutto è tranquillo e silenzioso. All’improvviso, come dal nulla, spuntano tre individui: sembrano ubriachi, e uno di loro si rivolge con fare minaccioso proprio a Zakir. I testimoni assistono ad uno strano alterco: lo sconosciuto urla, Zakir rimane in silenzio. Poi parte un pugno: il giovane bengalese cade a terra. Viene trasportato d’urgenza all’Ospedale, dove muore qualche ora dopo.

Un delitto a sfondo “razziale”?
Il delitto scuote dal torpore la piccola città toscana. Anzitutto, perché si tratta di un evento senza precedenti, almeno da queste parti. Poi perché è avvenuto in pieno centro, in una zona di solito tranquilla, e comunque controllata dalle telecamere. Chi ha commesso l’omicidio, e perché? La nazionalità della vittima ha a che fare con il movente del gesto? Detto in altri termini, possiamo parlare di una violenza a sfondo razziale?

Riuniti in assemblea all’indomani dell’evento, i bengalesi non hanno dubbi: in città si respira da tempo un clima ostile contro gli immigrati. E ad esserne colpiti sono soprattutto loro, gli stranieri che vengono dal Bangladesh: che gestiscono minimarket e rivendite di kebab, e che per questo sono oggetto di invidie e risentimenti da parte dei commercianti “autoctoni”. Insomma, c’è un clima negativo, che certo non è la “causa” dell’omicidio, ma che può aver influito sulle motivazioni dell’assassino.

Passano alcune ore e gli inquirenti scoprono che a sferrare il colpo mortale è stato un cittadino tunisino, Hamza Hamrouni. L’omicidio, quindi, non può avere motivazioni razziste: così almeno dice il Sindaco, Marco Filippeschi, durante la manifestazione di solidarietà convocata dalla Comunità Bengalese. Ma le cose stanno davvero così?

Un omicidio “insolito”
Su un punto ha ragione il primo cittadino: quella subita da Zakir non è un’aggressione razzista “classica”. Quando pensiamo alla violenza a sfondo razziale, ci riferiamo infatti a un “copione” standard, in cui gli attori hanno ruoli ben definiti:  l’aggressore è – di solito – un italiano “purosangue”, magari imbevuto di idee e sentimenti xenofobi; la vittima è uno straniero marginale, escluso, in genere povero e poco inserito nella società di accoglienza.

L’omicidio di Jerry Essan Masslo, nel lontano 1989, è per certi versi il “prototipo” di queste violenze. Masslo era un giovane sudafricano che aveva chiesto asilo politico in Italia: per guadagnarsi da vivere era finito a fare il bracciante a Villa Literno. Viveva in una baracca fatiscente, lavorava quindici ore al giorno ed era pagato una miseria: era un escluso, e in quanto escluso fu aggredito e ucciso.
Per venire ad eventi più recenti, anche la strage di Firenze del 2011 segue un copione, diciamo così, “classico”. L’aggressore è un italiano di estrema destra, che pensa di “farsi giustizia” (le virgolette sono d’obbligo) irrompendo in una piazza e sparando ai venditori ambulanti senegalesi. Le vittime sono, appunto, dei venditori ambulanti: immigrati poveri, marginali, e (di nuovo) “esclusi”.

Ecco, il delitto di Pisa non segue questo copione. Zakir non è povero né “escluso”. Certo, non naviga nell’oro e non lo si può definire “ricco”: ma ha un permesso di soggiorno, vive in un’abitazione dignitosa e lavora regolarmente. Quando siamo andati in Piazza La Pera, a parlare con gli esercenti della zona, molti ci hanno detto: “Zakir era uno di noi”. «Per me non era nemmeno un bengalese – ci ha spiegato il titolare di un negozio – lavorava qui, e non l’ho mai percepito come uno straniero».

