Pistoia, formazione agli operatori FAMI-FASI, Maggio 2021: il fenomeno migratorio tra miti e realtà
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Diritti dei migranti e antirazzismo
Pistoia, formazione agli operatori FAMI-FASI, Maggio 2021: il fenomeno migratorio tra miti e realtà
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Articolo originariamente pubblicato sul blog della lista civica Una Città in Comune Pisa. Vedi anche: articolo de Il Tirreno, cronaca di Pisa, 3 Settembre 2020
«Prima gli italiani», «prima i toscani», «prima i pisani», «prima i residenti»… Le destre, si sa, agitano da sempre slogan di questo tipo, per conquistare consensi nei settori più popolari. L’obiettivo è chiaro: chi non ha una casa e vive di lavori precari dovrebbe cullarsi nell’illusione di poter godere di qualche piccolo privilegio riservato, appunto, agli «autoctoni».
Eppure, basta guardare qualche dato per rendersi conto che si tratta di una colossale mistificazione. Prendiamo ad esempio il tema della casa: si stima che in Italia solo il 3,7% degli alloggi sia adibito a edilizia sociale (tanto per fare un confronto, in Inghilterra la percentuale è del 17,6%, in Francia del 16,8%). E allora, il problema è davvero quello di «dare la precedenza agli italiani» (o ai toscani, o ai residenti etc.)? Non si tratta invece di potenziare l’edilizia pubblica, mettendo a disposizione nuovi alloggi per chi ne ha bisogno?
O ancora, pensiamo al diritto alla salute, tema drammaticamente attuale in periodo di emergenza Covid. Negli ultimi dieci anni, il finanziamento pubblico al settore sanitario ha subito tagli per oltre 37 miliardi: si sono persi oltre 70.000 posti letto negli ospedali, con 359 reparti chiusi. Anche in questo caso, il problema è quello di favorire i pazienti italiani, o quello di potenziare la sanità pubblica per tutti e tutte?
La verità è che lo slogan «prima gli italiani» è servito troppo spesso per legittimare il drastico ridimensionamento del welfare: e a farne le spese non sono stati esclusivamente gli immigrati stranieri. Con un paradosso solo apparente, le politiche «sovraniste» hanno colpito duramente tutti i settori sociali più deboli, italiani compresi. In questi anni, potremmo dire, non c’è stata alcuna «guerra tra poveri»: abbiamo assistito piuttosto a una «guerra contro i poveri».
Troppo spesso, le forze di centro-sinistra sono state subalterne a queste logiche, e la Regione Toscana non ha fatto eccezione. Nella legge sulle case popolari, approvata nel 2019, sono stati previsti ad esempio dei punteggi che «premiano» le famiglie residenti sul territorio toscano da più di dieci anni. In questo modo, però, non si sono affatto tutelati gli italiani o i toscani: norme di questo tipo finiscono per penalizzare i lavoratori precari («autoctoni» o stranieri che siano), che sono costretti a spostarsi per seguire le opportunità lavorative disponibili. Ecco un esempio di come la politica del «prima gli italiani» può diventare uno strumento di discriminazione contro le fasce più deboli.
È necessario quindi pensare a un welfare universalista e non discriminatorio: è il solo modo per tutelare davvero i gruppi sociali più vulnerabili.
Anche la sfida dell’accoglienza ai migranti va collocata in questo contesto: garantire ospitalità e percorsi di inserimento ai richiedenti asilo e ai rifugiati non significa sottrarre risorse agli autoctoni, ma costruire un welfare più ricco e inclusivo, capace di diversificare le proprie prestazioni a seconda delle esigenze. A patto, naturalmente, di non trasformare l’accoglienza in un business per affaristi senza scrupoli, e in un umiliante «parcheggio» per i migranti appena arrivati. In questo senso, la Regione dovrebbe farsi protagonista di un nuovo modello di accoglienza, diametralmente opposto a quello disegnato dai decreti Salvini, e più vicino allo spirito che aveva animato il sistema Sprar.
Allo stesso modo, va ripensato un programma di superamento dei campi rom, vera e propria segregazione su base etnica. La Toscana, pur tra mille contraddizioni, aveva avviato in passato percorsi significativi di inclusione, che oggi sono stati quasi totalmente abbandonati. È tempo di tornare a discutere di inserimento abitativo dei rom e dei sinti, oltre la logica segregante dei campi e quella repressiva degli sgomberi.
Sergio Bontempelli
Candidato al Consiglio Regionale per Toscana a Sinistra
Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni – Africa
No, l’Italia non è un paese «sempre più insicuro», come vorrebbero farci credere tanti commentatori: le statistiche dicono il contrario: i reati sono in costante calo da almeno dieci anni. È quanto ha spiegato il Capo della Polizia Franco Gabrielli, intervenendo al Festival delle Città tenutosi a Roma nei giorni scorsi (qui il video del suo intervento). Ma Gabrielli ha aggiunto una precisazione importante, destinata a scatenare accese polemiche: se è vero che i reati nel loro insieme diminuiscono, gli stranieri sembrano avere un ruolo crescente nelle dinamiche criminali. E dunque, come di consueto, il dibatito sull’insicurezza rimanda al tema dell’immigrazione.
I dati sembrerebbero in effetti inequivoci: «Nel 2016», dice Gabrielli, «su 893mila persone denunciate ed arrestate, il 29,2% erano stranieri; nel 2017 gli stranieri sono aumentati al 29,8%; nel 2018 sono arrivati al 32%».
Il Capo della Polizia è attento a misurare le parole, e cita dati difficilmente contestabili: tra le persone «denunciate e arrestate» la percentuale di stranieri è in aumento. Ma questo non giustifca affatto i titoli dei giornali: «Calo dei reati, uno su tre commesso da stranieri» (Il Messaggero), «Meno reati, ma sempre più stranieri a commetterli» (Corriere della Sera) «I dati non mentono, straniero un reato su tre» (Il Giornale).
Attenzione: Gabrielli non ha detto che un reato su tre è commesso da stranieri. Ha solo spiegato che un denunciato su tre è straniero. Sono due cose molto diverse. Sembra una sottigliezza, e invece la differenza è davvero enorme: cerchiamo di spiegarla con un esempio.
Esco di casa al mattino, e incontro un mio vecchio conoscente, che chiamerò per comodità Filippo. Il vecchio conoscente è ritiene di avere un conto in sospeso con me per questioni di lavoro, e quando mi vede passare mi aggredisce con un pugno. Tramortito, col naso sanguinante, torno a casa, e trovo che il mio appartamento è stato svaligiato (si vede che è la mia giornata sfortunata…). A questo punto devo andare dai carabinieri per sporgere due distinte denunce: la prima sarà completa di nome e cognome dell’aggressore; la seconda, quella relativa al furto in appartamento, sarà presentata «contro ignoti», perché ovviamente non ho idea di chi abbia preso la simpatica iniziativa di rubare a casa mia.
Le statistiche criminali – quelle che ci dicono che i reati sono in calo – sono costruite proprio sulle denunce, e le denunce si possono presentare contro un «autore noto» o contro «ignoti».
E proprio qui sta il punto: per motivi facilmente intuibili, la maggior parte dei «reati» registrati
nelle statistiche (cioè delle denunce presentate all’Autorità Giudiziaria) si riferisce
ad autore ignoto: ce lo dice il sito dell’Istat, nella sezione «Giustizia penale – Delitti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria». Più dell’80% dei crimini sono commessi da ignoti, e la percentuale sale molto nel caso dei reati che – con un’espressione un po’ balorda, che non ha nulla di scientifco – vengono definiti «di forte allarme sociale»: furti (più del 95%), borseggi (97%), scippi (93%), furti di auto e ciclomotori (più del 97%), solo per fare qualche esempio.
Quando Gabrielli dice che «un denunciato su tre è straniero», parla evidentemente dei reati ad autore noto. Facciamo l’esempio del furto: nel 95% dei casi vengono presentate denunce contro ignoti, e di questa quota così ampia non possiamo sapere quanti sono gli italiani e quanti i non italiani. Nel restante 5% si fa nome e cognome del ladro, e in un terzo dei casi il ladro è straniero: signifca, se la matematica non è un’opinione, che gli stranieri sono «autori» dell’1,66% dei reati complessivi. Chi dice che «un terzo dei reati è commesso da stranieri» suppone arbitrariamente che quel 5% sia un «campione rappresentativo» del restante 95%, ma non c’è alcuna prova che le cose stiano davvero così.
Tutto questo signifca che non possiamo conoscere a priori l’effetiva percentuale di stranieri sul totale dei reati commessi: è un numero che rimane oscuro, e che presumibilmente resterà tale anche in futuro.
Sappiamo con certezza però che l’immigrazione è molto cresciuta negli ultimi trent’anni, e che nello stesso periodo di tempo non si è registrato un aumento della criminalità. È un buon indizio del fatto che l’immigrazione non contribuisce all’aumento dei reati: ma attenzione, è solo un indizio, non una prova statistica.
Sergio Bontempelli
Originariamente pubblicato sul sito di Adif
A Londra si dimette un ministro per lo “scandalo Windrush”: migliaia di persone arrivate decenni fa nel Regno Unito si ritrovano classificate come “clandestine” per un cavillo burocratico
Immaginate un cittadino italiano, una persona qualunque, che una Domenica qualunque, di sera, vada a dormire tranquillo, preparandosi alla sua consueta settimana di lavoro. Immaginate che al mattino si risvegli, prenda un autobus e vada in ufficio, come tutte le mattine che Dio mette al mondo.