Anche l’aggressore non rientra nelle categorie rigide “noi” (gli “autoctoni”) / “loro” (gli immigrati). È tunisino, ma abita in provincia di Pisa da quando era adolescente, e ha una famiglia mista: la madre, tunisina anche lei, si è sposata in seconde nozze con un italiano, che ha rappresentato un “secondo padre” per il ragazzo. Hamza frequenta un circolo Arci e una palestra di pugilato, e ha amici italiani con cui esce la sera a “far baldoria”.

Tutto questo è, forse, un segno dei tempi. L’immigrazione si è ormai stabilizzata, e gli “stranieri” di ieri si sono inseriti nella società, a volte si sono “mescolati” con gli italiani. Il copione dell’«indigeno» che aggredisce «l’altro» funziona sempre meno…
Ciò significa forse che il razzismo è scomparso, e che aggressioni di questo tipo non possono più essere ricondotte ad un clima xenofobo? Ecco, qui le cose si fanno complesse, e bisogna stare attenti a non semplificarle troppo. Vediamo meglio.

Nuove vittime…
Partiamo dalla vittima: un bengalese. I migranti del Bangladesh, a Pisa, sono ben “integrati” – come si usa dire – ma occupano un ruolo preciso nel mercato del lavoro. Sono titolari di minimarket e kebab, e gestiscono un segmento definito del commercio al dettaglio: quello dei negozi aperti a tutte le ore, che vendono a prezzi stracciati o che propongono una ristorazione economica e veloce. È difficile – per non dire impossibile – trovare un bengalese che lavora in una fabbrica o in un ufficio, o che fa l’infermiere in Ospedale. Una delle caratteristiche del razzismo è proprio questa: gruppi identificati in base al colore della pelle, alla (presunta) “cultura” di appartenenza, o al paese di origine, devono “stare al loro posto”. Possono essere accettati e persino guardati con simpatia, a patto che restino nei confini loro assegnati.

La collocazione sociale dei bengalesi li espone al rischio di diventare un “gruppo target”. I kebab e i minimarket, in effetti, sono oggetto di diffusi risentimenti. In primo luogo, ci sono i commercianti “autoctoni”, che temono la concorrenza di negozi aperti a tutte le ore: proprio la sezione locale di Confcommercio ha chiesto recentemente di bloccare il “proliferare di kebab” in città. E poi, un’attività aperta la sera fino a tarda ora attira una clientela “di strada”, fatta di clochard e senza fissa dimora: persone che, per la loro “visibilità”, rischiano di compromettere “l’immagine” di un negozio, e che per questo sono viste con sospetto e diffidenza dai titolari degli esercizi. In zona stazione, sono frequenti le risse tra commercianti bengalesi e clienti definiti come “balordi”. E poiché questi ultimi, a Pisa, sono spesso tunisini, i conflitti assumono una connotazione “etnica”: Bangladesh contro Tunisia, Asia contro Nordafrica.

… e nuovi aggressori
Da questo punto di vista, è significativo che l’aggressore sia proprio un tunisino. Ma, anche qui, siamo di fronte a un migrante “particolare”: non un “estraneo” appena arrivato, che non padroneggia la lingua e che vive solo tra connazionali. Hamza – lo abbiamo visto – frequenta coetanei italiani, e quando ha ucciso Zakir era accompagnato dai suoi amici “autoctoni”. Una banda “mista” e “meticcia”, che non per questo è necessariamente immune dal razzismo: al contrario, nelle sue scorribande prende di mira un immigrato ben identificabile, appartenente al “gruppo-target” dei bengalesi.

Infine, per completare il quadro, bisogna far cenno anche alla reazione della cittadinanza. Da un lato si sono registrate diffuse manifestazioni di solidarietà alla vittima: quasi tutti i commercianti di Piazza La Pera, ad esempio, hanno chiuso i loro negozi per una giornata in segno di lutto (un fatto tutt’altro che scontato, da queste parti).

Dall’altro lato, la tragedia ha attivato le classiche reazioni “securitarie”: la richiesta è quella di avere più telecamere, più controlli di polizia, più espulsioni di immigrati “indesiderabili” (e magari anche meno tunisini in giro per le strade…). Ma l’elemento nuovo è che queste rivendicazioni sono fatte proprie anche dai rappresentanti dei bengalesi: al classico conflitto italiani contro immigrati si è dunque sostituita una contrapposizione più articolata, dove diversi “gruppi-target” possono trovarsi su posizioni diverse e opposte. Un po’ come gli Stati Uniti di un secolo fa, dove erano frequenti gli scontri tra neri e immigrati italiani (o irlandesi).

Il delitto di Pisa, insomma, potrebbe far emergere una realtà nuova: un’Italia ormai compiutamente “meticcia”, dove gli “immigrati” di ieri stanno diventando i “cittadini” di oggi (e, speriamo, di domani). Ma dove, probabilmente, il razzismo non scompare affatto: cambia volto e natura, e al tempo stesso pervade profondamente la società.

Sergio Bontempelli, 6 Maggio 2014

L’immigrazione a Pisa, Marzo 2013

“Viaggio nella crisi” è la trasmissione di approfondimento condotta da Alessandro Turini e Francesco Ippolito. Va in onda su 50 Canale, emittente televisiva di Pisa e provincia. Il 14 Marzo 2013 la puntata era dedicata al tema dell’immigrazione. Ospiti in studio: Sergio Bontempelli dell’Associazione Africa Insieme; Maria Paola Ciccone assessore alle politiche sociali del Comune di Pisa; Filippo Bedini dirigente PdL Pisa e consigliere comunale; Leonardo Carloppi dirigente Futuro e Libertà Pisa.

Minacce ai rom dalla Polizia Municipale, Ottobre 2010

Canale 50, emittente televisiva locale di Pisa e provincia. Telegiornale, edizione della sera, 20 Ottobre 2010. Il servizio di apertura, sulla denuncia dell’associazione Africa Insieme, circa presunti atti di intimidazione e di violenza compiuti dal Comandante della Polizia Municipale di Pisa contro i rom, nel corso di un intervento al campo rom di Cisanello

Africa Insieme e il decreto flussi, 2007-2009

Da Laika TV (emittente televisiva sul digitale terrestre, canale 22.5). Settima puntata della trasmissione “Rotta sul Nuovo Mondo”, 13 Aprile 2009. Titolo della puntata: “La nostra Africa: per continuare un cammino”, sull’attività di Africa Insieme a Pisa. Video sul decreto flussi 2007, con intervista a Sergio Bontempelli. Tratto dalla pagina online di “Rotta sul nuovo mondo”

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Il decreto flussi a Pisa, 2009

Da Laika TV (emittente televisiva sul digitale terrestre, canale 22.5). Settima puntata della trasmissione “Rotta sul Nuovo Mondo”, 13 Aprile 2009. Titolo della puntata: “La nostra Africa: per continuare un cammino”, sull’attività di Africa Insieme a Pisa. Video sul decreto flussi 2007, con intervista a Sergio Bontempelli.

Reportage sulle prime ore dell’ordinanza antiborsone a Pisa

Originariamente pubblicato su Pisanotizie, quotidiano online di informazione locale, 9 Marzo 2009, link non più attivo

È il primo giorno di applicazione della cosiddetta «ordinanza antiborsone», firmata Venerdi dal Sindaco Marco Filippeschi. Un giorno atteso da alcuni, temuto da altri: sicuramente, non un giorno normale, come tanti. Almeno dalle parti di Piazza dei Miracoli, dove il dibattito su questi temi è più «incandescente»: tra i commercianti, che sollecitano da sempre iniziative contro i venditori «abusivi», e gli ambulanti stranieri che invece lamentano violenze e prevaricazioni nei loro confronti. Tutti qui aspettano al varco l’applicazione concreta dell’ordinanza.

Arriviamo verso mezzogiorno, con l’autobus che ferma proprio davanti a Piazza Manin. È una splendida giornata di sole, e dalle parti del Campo dei Miracoli – al di là della Porta che dà sul Duomo – si intravedono i turisti che passeggiano, finalmente senza ombrelli, e ammirano la Torre e il Battistero. All’ingresso della piazza, però, il clima è ben diverso: una fila di agenti presidia l’accesso sotto la supervisione del Comandante della Polizia Municipale Massimo Bortoluzzi. Diverse auto delle forze dell’ordine sono disposte a metà strada tra i cordoli di Via Bonanno e la Porta Nuova, quella che dà sul Duomo.