Immaginate ora che, arrivando in ufficio, il datore di lavoro gli chieda il permesso di soggiorno, e lo minacci di licenziamento se il permesso non salta fuori. Immaginate che, improvvisamente, tutti gli chiedano il permesso di soggiorno: il medico che lo visita, la banca dove ha un conto corrente, l’agenzia delle entrate dove va a pagare le tasse, e persino la scuola dove vanno abitualmente i figli. E immaginate che, alla fine della giornata, si senta dire che rischia l’espulsione dal paese in cui è nato e vissuto. Un incubo degno di Kafka.
È quello che sta accadendo, nel Regno Unito, proprio in questi mesi: molti britannici – il numero esatto è sconosciuto, ma si tratta probabilmente di qualche migliaio – si sono ritrovati ad essere, letteralmente, “stranieri a casa propria”: da sempre cittadini, di fatto se non di nome, si ritrovano classificati come migranti, per di più irregolari e a rischio di rimpatrio.
È uno scandalo di cui in Italia non si è parlato quasi per nulla fino a quando, pochi giorni fa, la ministra dell’Interno britannica, Amber Rudd, è stata costretta a dimettersi: solo allora i giornali del Belpaese hanno dovuto darne notizia, peraltro senza chiarire un granché. Del resto la faccenda è maledettamente complessa, e per capirci qualcosa bisogna fare un salto indietro di settant’anni.
Atto primo, scena prima. La “Windrush Generation”
Eh sì, perché questa storia comincia addirittura nel 1945. La guerra è appena finita, nel Regno Unito l’economia sta ripartendo e le fabbriche hanno un disperato bisogno di manodopera. Il nuovo governo a guida laburista, presieduto da Clement Atlee, fa quel che può: fa arrivare i profughi di guerra dalla Germania, chiede all’Italia di inviare i suoi emigranti, ma i risultati lasciano a desiderare. E senza braccia, l’economia non può ripartire.
Nel 1948 viene approvata una nuova legge sulla cittadinanza britannica, il British Nationality Act, che in pratica conferisce la piena cittadinanza a tutti i sudditi coloniali. Per la precisione, la legge istituisce il nuovo status di “Cittadino del Regno Unito e delle Colonie” (Citizen of the United Kingdom and Colonies o CUKC). Da questo momento, solo per fare un esempio, un giamaicano ha gli stessi diritti di un inglese, o quasi: può circolare liberamente in tutto il territorio dell’Impero, e può andarsene a lavorare a Londra senza chiedere né visto né permesso di soggiorno. È una svolta epocale, perché in questo periodo l’Impero britannico è immenso: si è calcolato che quasi un quarto della popolazione di tutto il mondo si sia ritrovata ad avere lo status di CUKC, e dunque ad avere un diritto di ingresso, di soggiorno e di lavoro nella madrepatria inglese.
La nuova legge sulla nazionalità è stata approvata più per ragioni diplomatiche che per motivi legati all’immigrazione: il problema è soprattutto quello di garantirsi buone relazioni con i sudditi imperiali, che stanno un po’ ovunque rivendicando l’indipendenza. Ma gli effetti, in termini di flussi migratori, si fanno sentire subito.
Il 22 Giugno 1948, al porto di Tilbury a Londra, sbarca una ex nave militare, la SS Empire Windrush, con a bordo centinaia di giamaicani: è l’evento che simbolicamente segna l’inizio delle migrazioni coloniali in Gran Bretagna. Nel giro di pochi anni arrivano nel Regno Unito decine di migliaia di immigrati provenienti dai territori dell’Impero. Questa nuova e imprevista “ondata migratoria” risolve i problemi di reclutamento di manodopera – finalmente le fabbriche si riempiono di operai – ma provoca reazioni negative nella parte più conservatrice dell’elettorato: che un giamaicano, per di più nero, abbia gli stessi diritti di un londinese “puro” fa storcere il naso a più di un benpensante.
Ancora oggi, nell’immaginario collettivo le grandi migrazioni post-coloniali sono associate all’arrivo di quella nave, l’Empire Windrush: tanto che i lavoratori immigrati di quel periodo vengono spesso indicati come la “windrush generation”.
Atto primo, scena seconda. La graduale revoca della cittadinanza agli ex sudditi
La seconda parte di questa complicata vicenda si svolge tra gli Anni Sessanta e i primi Anni Settanta. Sulla scia di una virulenta campagna xenofoba, gli uomini e le donne della “windrush generation” vengono additati come causa di tutti i mali: insicurezza, criminalità, crisi economica, disoccupazione (vi ricorda qualcosa?). Un politico conservatore, Enoch Powell, invoca nel 1968 la reintroduzione dei controlli migratori, in un discorso famoso detto “dei fiumi di sangue” (qui una breve sintesi, qui la traduzione integrale in italiano).
Per reintrodurre i controlli migratori generalizzati (cioè per obbligare i migranti a richiedere un visto, un permesso di soggiorno, e soprattutto un’autorizzazione al lavoro) è però necessario revocare la cittadinanza agli ex sudditi dell’Impero, visto che sono loro a costituire la stragrande maggioranza degli stranieri nel Regno Unito. E così, a partire dal 1962 una serie di leggi introdurranno crescenti restrizioni nelle norme sulla nazionalità. Per molti anni, nel Regno Unito, la normativa sull’immigrazione è stata anche e soprattutto una normativa sulla cittadinanza.
Con la legge del 1971 (Immigration Act 1971) i “Cittadini del Regno Unito e delle Colonie” vengono divisi in due grandi categorie: coloro che sono nati nel Regno Unito, o che al momento dell’approvazione delle nuove norme vi risiedono da almeno cinque anni, restano cittadini a pieno titolo, e continuano a godere del diritto alla libera circolazione; tutti gli altri devono richiedere un permesso speciale per poter vivere e lavorare nel territorio della madrepatria. I primi vengono chiamati “patrial”, una parola dell’inglese arcaico che significa “del, o appartenente al, proprio paese natale”; tutti gli altri sono “non-patrial”, perdono gran parte dei diritti di cittadinanza che avevano nel 1948, e sono persino soggetti ad espulsione se non hanno i documenti in regola.
Questa nuova suddivisione tra “patrial” e “non-patrial” rischia però di compromettere i diritti acquisiti di molti lavoratori stranieri che soggiornano da anni nel paese. Così, all’indomani dell’approvazione della legge, il governo vara quella che è ricordata come la prima “sanatoria” del Regno Unito: l’11 Aprile 1974, alla Camera dei Comuni, il Ministro dell’Interno Roy Jenkins spiega di non aver «disposto l’allontanamento di alcun cittadino del Commonwealth o del Pakistan che sia entrato prima del 1 Gennaio 1973 [data di effettiva entrata in vigore della legge del 1971]». Dunque, chi dimostra di essere entrato nel territorio prima di quella fatidica data non è considerato irregolare, e anzi ottiene un Indefinite Leave to Remain, ossia un permesso di soggiorno a tempo indeterminato.
Atto primo, scena terza. Il “pasticcio” del mancato censimento
E qui accade il primo grande pasticcio, che è un po’ all’origine delle polemiche di questi giorni. Dopo la prima “sanatoria” del 1974, il Governo non tiene alcun “censimento” esatto delle persone regolarizzate. Molti, tra l’altro, sono bambini che non hanno un proprio passaporto, ma sono inseriti in quello dei genitori.
Così, quando il passaporto di un adulto scade e si procede al rinnovo, l’amministrazione non ha modo di verificare se il possessore ha effettivamente un diritto di soggiorno (all’epoca il diritto di soggiorno è inserito con una menzione nel passaporto). E la stessa cosa accade per i minori che arrivano alla maggiore età: chiedono il loro passaporto, ma non hanno modo di documentare il loro diritto a restare nel territorio.
La cosa però passa sotto silenzio, perché quei lavoratori stranieri abitano in Gran Bretagna ormai da anni, e nessuno contesta loro il diritto di rimanere.
Atto secondo, scena prima. La legge del 2014, un “pacchetto sicurezza” in salsa britannica
La vicenda esplode nel 2014, quando viene approvata una nuova legge particolarmente restrittiva sull’immigrazione, l’Immigration Act 2014. Come spiega un avvocato inglese nel suo documentatissimo blog, «la Parte Terza della legge si intitola “Accesso ai Servizi” e disciplina l’accesso dei migranti a servizi importanti come l’affitto di un alloggio. Con le nuove norme, i proprietari di casa sono soggetti a sanzioni (multe fino a 3.000 sterline) se affittano locali a migranti che non soggiornano legalmente nel Regno Unito; in virtù di una successiva modifica alla legge del 2014, essi possono essere puniti con la detenzione fino a 5 anni».
Con disposizioni che ricordano quelle varate in Italia nel 2009 con il “Pacchetto Sicurezza”, tutti coloro che prestano servizi ai migranti – i proprietari che affittano alloggi, gli imprenditori che assumono, le banche che aprono conti correnti, e così via – sono obbligati a verificare la regolarità del soggiorno dei loro utenti o clienti stranieri.
La norma è coerente con le intenzioni dichiarate da Theresa May nel 2012, espresse con una formula rimasta famosa: «creare un ambiente ostile all’immigrazione irregolare, in modo da scoraggiarla». Ossia rendere la vita impossibile ai migranti privi di permesso di soggiorno, in modo da costringerli ad andarsene. Una strategia che, tra l’altro, non ha mai funzionato (e l’esperienza italiana lo dimostra con dovizia di prove…).
Atto secondo, scena seconda. Il dramma degli “windrush”
Così, tutti gli stranieri si sono visti richiedere il permesso di soggiorno dai loro datori di lavoro, dalle loro banche o dai loro proprietari di casa. E anche gli immigrati della windrush generation, o i loro figli, hanno dovuto esibire i documenti che attestavano la regolarità della loro presenza: molti, quindi, hanno dovuto andare a caccia di “prove” per dimostrare la loro presenza prima del fatidico anno 1973.
Il problema è che queste prove sono nel frattempo sparite. Tra l’altro, come ha rivelato di recente il Guardian, l’amministrazione ha pensato bene di distruggere, nel 2010, anche le carte di imbarco della fatidica nave Empire Windrush: documenti che potevano essere utilizzati appunto come prova della presenza sul territorio britannico.
L’ultimo atto del dramma e le polemiche di questi giorni
Il resto è cronaca di queste ultime settimane. Nei primi mesi dell’anno, il Guardian pubblica numerose testimonianze, a metà tra il tragico e il grottesco: si va da Paulette Wilson, 61 anni di cui 50 trascorsi in Gran Bretagna, ex cuoca alla “buvette” della Camera dei Comuni, diventata “clandestina” e addirittura trattenuta in un centro di detenzione, fino a Renford McIntyre, che dopo una vita trascorsa a lavorare nel paese si è ritrovato irregolare e senza fissa dimora per aver perso l’alloggio…
Il Governo inglese, messo alle strette sia dall’opinione pubblica interna che dai capi di governo dei paesi ex-coloniali caraibici, ha inanellato un passo falso dietro l’altro, e alla fine la ministra dell’Interno britannica, Amber Rudd, è stata costretta alle dimissioni.
Resta la tragica realtà, che dovrebbe far riflettere anche qui in Italia. La “guerra all’immigrazione clandestina” rischia di colpire anche chi è “immigrato” per modo di dire: perché è soltanto figlio di immigrati, o perché è arrivato trenta, quaranta, cinquant’anni fa. E rischia di colpire anche tutti i cittadini e lo stato di diritto.
Sergio Bontempelli
Per saperne di più:
Originariamente pubblicato sul blog “La Bottega del Barbieri”, 14 Maggio 2016
Ho ritrovato fra i miei appunti la traduzione di un famoso discorso di Enoch Powell, politico conservatore inglese, promotore della svolta restrittiva in materia di immigrazione dei primi anni ’70.
Il discorso risale al 1969, ma sembra scritto oggi da un amministratore toscano del Pd o anche da un Veltroni qualsiasi. Gli elementi ci sono tutti: la retorica delle regole, il “non sono razzista ma”, l’appello al senso comune, il riferimento al cosiddetto “vissuto” dei cittadini (l’anziana che non può più vivere nel suo quartiere perché pieno di “negri”, l’onesto lavoratore che si sente “straniero a casa sua”…). Usa persino il termine “divisivo” (divisive in inglese), tipico del lessico veltroniano. Ecco da chi hanno copiato i nostri amministratori luminosi (che tali sono se qualcun altro paga la luce…).
Sotto trovate anche il link all’originale inglese, così se volete potete controllare la traduzione (e magari farla meglio di quanto possa fare io).
Il discorso sui fiumi di sangue. Enoch Powell, 20 Aprile 1968
Traduzione di Sergio Bontempelli
Lo scopo più alto dell’arte di governare è quello di prevenire i mali evitabili. Nel cercare di farlo, si incontrano ostacoli profondamente radicati nella natura umana.
Uno di questi ostacoli è che, per loro stessa natura, i problemi non sono evidenti fino a quando non si verificano: e in ogni fase del loro manifestarsi c’è spazio per dubbi e per controversie, reali o immaginarie che siano. Per lo stesso motivo, i problemi futuri attirano poca attenzione rispetto alle difficoltà attuali, ben più evidenti e pressanti: di qui la tentazione costante della politica, di dedicare attenzioni esclusive al presente dimenticando il futuro.
Spesso, le persone fanno confusione, e chi solleva un problema è considerato causa del problema stesso, o comunque fomentatore di guai: “Se nessuno ne avesse parlato”, si dice spesso, “non sarebbe successo”. Forse questo atteggiamento deriva dalle credenze primitive, secondo cui la parola e la cosa, il nome e l’oggetto, sono identici.
Per un uomo politico, la discussione sui problemi futuri, ancorché evitabili, è dunque il lavoro più impopolare e allo stesso tempo il più necessario. Coloro che consapevolmente si sottraggono a questo lavoro meritano, e non di rado ricevono, le maledizioni di quelli che verranno dopo.
Una o due settimane fa, mi è capitato di discutere con un elettore, un normale lavoratore di mezza età impiegato in una delle nostre industrie nazionalizzate.
Dopo qualche frase di circostanza sul tempo, improvvisamente mi ha detto: “Se avessi i soldi per andarmene, non rimarrei in questo Paese”. Ho risposto in modo deciso, spiegando che anche questo governo non sarebbe durato per sempre; ma lui non ci ha fatto caso, e ha continuato: “Ho tre figli, tutti sono andati a scuola e due di loro si sono sposati. Non sarò soddisfatto finché non li vedrò andare all’estero. In questo Paese, nel giro di quindici o venti anni, l’uomo nero diventerà il padrone dell’uomo bianco”.
Sento già i cori della polemica: come si può dire una cosa così orribile? E perché riferire questo scambio di battute, così gravido di risentimenti e foriero di problemi?
La risposta è che non ho il diritto di tenere segreta questa conversazione. Perché qui siamo di fronte a un lavoratore inglese, a una persona normale e beneducata, che in pieno giorno dice a me, parlamentare eletto dai cittadini, che il suo Paese non sarà vivibile per i suoi figli.
Semplicemente non ho il diritto di alzare le spalle e pensare ad altro. Ciò che quest’uomo mi sta dicendo, lo dicono e lo pensano migliaia, centinaia di migliaia di persone: non tutta la Gran Bretagna, forse, ma molti di coloro che vivono nelle zone che stanno subendo una trasformazione epocale, senza precedenti in un millennio di storia inglese.
Nel giro di quindici o venti anni, se le attuali tendenze rimarranno costanti, ci saranno in questo Paese tre milioni e mezzo fra immigrati del Commonwealth e loro discendenti. Non sono io a dirlo: sono i dati ufficiali, presentati in Parlamento dal portavoce dell’Ufficio Generale del Registro.
Non ci sono previsioni ufficiali per l’anno 2000, ma la cifra potrebbe aggirarsi tra i cinque e i sette milioni, circa un decimo di tutta la popolazione, e più o meno il numero di abitanti di tutta la città di Londra. Ovviamente gli immigrati non saranno distribuiti in modo uniforme da Margate a Aberystwyth e da Penzance a Aberdeen.
Intere aree, città e parti di città in tutta l’Inghilterra saranno occupati da immigrati e discendenti di immigrati.
Col passare del tempo, la percentuale dei discendenti di immigrati, cioè di coloro che sono nati in Inghilterra, che dunque sono arrivati qui facendo esattamente il nostro stesso percorso, aumenterà rapidamente. Già nel 1985 i nati in Gran Bretagna saranno la maggioranza. È questo fatto che crea l’estrema urgenza di agire subito, e di agire in un modo che è complicato per i politici, perché le difficoltà nascono dal presente, ma i mali da prevenire o ridurre al minimo si verificheranno diverse legislature più avanti.
Di fronte a una simile prospettiva, la prima domanda naturale e razionale da porre è: “Come possiamo ridurre queste cifre?”. Si tratta di un fenomeno che non possiamo evitare del tutto, ma che possiamo limitare, tenendo presente che i numeri qui sono essenziali: quando in un Paese si introduce un elemento straniero, profondamente diverso dalla popolazione autoctona, l’impatto è assai diverso a seconda che tale elemento rappresenti l’1 o il 10 per cento.
E di fronte a una domanda così semplice e razionale, le risposte sono altrettanto semplici e razionali: dobbiamo fermare, o limitare drasticamente, ogni ulteriore afflusso, e al contempo promuovere un ampio deflusso di immigrati. Entrambe le risposte sono parte della politica ufficiale del Partito conservatore.
È opinione comune che ogni settimana arrivino 20 o 30 bambini immigrati da oltreoceano a Wolverhampton e questo significa che avremo 15 o 20 ulteriori famiglie nell’arco di un decennio o due.
Se gli dei ti vogliono distruggere, prima ti fanno impazzire. La nostra nazione deve essere pazza, letteralmente pazza, se permette l’afflusso annuale di circa 50.000 familiari, che rappresentano la materia prima per la futura crescita della popolazione discendente da immigrati. È come guardare una nazione attivamente impegnata nell’accumulare la propria pira funebre. Siamo così folli che consentiamo alle persone non sposate di emigrare, allo scopo di fondare una famiglia con coniugi e fidanzati che non hanno mai visto.