Scendiamo dall’autobus, in compagnia di un ragazzo senegalese incontrato durante il viaggio. Stiamo per entrare in Piazza Manin, l’agente della Polizia Municipale ci fa passare ma ferma il cittadino straniero. «Ce l’hai i documenti? Da oggi al Duomo possono entrare solo quelli che hanno i documenti». «Perché, sono sempre passato di qui…». «Beh, oggi è diverso, non puoi entrare». Il tono dell’agente è fermo, ma il ragazzo non insiste: non ha il permesso di soggiorno – ci spiegherà poco dopo – e teme l’espulsione. Meglio girare alla larga.

Il senegalese, però, non ha nessun “borsone”. E a dire la verità non ha nemmeno una borsa piccola. L’ordinanza, come noto, vieterebbe «il trasporto e la detenzione di borse e sacchi […] inequivocabilmente riconducibili alla vendita illegale». Ma qui, di borse e sacchi non se ne vedono. «In realtà», prova a spiegarci un agente, «il provvedimento del Sindaco è finalizzato a contrastare l’abusivismo: e le persone che abbiamo fermato le conosciamo già, sappiamo che sono abusivi». Chiediamo spiegazioni su come vengono effettuati i controlli, dopo aver notato che noi di Pisanotizie, armati di zaini, non siamo stati fermati, mentre numerose persone di colore, indipendentemente dai “borsoni”, sì.

Dietro di noi, un agente della Polizia Municipale ferma un’anziana signora con l’accento slavo. «Dove va, signora? Ha i documenti? Da oggi non si entra senza documenti». «Sto andando all’Ospedale», risponde la signora, «c’è mio fratello ricoverato, sta molto male». «Non può entrare lo stesso», dice il vigile. Effettivamente, proprio in Piazza Manin c’è uno degli ingressi dell’Ospedale: «non è l’unico ingresso, la signora poteva comunque passare dall’entrata del Pronto Soccorso in Via Bonanno, dove non ci sono controlli», ci spiega un medico ospedaliero incontrato nelle vicinanze, «comunque non dovrebbero fermare la gente in questo modo, non dovrebbero intimidire chi viene in Ospedale».

Proviamo a fare un giro nei luoghi “caldi” della vendita ambulante. Entriamo in piazza Manin, poi costeggiamo le mura accanto al Duomo, dove ci sono i banchi dei venditori “regolari”, e arriviamo in Largo Cocco Griffi. Ad ogni ingresso, c’è una camionetta dei Carabinieri a sorvegliare chi entra e chi esce. E nella zona “calda”, sull’asse Piazza Manin-Largo Cocco Griffi, non c’è traccia di immigrati africani. Arriviamo fino in fondo, e su via Contessa Matilde ci sono i ragazzi stranieri cui è stato impedito l’ingresso in area Duomo. «Non è giusto», raccontano, «chiedono i documenti solo alle persone di colore. E se uno è scuro di pelle non passa, anche se non ha il borsone, e anche se ha i documenti».

Torniamo indietro, verso Piazza Manin. La tensione, adesso, si è un po’ allentata. Qualche macchina della Polizia Municipale è tornata alla base, i controlli ci sono ma sembrano meno stringenti. In piazza, alcuni immigrati commentano l’accaduto, sorvegliati a vista dagli agenti. «Non è giusto», dice un commerciante straniero, regolare e con regolare licenza, «controllano solo la gente di colore, e le multe le fanno solo a noi immigrati». «Però non scrivere il mio nome», aggiunge, «qui il clima è brutto, e ho paura».

Sergio Bontempelli

L’arrivo della ferrovia a Pisa e la nascita del quartiere Stazione

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

In questi giorni si discute molto del futuro del quartiere Stazione di Pisa: può essere utile, allora, ripercorrerne la storia passata. Ecco come è nato quel quartiere, e come la Stazione distrusse – nel XIX secolo – il vecchio tessuto urbano della zona a Sud della città.

Era il 17 Marzo 1844, quando il primo treno percorse la breve distanza che separa Livorno e Pisa. I viaggiatori a bordo erano i primi toscani ad utilizzare la ferrovia nel territorio (allora) granducale. In quella che di li a poco sarebbe diventata l’Italia unita, erano state aperte pochissime strade ferrate: c’era la Napoli-Portici – la prima tratta costruita nel nostro paese -, una piccola parte del tracciato Napoli-Brindisi e la Padova-Mestre (a sua volta primo “avamposto” del futuro collegamento Venezia-Milano) [cfr. Cristiana Torti, Quando i treni a vapore…, in Cristiana Torti (a cura di), L’industria della memoria. Archeologie industriali in provincia di Pisa, Tagete edizioni, Pisa 2004, pagg. 77-83; Wikipedia, Storia delle ferrovie in Italia, «le origini»].

Il Granduca Leopoldo II di Toscana capì, prima e meglio di altri, l’importanza della ferrovia per lo sviluppo economico del Granducato. Per questo, sin dalla fine degli anni ’30 commissionò ai suoi tecnici la costruzione di una linea che collegasse i due luoghi strategici della Toscana: la capitale, Firenze, e il porto di Livorno, principale scalo commerciale della regione. All’inizio, si pensò ad una strada ferrata riservata esclusivamente al trasporto merci, il cui tracciato – tra l’altro – non prevedeva il passaggio da Pisa. Nel 1839, invece, Robert Stephenson propose il percorso Livorno – Pisa – Pontedera – Firenze, con un uso promiscuo merci/passeggeri: l’idea convinse il sovrano, e nel Giugno 1841 iniziarono i lavori del primo tratto, tra Livorno e Pisa. Nel frattempo, veniva costruita a Pisa la prima stazione ferroviaria della città, la cosiddetta Leopolda nell’attuale Piazza Guerrazzi [cfr. C. Torti, Quando i treni a vapore…, cit].

Lo sviluppo della rete ferroviaria toscana

La linea Pisa-Livorno non restò isolata. Il 19 Ottobre 1845 venne inaugurata la tratta fino a Pontedera, e il 12 Giugno 1848 fu terminato l’intero percorso fino a Firenze. Alla fine degli anni ’50, infine, fu aperto il tracciato che da Pisa portava a Lucca, e poi a Montecatini, Pistoia, Prato e Firenze. Per l’occasione, venne costruita a Pisa la seconda Stazione Leopolda, a Nord della città, dove passavano i treni per Lucca. Il Granducato di Toscana si trovò così ad essere, nel 1859, il terzo Stato italiano per consistenza della rete ferroviaria (257 km complessivi), dopo il Regno di Sardegna (850 km) e il Lombardo-Veneto (522 km): Pisa, con ben due stazioni e altrettante strade ferrate, diventò uno scalo ferroviario strategico per il granducato.

La costruzione di questa imponente (per l’epoca) rete di collegamenti e di binari non fu esente da conflitti e discussioni accese. «Voci contrarie alle strade ferrate», scrive in proposito Cristina Torti, «emersero in quegli strati di popolazione che vedevano irreversibilmente persa la propria attività, i navicellai e i barrocciai, mentre la questione delle espropriazioni dei terreni scatenò non poche contestazioni. Si diffuse anche la diceria che le locomotive e gli sbuffi di vapore danneggiassero le colture e la salute, ci furono sabotaggi da parte dei navicellai e processioni con benedizioni contro il “diabolico” congegno» [cfr. C. Torti, Quando i treni a vapore…, cit.].