Non c’è motivo di ritenere che il flusso di familiari sia destinato a ridursi automaticamente. Al contrario, anche con l’attuale tasso di ammissione di soli 5.000 migranti l’anno, c’è materiale sufficiente per 25.000 successivi ingressi di familiari, senza considerare l’enorme serbatoio di relazioni esistenti in questo Paese e non faccio alcun distinguo con chi entra in modo fraudolento. In queste circostanze l’unica cosa da fare è quella di ridurre a dimensioni trascurabili l’afflusso di nuovi immigrati che arrivano per stabilirsi qui, e prendere i necessari provvedimenti legislativi e amministrativi, senza indugio.
Sottolineo “che arrivano per stabilirsi qui”. Il discorso non riguarda l’ingresso di quei cittadini del Commonwealth, e di quegli stranieri, che arrivano per studiare o per migliorare le loro qualifiche, come (per esempio) i medici del Commonwealth che, a vantaggio anche dei loro Paesi, hanno permesso al nostro servizio ospedaliero di essere ampliato più velocemente di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Essi non sono, e non sono mai stati, degli immigrati.
Vengo al tema della ri-emigrazione. Se tutta l’immigrazione si interrompesse domani, il tasso di crescita degli immigrati e dei loro discendenti sarebbe sostanzialmente ridotto, ma la dimensione potenziale dell’elemento straniero nella popolazione lascerebbe inalterato il pericolo. È necessario dunque allontanare una parte consistente delle persone entrate in questo Paese negli ultimi dieci anni.
Di qui l’urgenza di dare applicazione al secondo pilastro della politica del Partito Conservatore: l’incentivo alla ri-emigrazione.
Non è possibile sapere quante persone, se stimolate da generosi incentivi, sceglierebbero di tornare alle loro terre di origine, o di andare in altri Paesi ansiosi di usufruire della manodopera e delle competenze dei nostri immigrati.
Non è possibile saperlo, perché una simile politica non è stata ancora sperimentata. Posso solo dire che, anche oggi, gli immigrati che conosco mi vengono a trovare di tanto in tanto, e mi chiedono un aiuto per ritornare a casa. Se una politica di ritorno venisse adottata e messa in pratica, con la determinazione imposta dalla gravità della situazione, il deflusso di migranti potrebbe cambiare apprezzabilmente le cose.
Il terzo pilastro della politica del Partito Conservatore è che tutti coloro che si trovano in questo Paese in qualità di cittadini devono essere uguali di fronte alla legge, e che non deve esservi alcuna discriminazione o differenza fatta tra loro da un’autorità pubblica.
Come ha ben detto il signor Heath, non dobbiamo avere cittadini “di serie A e di serie B”. Questo non significa che l’immigrato e il suo discendente debbano essere elevati a una classe privilegiata o speciale, né che al cittadino debba essere negato il diritto di discriminare, nella gestione dei suoi affari, tra un concittadino e un altro, e nemmeno che si debba imporre un comportamento piuttosto che un altro a chicchessia.
È una mistificazione grossolana della realtà quella di chi chiede a gran voce una legislazione “contro la discriminazione” come spesso viene chiamata: essa viene invocata da molti scrittori e commentatori, nonché da quei giornali che anno dopo anno, nel decennio 1930, hanno cercato di accecare questo Paese di fronte al pericolo, o da arcivescovi che vivono chiusi nei loro palazzi, con le coperte delicatamente tirate fin sopra la testa. Questa gente ha fatto esattamente e diametralmente il contrario di quel che si doveva fare.
La discriminazione e la deprivazione, il senso di allarme e il risentimento, albergano non tra gli immigrati, ma tra coloro che hanno visto e vedono arrivare un numero crescente di immigrati. Per questo, adottare oggi una legislazione del genere significa gettare un fiammifero sulla polvere da sparo. La cosa più gentile che si può dire, di coloro che sostengono simili proposte, è che non sanno quello che fanno.
Non c’è nulla di più fuorviante del paragone tra l’immigrato del Commonwealth in Gran Bretagna e il negro americano. La popolazione negra degli Stati Uniti, che esisteva prima che gli Stati Uniti diventassero una nazione, ha iniziato ad esistere, letteralmente, come una popolazione di schiavi: è stata successivamente affrancata, ha ottenuto i diritti di cittadinanza, all’esercizio dei quali è arrivata solo gradualmente e in forma ancora incompleta. L’immigrato del Commonwealth è venuto in Gran Bretagna come cittadino a pieno titolo, in un Paese che non concepiva alcuna discriminazione tra un cittadino e un altro, e ha avuto subito i diritti di cittadinanza, dal voto all’assistenza sanitaria gratuita.
I problemi cui vanno incontro i nostri immigrati non derivano dalla legge, né dalle politiche pubbliche, e nemmeno dall’azione amministrativa, ma da quelle circostanze personali e da quegli eventi in forza dei quali, oggi come sempre, la fortuna e l’esperienza di un uomo sono differenti da quelle di un altro uomo.
Ma mentre, per l’immigrato, l’ingresso in questo Paese ha significato ammissione a privilegi e a opportunità avidamente ricercate, l’impatto sulla popolazione esistente è stato assai diverso. Per ragioni che non potevano comprendere, e in virtù di un fatto compiuto sul quale non sono stati mai consultati, i cittadini si sono trovati a essere stranieri nel loro stesso Paese.
Hanno scoperto che le loro mogli non riescono ad avere un letto in ospedale al momento del parto, che per i loro figli non ci sono posti nelle scuole, che le loro case e e i loro quartieri sono cambiati fino a diventare irriconoscibili, che i piani e le prospettive per il loro futuro non si sono realizzati; al lavoro, hanno scoperto che i datori di lavoro esitano ad applicare anche all’immigrato gli standard di disciplina e di competenza richiesti al lavoratore nativo; si sentono dire sempre più spesso che sono loro gli indesiderabili. Vedono che il Parlamento sta per sancire per legge un privilegio a senso unico; e quella legge che non può e non vuole proteggerli, né ascoltare le loro rimostranze, sta per essere approvata, e darà allo straniero e al provocatore il potere di gogna sulle loro azioni private.
Nelle centinaia e centinaia di lettere che ho ricevuto quando ho parlato l’ultima volta di queste cose, due o tre mesi fa, c’era un elemento sorprendente e in gran parte nuovo, che trovo inquietante.
Tutti i parlamentari sono da sempre destinatari di lettere inviate dal classico corrispondente anonimo; ma ciò che mi ha sorpreso e allarmato è l’alta percentuale di persone comuni, di buon senso, beneducate, che hanno scritto lettere cortesi e ragionevoli, ma che hanno scelto di omettere il loro indirizzo perché era pericoloso scrivere a un parlamentare esprimendo il punto di vista che avevo espresso io: rischiavano rappresaglie se qualcuno lo avesse saputo. La sensazione di essere una minoranza perseguitata, che sta crescendo tra la gente comune, è difficile da immaginare per chi non ha esperienza diretta di questi fenomeni.
Faccio parlare una delle centinaia di persone che mi hanno scritto: “Otto anni fa, in una strada rispettabile di Wolverhampton, una casa è stata venduta a un negro. Ora solo una persona bianca (un’anziana signora in pensione) vive in quella zona”. Questa è la sua storia. Ha perso il marito ed entrambi i figli in guerra. Così ha trasformato la sua casa di sette stanze, la sua unica fonte di ricchezza, in una pensione. Ha lavorato tanto e bene, ha pagato il mutuo e ha cominciato a mettere qualcosa da parte per la vecchiaia. Poi sono arrivati gli immigrati. Li ha visti, con sgomento, prendere una casa dopo l’altra. La strada, un tempo così tranquilla, è diventata un luogo di rumore e confusione. Purtroppo, i suoi inquilini bianchi si sono tutti trasferiti. Il giorno dopo la partenza dell’ultima famiglia di bianchi, la signora venne svegliata alle 7 del mattino da due negri che volevano usare il suo telefono per contattare il datore di lavoro. Lei rifiutò, come avrebbe fatto chiunque con degli estranei a quell’ora: venne insultata, ed ebbe paura di subire violenza, nonostante avesse la catena alla porta. Alcune famiglie di immigrati hanno cercato di affittare delle camere in casa sua, ma lei ha sempre rifiutato. I suoi modesti risparmi si sono dissolti, e dopo aver pagato le tasse guadagna meno di 2 sterline a settimana. Quando è andata a chiedere una riduzione delle tasse ha incontrato una giovane ragazza: questa, sentendo che la donna aveva una casa di sette stanze, le ha suggerito di affittare o vendere una parte dell’alloggio. Quando la signora ha risposto che le uniche persone che potevano acquistarlo o affittarlo erano negre, la ragazza ha risposto: “Il pregiudizio razziale non la porterà da nessuna parte”. Il telefono è la sua ancora di salvezza. La sua famiglia paga le bollette, e la aiuta per quanto possibile. Gli immigrati le hanno offerto di comprare la sua casa ad un prezzo che il futuro proprietario avrebbe potuto recuperare dai suoi inquilini nel giro di poche settimane, al massimo di qualche mese. Lei ha sempre paura di uscire. Le finestre sono rotte. Trova spesso escrementi depositati nella cassetta delle lettere. Quando va a fare la spesa, viene seguita regolarmente da gruppi di bambini negretti, belli e sorridenti. Non parlano inglese, ma una parola la conoscono. “Razzista” cantano. Questa donna è convinta che finirà in prigione quando il Race Relations Bill sarà approvato. Sbaglia? Comincio ad avere qualche dubbio.
L’altra illusione pericolosa, di cui soffrono coloro che non vogliono o non sanno vedere la realtà dei fatti, si riassume nella parola “integrazione”. Essere integrati in una popolazione significa diventare a tutti gli effetti indistinguibili dai suoi membri.