La costruzione della Stazione Centrale

Intanto arrivò, nel 1861, l’unità d’Italia. Di fronte alla prospettiva dell’apertura delle frontiere tra i vecchi Stati della Penisola, e della mobilità che ne sarebbe derivata, la Società per le Strade Ferrate Livornesi – l’ente che gestiva la rete ferroviaria toscana – pensò di unificare le due stazioni cittadine, costruendo il nuovo scalo di Pisa Centrale. Fu individuata, a questo scopo, un’area a Sud della città, quella dove oggi sorge la stazione, non lontana dalla Leopolda.

La zona si trovava a ridosso delle mura urbane, il cui tracciato seguiva il percorso delle attuali Via Benedetto Croce e Via Ninio Bixio. Come sa qualunque pisano, tra queste due strade si apre, oggi, la grande Piazza Vittorio Emanuele, nel punto dove termina Corso Italia. Ecco qui sotto una piccola mappa, nella quale il tracciato (approssimativo) delle vecchie mura è evidenziato in rosso:

(fare clic sulla mappa per ingrandire)

All’epoca, venendo da Corso Italia (che allora si chiamava Carraia del Carmine, e prima ancora si era chiamata Strada San Gilio), e andando verso l’attuale Stazione (dunque, sulla cartina, dall’alto verso il basso), si incontravano – proprio alla fine del corso – le vecchie mura medievali, nelle quali si apriva la Porta San Gilio che oggi non esiste più. Non c’era ancora la grande Piazza Vittorio Emanuele: superata la porta, si imboccava direttamente la Via dei Cappuccini (attuale Viale Gramsci) che portava in zona S. Marco [per queste informazioni vedi E. Tolaini, Pisa. La città e la storia, ETS, Pisa 2007, pagg. 227 e ss.].

Per costruire la nuova Stazione centrale, si pensò di «sventrare» la Via dei Cappuccini, interrompendone il percorso con i binari. Nel Febbraio 1861, il progetto venne approvato dal Consiglio Comunale. Nel Maggio dello stesso anno, si ottenne la dichiarazione sovrana di pubblica utilità, che consentiva di procedere agli espropri dei terreni, e nel 1862 fu inaugurata la nuova Stazione centrale: cominciava, per quel quartiere di Pisa, un’epoca nuova [cfr. L. Nuti, Pisa. Progetto e città 1814-1865, Pacini ed., Pisa 1986, pagg. 135 e ss.].

La “barriera”

La costruzione del nuovo scalo ferroviario dette luogo all’esigenza di urbanizzare la zona tra la Stazione e la Carraia del Carmine. La progettazione di quest’area fu affidata all’ingegner Pietro Bellini, di cui si è già parlato in questo blog a proposito dei Lungarni: il disegno originario prevedeva l’abbattimento della Porta San Gilio, la distruzione di una parte considerevole delle vecchie mura, e l’apertura al loro posto di una grande piazza, di forma circolare, che avrebbe dovuto costituire la “porta di accesso” alla città per chi veniva dalla Stazione. I lavori cominciarono proprio con la demolizione della Porta San Gilio (1864). Intanto, però, nel 1866 il Bellini morì, e la gestione del progetto fu assunta dall’ingegner Vincenzo Micheli, padre del primo «piano regolatore» della città. La piazza fu ridisegnata in forma ellittica, con al centro un monumento al sovrano Vittorio Emanuele, e la struttura della Barriera Daziaria. Ecco come si presentava la piazza una volta ultimati i lavori:

(clicca sull’immagine per ingrandire)

L’aspetto, come si vede, è assai diverso da quello odierno che tutti conosciamo:

(clicca sull’immagine per ingrandire)

L’intero quartiere subì una trasformazione profondissima. Oltre alla Stazione e alla piazza con la Barriera, fu costruito il Viale della Stazione sul tracciato della vecchia Via dei Cappuccini, la nuova Via Crispi (verso il Lungarno), mentre si ricostruirono il tratto urbano della Via Fiorentina (chiamato Viale Bonaini) e quello della Via Livornese (oggi Via Cesare Battisti) [cfr. E. Tolaini, cit., pagg. 230]. Nel frattempo, la storica “Carraia del Carmine” (oggi Corso Italia), fu ribattezzata Strada Vittorio Emanuele: strada, e non via, per evitare il gioco di parole (via Vittorio Emanuele!) che i pisani, per lo più di fede repubblicana, avrebbero facilmente diffuso… [cfr. E. Tolaini, cit., pag. 235, nota 18]

Nelle intenzioni dei progettisti, la zona doveva diventare il nuovo centro di Pisa. E infatti, oltre alle aree verdi e agli spazi aperti, sorsero sul nuovo Viale della Stazione tre alberghi-ristoranti e tre caffè, luogo di ritrovo abituale della borghesia cittadina.

I costi di tutta l’operazione, tuttavia, furono altissimi. In primo luogo, per il paesaggio e per la struttura urbanistica della zona: la distruzione delle mura medievali, la scomparsa di una delle porte storiche del tessuto urbano, lo smembramento del quartiere S. Marco ebbero un impatto devastante su tutta la zona Sud di Pisa. Ma la città pagò anche in termini economici. Nonostante la dichiarazione di pubblica utilità – che avrebbe consentito di acquisire i terreni tramite esproprio – l’amministrazione procedette per lo più a comprare le aree, con grave danno per le casse dell’erario. Nel 1886, le spese complessive per tutti gli interventi erano raddoppiate rispetto alla previsione iniziale, e Pisa risultò essere una delle città più indebitate d’Italia [cfr. E. Tolaini, cit., pag. 231 e pag. 233]. La speculazione e gli affari privati, insomma, ebbero la meglio sull’interesse pubblico.

La nascita della tramvia

Negli anni ’80 il sistema cittadino dei trasporti si arricchì di un nuovo strumento: il tram.

La prima linea, che collegava Pisa con Pontedera, fu inaugurata il 23 Agosto 1884: partiva dalla nuova Piazza Vittorio Emanuele, entrava in viale Bonaini, raggiungeva la Fornace Antonimi (nell’attuale quartiere de La Cella) e proseguiva a Riglione, Navacchio, San Benedetto e Fornacette, arrivando a Pontedera lungo il percorso della Via Fiorentina [cfr. C. Torti, Quando i treni a vapore…, cit.]. Il 18 giugno 1892 venne inaugurata la linea Pisa-Marina. Il tracciato partiva da Pisa – sempre dalla Piazza Vittorio Emanuele – passava sulle mura urbane all’altezza del Bastione Stampace, scavalcava il canale dei Navicelli, la ferrovia e la strada provinciale, e continuava sulla via Vecchia Livornese verso Marina.

Il nuovo quartiere si trovò cosi ad essere il crocevia di diversi mezzi di comunicazione: una stazione intermodale, per usare un termine che piace tanto all’amministrazione comunale di oggi.

 Sergio Bontempelli, 24 Luglio 2008

«Un luogo indecente, così vicino agli ebrei»

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Una Chiesa in pieno centro, a Pisa, la cui collocazione è considerata «sconveniente» per la sua vicinanza al quartiere ebraico. Una «pescheria» che produce acque di lavorazione difficili da smaltire. Problemi ambientali ed «emergenza sicurezza», un secolo e mezzo fa…

Quella che vedete qui sopra è la bella Chiesa di Sant’Andrea a Pisa, oggi sconsacrata. Nell’Ottocento la sua collocazione era da alcuni considerata sconveniente, prossima com’era «al ricettacolo delle donne di partito» (le prostitute) e «circondata in gran parte dalle abitazioni degli israeliti». La chiesa si trovava, infatti, nel bel mezzo del quartiere ebraico della città. L’attuale Sindaco Marco Filippeschi, se fosse vissuto in quel periodo, si sarebbe prodigato a spiegarci che, certo, gli ebrei non sono criminali e usurai, però attorno a loro si crea una percezione di insicurezza, a cui bisognerà pur dare qualche risposta. E magari avrebbe provveduto a sgomberare il ghetto… Ma non divaghiamo, e restiamo ai fatti.