Ora, in ogni epoca, quando ci sono marcate differenze fisiche, in particolare di colore, l’integrazione è difficile, ma nel medio periodo non impossibile. Molti immigrati del Commonwealth sono venuti a vivere qui negli ultimi quindici anni, e tra loro vi sono migliaia di persone il cui desiderio è di essere integrate, e i cui sforzi vanno in questa direzione.
Ma immaginare che un obiettivo del genere entri nella testa di una grande e crescente maggioranza di immigrati e di loro discendenti, è un’idea ridicola e pericolosa.
Siamo alla vigilia di un grande cambiamento. Finora è stata la forza delle cose a rendere l’idea stessa di integrazione inaccessibile alla maggior parte della popolazione immigrata: perché questa non ha mai concepito una cosa del genere, e perché il numero di immigrati e la loro concentrazione hanno fatto sì che le pressioni verso l’integrazione non funzionassero.
Ora stiamo assistendo alla crescita di forze che agiscono contro l’integrazione, che hanno interesse a conservare e a irrigidire le differenze razziali e religiose, al fine di esercitare un potere, anzitutto sugli altri immigrati, poi sul resto della popolazione. La nuvola non più grande di una mano, che può rapidamente oscurare il cielo, è stata ben visibile di recente a Wolverhampton, ed è capace di diffondersi in fretta. Le parole che sto per usare, testualmente come apparivano sulla stampa locale il 17 febbraio, non sono mie, ma di un parlamentare laburista che è anche un ministro del governo attuale: “La campagna delle comunità sikh, finalizzata a mantenere abitudini inappropriate in Gran Bretagna, è assai deplorevole. Lavorando in Gran Bretagna, in particolare nei servizi pubblici, queste persone dovrebbero accettare i termini e le condizioni del loro impiego. Rivendicare speciali diritti (o dovrei dire riti?) porta ad una frammentazione pericolosa all’interno della società. Questo comunitarismo è un cancro; e deve essere condannato, da qualunque colore provenga”.
Massima stima per John Stonehouse per aver percepito il pericolo, e per aver avuto il coraggio di pronunciare queste parole.
Per questi elementi pericolosi e divisivi, il Race Relations Bill è il brodo di coltura di cui hanno bisogno per prosperare. Ecco il modo per mostrare che le comunità di immigrati possono organizzarsi, possono agire contro i loro stessi concittadini, possono intimidire e dominare il resto della popolazione con quelle armi legali che gli ignoranti e i male informati hanno fornito loro.
Guardando al futuro, sono pieno di inquietudini; come l’antico romano, mi sembra di vedere “il Tevere schiumare di sangue”.
Quel fenomeno tragico e ingovernabile, che guardiamo con orrore al di là dell’Atlantico, sta arrivando da noi, per nostra volontà e per nostra negligenza. Anzi, è già arrivato. In termini numerici, avrà proporzioni americane molto prima della fine del secolo.
Solo un’azione risoluta e urgente può evitarlo, anche ora. Se ci sarà la volontà politica di chiedere ed ottenere questa azione, non lo so.
Tutto quel che so è che vedere, e non parlare, sarebbe il peggior tradimento.
Fonte: John Enoch Powell, speech in Birmingham, meeting of the Conservative Political Centre, 20 Aprile 1968, pubblicato come John Enoch Powell, Immigration, in John Wood (a cura di), J. Enoch Powell Freedom and Reality, Elliot Right Way Books, Kingswoo 1969, pagg. 213-219, ripubblicato online come Enoch Powell’s “Rivers of Blood” speech, in «The Telegraph», edizione web, 6 Novembre 2007.
“Viaggio nella crisi” è la trasmissione di approfondimento condotta da Alessandro Turini e Francesco Ippolito. Va in onda su 50 Canale, emittente televisiva di Pisa e provincia. Il 14 Marzo 2013 la puntata era dedicata al tema dell’immigrazione. Ospiti in studio: Sergio Bontempelli dell’Associazione Africa Insieme; Maria Paola Ciccone assessore alle politiche sociali del Comune di Pisa; Filippo Bedini dirigente PdL Pisa e consigliere comunale; Leonardo Carloppi dirigente Futuro e Libertà Pisa.
Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli
In seguito all’omicidio di un ragazzo di colore, si è scatenato un battage mediatico senza capo nè coda: una vera e propria cortina fumogena di dichiarazioni e polemiche che, invece di far luce sull’episodio, hanno finito per occultarlo del tutto. Ecco una piccola cronaca di una giornata tutta da riscrivere.
In Italia, se un immigrato si rende colpevole di omicidio, tutto è chiaro: si scatenano i giornali e le televisioni, si grida all’emergenza immigrazione, si invocano espulsioni e rimpatri, ci si lamenta delle frontiere spalancate, si chiede l’intervento di chiunque, dalle forze armate alla NATO. Tutto torna, tutto è facile da raccontare, da capire, da scrivere. Ma quando avviene il contrario, quando è un italiano ad uccidere un immigrato (o presunto tale), l’informazione e la politica vanno in tilt: e così è successo ieri.
I fatti, nella loro brutalità, sarebbero semplici. Siamo a Milano, zona Porta Romana, in un bar che si chiama Shining [!!]. Ci sono tre ragazzi molto giovani, tutti di colore: uno è straniero ruandese, gli altri due sono cittadini italiani. I ragazzi escono dal bar in fretta, e i proprietari pensano di essere stati derubati di un pacco di biscotti. I gestori del locale, furiosi, rincorrono i ragazzi, li raggiungono e si accaniscono contro uno di loro, Abdul Salam Guibre, cittadino italiano originario del Burkina Faso: lo colpiscono con una spranga e lo uccidono, urlandogli «ladro, negro di merda», «sporco negro, ti ammazziamo».
Questo è quello che è successo: ma ai giornali e al mondo della politica i semplici fatti non bastano. Soprattutto quando smentiscono lo stereotipo del «negro» cattivo e del «bianco» buono. E allora bisogna ricamarci sopra, gironzolarci un po’ intorno, sollevare cortine fumogene per confondere le acque.
I giornali si danno da fare. A metà mattinata esce un lancio di agenzia – ripreso dai principali siti di informazione, dal Corriere a Repubblica – che comincia il resoconto dei fatti in questo modo: «Abdul era con altri due amici di colore, Samir R., 19 anni di Reggio Calabria, e John K., 21enne del Ruanda con permesso di soggiorno scaduto». Non si capisce bene quale rilevanza abbia la data di scadenza del documento, in una cronaca che parla di omicidio. La cosa puzza di insinuazione di basso livello: ma per fortuna passa inosservata, sommersa com’è dal fuoco di artificio delle dichiarazioni dei politici.
Questi ultimi si azzuffano accusandosi a vicenda della responsabilità morale del delitto. Veltroni se la prende con la Lega e con il clima di odio contro il diverso agitato dai padani: e lo dice lui, che il 31 Ottobre scorso – all’indomani dello stupro di Giovanna Reggiani – aveva luminosamente pontificato sull’«unica matrice rumena» delle violenze sessuali.
Il Presidente PD della Provincia di Milano, forse preoccupato di tanta apertura, corregge il tiro e commenta l’omicidio invitando a «non sottovalutare i dati del Ministero degli Interni, secondo cui la maggior parte dei reati sono commessi da immigrati clandestini». Cosa c’entrino gli immigrati clandestini con un delitto commesso da un italiano contro un altro italiano lo sa solo lui. Poi, però, anche Penati se la prende con il nuovo Governo: «quando tutto il problema sicurezza si riconduce solo ai rom», spiega, «passa il messaggio che il problema è quello del contrasto con chi è di un’altra nazione o di un’altra cultura. Ma non è colpendo il diverso che si conquista sicurezza». Peccato che proprio Penati, su La Repubblica del 14 Maggio scorso, avesse proposto di «azzerare i campi nomadi nel milanese», schierandosi apertamente a favore del decreto sicurezza varato da Berlusconi.
Intanto la Procura annuncia di non aver contestato agli assassini l’aggravante di odio razziale. A quanto pare, i due gestori del locale avrebbero agito «solo» per i biscotti, non per xenofobia. Il Governo coglie l’occasione per levarsi d’impiccio, e Berlusconi dichiara: «ho parlato con i responsabili del Ministero dell’Interno, e mi hanno espresso il loro convincimento che non c’entri niente il razzismo, il colore della pelle». In realtà, il razzismo non è stato il movente dell’aggressione: ma il ragazzo è stato ucciso al grido di «sporco negro», che a casa mia è una frase razzista.
La Lega Nord, offesa per essere stata chiamata in causa quasi come mandante morale del delitto, si risente e rovescia l’accusa sull’avversario: i veri razzisti sono quelli della sinistra, tuona Paolo Grimoldi, coordinatore dei Giovani Padani. Che spiega: «La sinistra dovrebbe interrogarsi sul perché si verificano casi di razzismo. Allora capirebbe che non porre un freno all’immigrazione non ha fatto altro che aumentare i rischi». Insomma, per arginare il razzismo bisogna allontanare gli immigrati: che è un po’ un modo gentile per dire «non siamo noi i razzisti, sono loro che son negri»…
Con il passare delle ore, la vicenda specifica – e tragica – del delitto è trascolorata in una polemica tanto veemente quanto priva di senso. Ai giornali e agli uomini politici piace molto trarre conclusioni generali da singoli fatti di cronaca: così, se l’omicidio di Giovanna Reggiani era colpa dei rumeni (di tutti i rumeni), e se le accuse – tutte da dimostrare – di una signora a Ponticelli insegnavano che gli zingari rubano i bambini, oggi si può disinvoltamente dire che l’uccisione di un ragazzo di colore fuori da un bar è tutta colpa della Lega che è razzista, o della sinistra che fa entrare gli immigrati.