Il problema della Chiesa di S. Andrea emerse, attorno alla metà del XIX secolo, nell’ambito di una delle prime questioni ambientali discusse in città: quella della pescheria. Il mercato del pesce si trovava allora in Via Palestro, di fronte alla Chiesa di S. Pierino: una zona all’epoca popolare, anche un po’ malfamata, eppure vicinissima al Lungarno, alla «vista magnifica» che incantava i turisti e inorgogliva gli intellettuali «locali» [cfr. Emilio Tolaini, Pisa. La città e la storia, ETS, Pisa 2007, pag. 208]. A due passi dalla pescheria, d’altra parte, c’erano i macelli pubblici e il mercato della frutta e della verdura: un connubio esplosivo dal punto di vista ambientale. Come spiega Emilio Tolaini, «le acque di lavorazione della carne, del pesce e delle verdure ponevano seri problemi di smaltimento che il decrepito sistema di scoli non era in grado di assicurare, aggravando la situazione ambientale di una zona fitta di vicoli, di edilizia molto densa, sviluppata in altezza, per lo più fatisciente, occupata dalla parte più povera della popolazione, quindi con sacche di delinquenza e di prostituzione» [E. Tolaini, cit., pag. 208].

La questione della pescheria, oggetto di dibattito sin dal ‘700, emerse con forza nel 1837, quando le autorità locali decisero di trasferire le attività di lavorazione e di vendita del pesce in una zona più consona, attigua all’attuale Tribunale. Il progetto del 1837 prevedeva in particolare il trasferimento della pescheria nella Chiesa di S. Andrea, la quale sarebbe stata chiusa al culto, con una motivazione che oggi sembra incredibile: la Chiesa era mal situata, perchè troppo vicina alle prostitute e al quartiere degli ebrei [Lucia Nuti, Pisa, progetto e città 1814-1865, Pacini Editore, Pisa 1986, pagg. 148-150]. In preparazione dei lavori, la Chiesa fu sconsacrata, furono preparati i progetti per la demolizione e per la costruzione, al suo posto, della nuova pescheria.

Gli abitanti della zona, però, opposero resistenza: la Chiesa, secondo loro, non andava demolita, e nel corso del 1839 si moltiplicarono petizioni e proteste per la sua ripartura al culto. Spinta dalle pressioni, la Magistratura (oggi si direbbe l’Amministrazione Comunale) cambiò idea, e predispose un progetto che spostava la pescheria a pochi metri dalla sua collocazione originaria, senza utilizzare la Chiesa di S. Andrea [L. Nuti, cit., pag. 150]. Ma in questo modo suscitò le proteste di segno opposto della Camera di soprintendentenza comunitativa (un organo granducale di controllo), che lamentava l’atteggiamento ondivago delle autorità locali: la Magistratura pisana rispose con una dettagliata relazione del suo ingegnere, nella quale si dimostrava che «S. Andrea, collocata nel punto più basso della zona, una volta trasformata in pescheria avrebbe avuto gravi problemi di fognatura, mentre il nuovo progetto elaborato avrebbe assicurato all’edificio aria e ventilazione sufficienti: tutte ragioni che consigliavano la restituzione della Chiesa ai parrocchiani» [L. Nuti, cit., pag. 150].

Intanto, nel 1845, la Chiesa di Sant’Andrea riaprì al culto, e l’Arcivescovo locale chiese l’allontanamento delle prostitute dalla zona. Ma l’anno dopo, il 14 Agosto del 1846, una forte scossa di terremoto colpì gravemente il quartiere, lesionando alcuni fabbricati tra i quali la stessa pescheria. Questa venne trasferita provvisoriamente in Piazza S. Paolo, in attesa di una sistemazione definitiva.

Negli anni ’50, però, della pescheria si parlò sempre meno. Il quartiere fu oggetto di un ambizioso intervento urbanistico, che prevedeva lo sventramento del vecchio tessuto medievale e la costruzione di una nuova strada di collegamento tra Piazza S. Caterina e i Lungarni: l’attuale Via Cavour. Ma questa è un’altra storia.

Sergio Bontempelli, 6 Giugno 2008

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