Le generalizzazioni richiedono cautela e un qualche rigore metodologico: sennò non aiutano a capire, e sollevano solo nubi di polvere. Il fatto di Milano ha una propria dinamica, che andrebbe analizzata nella sua specificità e singolarità. Poi, certo, è legittimo e utile individuare nessi, legami, contesti: ma questi non chiamano in causa una singola forza politica, un unico responsabile o un solo mandante morale.
In Italia si è assistito ad una escalation progressiva di criminalizzazione di immigrati, Rom, venditori ambulanti «abusivi», «clandestini» e quant’altro: e queste figure sono state additate – dal sistema politico e dalla stampa, con pochissime eccezioni – come bersagli fragili e inermi, su cui scaricare la rabbia collettiva. Gli assassini di Milano avevano i loro motivi per fare quello che hanno fatto: ma, forse, hanno sentito – anche – di poter esercitare liberamente violenza su un nemico «facile», privo di protezione. Quante volte giornali e televisioni hanno di fatto assolto commercianti che uccidevano ladri in fuga dai loro negozi? Quante volte la furia della sicurezza ha legittimato reazioni sproporzionate contro Rom o immigrati, magari colpevoli di piccoli reati?
Qui si potrebbe – con la dovuta cautela, e avendo sempre cura di guardare al fatto specifico, alla sua irriducibilità – tentare qualche generalizzazione. E non per prendersela con la Lega, ma con un sistema dell’informazione e della politica avvelenato nel suo complesso.
Sergio Bontempelli
15 Settembre 2008
Dossier originariamente pubblicato a puntate sul blog personale di Sergio Bontempelli
Si parla spesso di centri di permanenza temporanea, o CPT, ma pochi sanno veramente cosa sono. Provo dunque a spiegarlo ripercorrendone la storia. Mi auguro che questo articolo possa rappresentare una sorta di “guida” per capirci qualcosa, o per approfondire ulteriormente. L’articolo è un po’ lungo – si tratta di un piccolo “dossier” – e per questo lo divido in tre parti.
Che cosa sono esattamente i centri di permanenza temporanea, conosciuti anche con la sigla “CPT”? Per capirlo è bene anzitutto chiarire che cosa non sono. I CPT non vanno confusi con i centri di accoglienza: mentre questi ultimi servono – lo dice la parola – ad accogliere i migranti, a dar loro un tetto dove dormire, i CPT sono stati costruiti per trattenere gli stranieri in attesa di espulsione. Perché bisogna trattenere le persone in attesa di espulsione? Per rispondere a questa domanda, occorre ricostruire brevemente la genesi storica dei CPT: capire, cioè, quando sono nati, chi li ha inventati e perché.
Le politiche migratorie italiane prima dei CPT
Le radici lontane dei CPT si trovano nella legge Martelli del 1990. Con questa norma le espulsioni diventano uno strumento ordinario di contrasto dell’immigrazione cosiddetta clandestina. In precedenza esisteva il “foglio di via obbligatorio”, con il quale il Prefetto ordinava allo straniero di allontanarsi dal territorio nazionale. Trattandosi di un semplice ordine scritto, tuttavia, non c’era modo di costringere la persona ad andarsene: e, infatti, alla fine degli anni ’80 alcune ricerche segnalavano che il 90% dei destinatari rimanevano in Italia [cfr. per es. L. Pepino e P. L. Zanchetta, L’Italia degli stranieri: il controllo amministrativo e penale, in «Questione Giustizia», 1989, pag. 663]. Prima della legge Martelli, esisteva anche l’espulsione, con la quale la polizia era autorizzata ad accompagnare fisicamente (e coattivamente) lo straniero alla frontiera: ma la procedura era complicata, perchè a firmare il provvedimento doveva essere direttamente il Ministro degli Interni. La legge Martelli interviene proprio su questo punto, affida ai Prefetti il compito di firmare le espulsioni, e dunque le rende più facilmente eseguibili. In compenso, la nuova procedura non prevede l’immediato accompagnamento alla frontiera: la prima espulsione viene eseguita con una «intimazione» – cioè con un ordine scritto, simile al vecchio “foglio di via” -, e solo se il migrante viene trovato una seconda volta in territorio nazionale si può procedere all’accompagnamento. Nasce così una politica migratoria fondata sull’allontanamento degli irregolari: e di qui nascono i problemi.
Come (non) funziona un’espulsione
Contrariamente a quanto si pensa comunemente, espellere uno straniero non è una faccenda semplice. Ci sono, anzitutto, questioni di carattere normativo: l’accompagnamento alla frontiera è una misura limitativa della libertà personale, e come tale pone problemi di armonizzazione con lo spirito e la lettera della Costituzione. Vi sono poi difficoltà economiche: rimpatriare i clandestini ha costi non indifferenti. Infine – e vengo alla questione dei CPT – una espulsione comporta notevoli difficoltà relative alla riammissione dei migranti nei loro paesi di origine. Spesso, infatti, gli stranieri irregolari sono privi di passaporto e di documenti di identità. Così, quando vengono consegnati alle autorità dei loro paesi, accade che le polizie straniere si rifiutino di accoglierli: senza documenti, infatti, non si può dire con certezza se il migrante è davvero cittadino del paese nel quale viene riaccompagnato. Detto in soldoni, quando la polizia italiana accompagna alla frontiera un migrante, poniamo, tunisino, la polizia tunisina finge di non conoscerlo, magari sostiene che è libico o forse egiziano o addirittura marocchino, e comunque non se lo riprende. Un bel guaio…
Perchè la polizia tunisina (o ucraina o senegalese ecc.) non riammette i propri migranti? La ragione l’hanno spiegata Ferruccio Pastore e Giuseppe Sciortino: «la riammissione non è un problema tecnico quanto piuttosto la cartina di tornasole di una divergenza d’interessi tra stati d’emigrazione e stati d’immigrazione: se per questi ultimi la possibilità di allontanare […] gli stranieri [irregolari] costituisce un tassello fondamentale delle […] politiche di contrasto, per i primi, invece, […] facilitare il rimpatrio coattivo dei propri cittadini è un atto impopolare […] che produce […] conflittualità politica […] e tensioni a livello sociale» [Ferruccio Pastore e Giuseppe Sciortino, Tutori lontani.Il ruolo degli Stati di origine nel processo di integrazione degli immigrati, CESPI, Roma 2001, pag. 17].
Questo ragionamento fa capire quanto sia miope la politica italiana (ed europea) sull’immigrazione. I flussi migratori sono un fenomeno complesso, transnazionale, che coinvolge attori sociali di diversi paesi. Mentre, al contrario, le espulsioni sono una risposta unilaterale del solo paese di destinazione (nel nostro caso, dell’Italia): una risposta semplice, troppo semplice e persino rozza, ad un fenomeno complesso, multidimensionale e globale. E una risposta semplice e unilaterale a un fenomeno complesso e multilaterale è inevitabilmente destinata al fallimento. E, infatti, nel periodo di vigenza della legge Martelli le autorità italiane riescono ad eseguire poco più del 10% dei decreti di espulsione [cfr. M. Barbagli, A. Colombo, G. Sciortino (a cura di), I sommersi e i sanati. Le regolarizzazioni degli immigrati in Italia, Il Mulino, Bologna 2004, pag. 203].
L’invenzione dei CPT (1995-1998 )
Il fallimento del sistema delle espulsioni non spinge però a ripensare l’impianto complessivo delle politiche migratorie. Al contrario, attorno alla metà degli anni ’90 si fa strada l’idea di rendere più rigide le norme in materia di allontanamento degli stranieri irregolari. Il delicato problema della riammissione dei migranti, in particolare, viene affrontato con l’inasprimento delle procedure: se le polizie dei paesi di origine si rifiutano di riaccogliere i propri cittadini, bisogna impedire che questi ultimi si allontanino nel corso delle trattative tra autorità italiane e straniere. Così, nel 1995, il “decreto Dini” (Decreto legge 18 novembre 1995, n. 489) introduce una modifica alla legge Martelli, che prevede l’obbligo di dimora per gli stranieri in attesa di espulsione: si apre in questo modo la strada a provvedimenti che limitano la libertà personale degli stranieri nel corso delle procedure di allontanamento.
Pochi anni dopo, nel 1997, il Governo Prodi presenta alla Camera il disegno di legge n. 3240 che, una volta approvato dal Parlamento, diverrà noto come “legge Turco-Napolitano” (legge n. 40 del 6 Marzo 1998, poi trasfusa nel Testo Unico sull’Immigrazione di cui al decreto legislativo 286 del 25 Luglio 1998). Ed è proprio la Turco-Napolitano che inventa l’istituto dei CPT: «Quando non e’ possibile eseguire con immediatezza l’espulsione», si legge al comma 1 dell’art. 12, «perchè occorre procedere […] ad accertamenti supplementari in ordine all’identità o nazionalità [dello straniero], […] il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino». Dunque, la difficoltà di eseguire un’espulsione – dovuta, come abbiamo visto, al rifiuto dei paesi di origine di riaccogliere i propri emigranti – viene risolta con un vero e proprio strumento di detenzione.
La nascita dei “centri” (1998-2000)
I primi centri vengono attivati, in attuazione della nuova normativa, già nell’Estate 1998 in alcune regioni meridionali (Sicilia, Calabria e Puglia). Il Ministero dell’Interno, però, vuole aprirne subito degli altri, e ha molta fretta: i “centri di permanenza” rappresentano uno dei pilastri della nuova normativa, e un fattore decisivo di “rassicurazione” dell’opinione pubblica. Il Governo attiva procedure di urgenza, e nel giro di pochi mesi (inizio 1999) sono già operativi in tutto il territorio nazionale 11 centri. Per risparmiare tempo e risorse finanziarie, si utilizzano beni demaniali spesso fatiscienti o in condizioni di degrado: i lavori di adeguamento vengono svolti in modo sbrigativo, attraverso interventi strutturali in estrema economia. La gestione viene affidata per lo più alla Croce Rossa, senza vere e proprie gare di appalto e con modalità di assegnazione poco trasparenti [Per queste informazioni si è fatto riferimento alla dettagliatissima relazione della Corte dei Conti: Corte dei Conti – Sezione Centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato, Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno immigrazione per l’anno 2002, Roma 2003].
Il risultato di questa attività frettolosa e approssimativa, in termini di garanzie dei diritti umani, è devastante. È la stessa Corte dei Conti a riconoscere che il trattamento degli espellendi «è per taluni aspetti risultato deteriore rispetto a quello riservato ai detenuti nelle strutture carcerarie». Ma una conferma clamorosa delle condizioni inumane in cui sono trattenuti gli stranieri proviene da una fonte giornalistica: un inviato del Corriere della Sera, Fabrizio Gatti, si fa passare per clandestino rumeno e internare in un centro di permanenza. Racconta di «un poliziotto che obbliga un immigrato a firmare la rinuncia all’avvocato difensore», oltre che di maltrattamenti, percosse, degrado fisico delle strutture [F. Gatti, Io, clandestino per un giorno rinchiuso nel centro di via Corelli, in «Il Corriere della Sera», 6 Febbraio 2000]. Altre inchieste dimostrano poi che, nel centro di Via Corelli a Milano, «la convalida dell’internamento […] è fatta a mezzo di un prestampato uguale per tutti, che la maggioranza dei magistrati neanche legge. […] Vari operatori sociali raccontano che gli internati […] non vengono informati dei loro diritti e non viene concessa loro la possibilità di incontrare il loro avvocato» [cfr. S. Palidda, Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 229].
D’altra parte l’efficacia delle nuove strutture, in termini di reale contrasto all’immigrazione clandestina, è assai dubbia. Nel 1999, su circa 8.000 “trattenuti”, solo il 44% viene effettivamente rimpatriato: questa percentuale scende al 31,1% nel 2000 e al 29,6% nel 2001 [Questi dati sono contenuti nella relazione della Corte dei Conti già citata]. La stragrande maggioranza degli immigrati, dopo aver subito angherie, vessazioni e restrizioni della propria libertà personale, viene liberata: da questo punto di vista, l’istituto del trattenimento si rivela un vero e proprio flop, utile più ad umiliare e stigmatizzare gli stranieri che a regolare le migrazioni clandestine.
Le prime contestazioni, tra giuristi e movimenti
La nascita dei CPT è accompagnata però da diffuse contestazioni. Da un lato, giuristi, avvocati e magistrati democratici contestano la legittimità costituzionale dei “centri”: il trattenimento è infatti una limitazione evidente della libertà personale, che viene inflitta a persone che non hanno commesso reati (la semplice irregolarità del soggiorno non è un reato penale, ma un’infrazione amministrativa: qualcosa di simile, fatte le debite proporzioni, ad un divieto di sosta). La Costituzione italiana, all’articolo 13, prevede che le restrizioni alla libertà personale siano disposte da un giudice, mentre l’espulsione e il conseguente trattenimento sono decisioni del Prefetto. Così, già nei primi anni dopo l’istituzione dei CPT si moltiplicano le contestazioni di avvocati, giudici, esperti di diritto [cfr. tra gli altri: Livio Pepino, Centri di detenzione ed espulsioni (irrazionalità del sistema e alternative possibili), in «Diritto Immigrazione Cittadinanza», n. 2/2000; Roberto Bin, Giuditta Brunelli, Andrea Pugiotto, Paolo Veronesi (a cura di), Stranieri tra i diritti. Trattenimento, accompagnamento coattivo, riserva di giurisdizione, Giappichelli editore, Milano 2001].
Dall’altro lato, associazioni e movimenti di solidarietà avviano azioni, denunce e mobilitazioni pubbliche contro i CPT: tra l’altro, alle tradizionali reti dell’associazionismo pro-immigrati (come la Rete Nazionale Antirazzista) si aggiungono in questo periodo i gruppi legati al nascente movimento altermondialista (impropriamente definito no-global), che è molto visibile sulla scena pubblica. Nel 1999 si costituisce a Milano un coordinamento di associazioni per il monitoraggio del “centro” di Via Corelli: il coordinamento produce, nell’Ottobre 1999, una delle prime inchieste sulle violazioni dei diritti umani nei CPT [vedi Documento del Coordinamento di Via Corelli sui centri di permanenza temporanea (5 Ottobre 1999), pubblicato sul sito Archivio Briguglio, Ottobre 1999. Leggi testo].
Il 29 Gennaio 2000 un corteo di 20.000 persone, convocato dal movimento delle “Tute Bianche”, e a cui partecipano esponenti del mondo politico come Luigi Manconi e attori come Lella Costa, si ferma davanti al Centro di Permanenza milanese di Via Corelli, e riesce ad ottenere anche l’ingresso di una delegazione dei manifestanti all’interno del centro: la vicenda, che avrà ampia eco sulla stampa nazionale, porta all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dei CPT.
I successi del movimento contro i CPT e la Bossi-Fini (2000-2002)
La denuncia di Fabrizio Gatti, le contestazioni dei giuristi e la mobilitazione dei movimenti producono, all’inizio del nuovo decennio, alcuni cambiamenti non irrilevanti nella politica riguardante la detenzione amministrativa. Il 30 Agosto 2000 il Ministero dell’Interno vara una Direttiva generale in materia di Centri di Permanenza Temporanea ed assistenza, nella quale si stabiliscono con precisione i diritti degli “ospiti”, in modo da evitare abusi e violenze delle forze dell’ordine. Tale Direttiva, che non verrà mai davvero applicata, prevede tra l’altro la possibilità di colloqui con familiari e amici, l’accesso ad informazioni sull’asilo politico, il libero utilizzo di telefoni anche cellulari: tutte cose che rimarranno lettera morta… Pochi mesi dopo, sulla questione dei Centri interviene anche la Corte Costituzionale, sollecitata dai magistrati milanesi: con la sentenza n. 105 del 2001, la Consulta interviene in particolare sull’incostituzionalità dei centri. Come spiega Sergio Briguglio in un linguaggio comprensibile ai profani, i giudici costituzionali non dichiarano tout court illegittimo l’istituto del CPT, ma costringono il governo a modificare profondamente la procedura che porta al trattenimento: «La Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità, stabilendo che […] la misura dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera incide effettivamente sulla libertà personale, [e che perciò] la convalida del trattenimento nel CPT deve fondarsi sulla verifica dei presupposti del provvedimento di espulsione, e non solo su quella dei presupposti immediati per l’adozione del provvedimento di trattenimento» [vedi messaggio e-mail inviato da Sergio Briguglio, pubblicato sul sito Archivio Briguglio, Ottobre 1999. Leggi testo]. Vediamo cosa significa più in dettaglio.
Come abbiamo visto, sin dai tempi della legge Martelli la competenza in materia di espulsioni era stata affidata ai Prefetti: è infatti il Prefetto che decide il provvedimento, lo firma e ordina alla polizia di eseguirlo. Lo straniero può, se vuole, far ricorso al giudice. In questo caso, il magistrato deve esprimersi sul provvedimento di espulsione, decidendo se esso è legittimo e conforme alla legge oppure no: in altre parole, nel ricorso sull’espulsione il giudice si esprime nel merito, e se la decisione del prefetto è stata presa contro la legge, il provvedimento espulsivo decade. Con la Turco-Napolitano, l’espulsione può essere eseguita mediante trattenimento in un CPT: ma, poichè il trattenimento è una misura restrittiva della libertà personale dello straniero, esso deve essere autorizzato dal giudice. Perciò, ogni volta che il Prefetto dispone il trattenimento, è obbligato a chiedere l’autorizzazione del magistrato. Questa autorizzazione si chiama convalida, ed è in linea di principio diversa dal ricorso sull’espulsione. Nella convalida, infatti, il giudice non si esprime nel merito – non valuta, cioè, la legittimità dell’espulsione – ma si limita a decidere se lo straniero deve finire in un CPT o no.
Ebbene, con la sentenza n. 105 del 2001, la Corte Costituzionale – pur non dichiarando illegittimi i CPT – dichiara che, in sede di convalida, il giudice può e deve esprimersi anche nel merito del decreto di espulsione: ciò significa che, se l’espulsione è illegittima, lo straniero potrà contestarla anche prima del ricorso, davanti al giudice chiamato ad autorizzare il trattenimento nel CPT. Si tratta di un piccolo, significativo passo avanti.
Questi successi, parziali ma importanti, vengono vanificati dall’approvazione, nel 2002, della legge “Bossi-Fini” (legge 189/2002, recante modifiche al Testo Unico sull’Immigrazione). La nuova normativa modifica le procedure di allontanamento degli stranieri irregolari: se, ancora ai tempi della Turco-Napolitano, l’espulsione veniva eseguita di norma tramite intimazione – cioè con un ordine scritto consegnato allo straniero – con la Turco-Napolitano tutte le espulsioni (fatti salvi casi eccezionali) debbono essere eseguite con l’accompagnamento coattivo alla frontiera da parte della forza pubblica. Da questo punto di vista, i CPT diventano strumenti indispensabili per eseguire i provvedimenti di allontanamento: e, infatti, la Bossi-Fini rafforza lo strumento del trattenimento, prevedendo l’aumento del tempo massimo di permanenza in un CPT da trenta a sessanta giorni. Le prime mobilitazioni contro la detenzione amministrativa sembrano quindi sconfitte.
La legge Bossi-Fini entra in vigore il 10 Settembre 2002, e prevede un’abnorme estensione degli strumenti repressivi contro l’immigrazione irregolare. Dal 2002 al 2003 la spesa pubblica per le espulsioni e le politiche di contrasto aumenta del 57% [Cfr. Corte dei conti, Programma di controllo 2003 –Gestione delle risorse previste in connessione al fenomeno dell’immigrazione, Regolamentazione e sostegno all’immigrazione. Controllo dell’immigrazione clandestina, Roma 2004]. Nel solo 2004, il sistema delle espulsioni costa all’erario circa 320 mila euro al giorno [European Migration Network, Punto nazionale di contatto in Italia, Immigrazione irregolare in Italia. L’approccio nazionale nei confronti dei cittadini stranieri irregolarmente soggiornanti: caratteristiche e condizioni sociali, Idos, Roma 2005, pag. 44]. Nel corso del 2003 il Ministero dell’Interno intensifica anche l’attività dei centri di permanenza temporanea: vengono aperti due nuovi CPT a Bologna e a Modena, il centro di Roma-Ponte Galeria viene ampliato, mentre si avviano le procedure per l’apertura di ulteriori strutture a Bari Palese, Gradisca di Isonzo (Gorizia), Foggia e Padova. Complessivamente, nel solo anno 2003 le spese di gestione dei diversi CPT (escludendo le spese per lavori e quelle per manutenzione straordinaria) ammontano a quasi 30 milioni di euro (per la precisione, si tratta di € 29.648.352,7) [vedi relazione della Corte dei Conti già citata].
A un così rilevante impegno economico e finanziario, però, non corrisponde una significativa contropartita in termini di efficacia dei CPT. Come si vede nella tabella qui sotto, infatti, tra il 2002 e il 2003 – dunque, in coincidenza con l’entrata in vigore della Bossi-Fini – la percentuale di stranieri effettivamente rimpatriati cresce enormemente, ma si ferma poco sotto il 50%: in altre parole, metà dei migranti che transitano nei “centri” non vengono poi effettivamente espulsi.
Centri di permanenza temporanea
Riepilogo presenze 1999-2003
Fonte: Corte dei Conti
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1999 | 2000 | 2001 | 2002 | 2003 | |
Trattenuti | 8.847 | 9.768 | 14.993 | 18.625 | 14.223 |
Effettivamente rimpatriati | 3.893 | 3.134 | 4.437 | 6.372 | 6.830 |
Effettivamente rimpatriati (%) | 44% | 31,1% | 29,6% | 34,2% | 48% |
L’enorme sforzo sul versante repressivo, dunque, continua a rivelarsi inefficace sul suo stesso terreno, quello del contrasto all’immigrazione clandestina.
Dalla Corte dei Conti a Medici Senza Frontiere: la stagione delle denunce (2002-2004)
A partire dal 2003, la Corte dei Conti comincia a pubblicare periodiche relazioni sulla gestione delle politiche migratorie, soffermandosi anche sulle problematiche relative ai CPT e al trattenimento dei migranti in attesa di espulsione. Il giudizio espresso nella relazione del 2003 è durissimo: parla di «programmazione talvolta generica e in taluni casi velleitaria», di centri «realizzati […] in strutture fatiscenti e con scarsa attenzione ai livelli di sicurezza ed al trattamento complessivo dei soggetti trattenuti», di «estrema disomogeneità dei costi di gestione nonostante il diffuso affidamento al medesimo soggetto (Croce Rossa Italiana)», tutti elementi che concorrono a disegnare «un quadro gestionale che […] non può essere considerato positivo».
Nel Gennaio 2004 l’organizzazione umanitaria indipendente Medici Senza Frontiere (MSF) pubblica un dettagliato rapporto sui CPT. Ne esce un quadro sconfortante: Msf sottolinea gravi violazioni dei diritti umani e della dignità della persona, soprattutto riguardo alle strutture di accoglienza, all’assistenza sanitaria e al diritto d’asilo. «La politica italiana sull’immigrazione» – spiega il portavoce di MSF Loris De Filippi, nel corso della conferenza stampa di presentazione del rapporto – «mostra gravi lacune e la nostra ricerca è molto chiara: MSF chiede al governo italiano ed alla società civile di istituire un’authority indipendente ed imparziale in grado di monitorare il rispetto dei diritti umani, l’assistenza sanitaria e le procedure per l’asilo all’interno dei centri».
Una conferma delle denunce di MSF arriva anche dalla Magistratura: alla fine di Gennaio 2004 arriva infatti la notizia del rinvio a giudizio di Don Cesare Lodeserto, direttore del Centro di Permanenza Temporanea “Regina Pacis” di Lecce. L’inchiesta, avviata un anno prima grazie alla denuncia di alcuni immigrati trattenuti nella struttura, riguarda i presunti abusi e pestaggi che 17 maghrebini hanno denunciato di aver subito dopo il tentativo di fuga del 22 novembre 2002. I capi di imputazione contestati a Lodeserto sono pesantissimi: lesioni personali, abuso di mezzi di correzione, omissioni di intervento per impedire i maltrattamenti [sulla vicenda di Don Cesare Lodeserto vedi dossier sul sito di Stefano Mencherini].
Il 18 Aprile 2004, la trasmissione televisiva Report, in onda su Raitre, dedica una puntata speciale alla questione dei CPT [in rete, sul sito di Melting Pot, è disponibile sia la trascrizione integrale sia il filmato in streaming]. La trasmissione documenta la scarsa trasparenza nella gestione dei CPT (di cui non vengono resi noti bilanci, convenzioni con i soggetti gestori e costi di amministrazione), il divieto di accesso per i giornalisti e la violazione dei diritti umani (soffermandosi anche sul caso di Lecce).
Nel Maggio 2004 il giornalista Fabrizio Gatti, che quattro anni prima aveva condotto la coraggiosa inchiesta sul CPT milanese di Via Corelli, fingendosi immigrato e facendosi internare nella struttura, viene condannato a 20 giorni di reclusione per “falsa dichiarazione di identità”. La condanna, però, non ferma le denunce contro l’istituto dei CPT: che, anzi, si moltiplicano in tutto il paese, provocando un diffuso e generalizzato malcontento.
Ed è ancora la Corte Costituzionale a dare uno sbocco concreto alle proteste: con la sentenza n. 222 del 2004, la Consulta non interviene nel merito della questione dei CPT, ma trasforma radicalmente le procedure di espulsione. L’articolo 13, comma 3 bis del Testo Unico sull’Immigrazione, introdotto dalla Bossi-Fini, stabiliva come noto sia l’immediata esecutività del provvedimento espulsivo, sia la convalida dell’allontanamento, da parte del giudice, entro le successive 48 ore. Di fatto, il giudice convalidava (o meno) l’espulsione quando lo straniero era già stato accompagnato alla frontiera dalle forze dell’ordine. Secondo la Corte, questa procedura vanifica le garanzie previste dall’articolo 13 della Costituzione, «e cioè la perdita di effetti del provvedimento nel caso di diniego o di mancata convalida ad opera dell’autorità giudiziaria». Nella sentenza, dunque, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo in questione «nella parte in cui non prevede che il giudizio di convalida debba svolgersi in contraddittorio prima dell’esecuzione del provvedimento di accompagnamento alla frontiera, con le garanzie della difesa».
Dalle denunce di Amnesty alla scoperta di Lampedusa (2004-2005)
Le numerose denunce e inchieste sul trattenimento mostrano un aspetto che negli anni precedenti era rimasto in ombra, almeno alle opinioni pubbliche: la funzione promiscua di numerosi “centri”. In teoria, infatti, il CPT svolge un ruolo specifico – il trattenimento di immigrati irregolari in attesa di espulsione -, e i centri debbono essere costituiti, a norma dell’art. 14 comma 1 del Testo Unico sull’Immigrazione, «con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con i Ministri per la solidarietà sociale e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica». Nella realtà dei fatti, invece, gran parte dei centri trattengono non solo gli immigrati in attesa di espulsione, ma anche i richiedenti asilo (che secondo una legge in vigore dal 2005 dovrebbero stare in strutture specifiche), le vittime della tratta di esseri umani, nonchè gli stranieri che arrivano in Italia a seguito di sbarchi sulle coste soprattutto siciliane. In molti casi, cioè, la stessa struttura è utilizzata come centro di permanenza temporanea, centro di identificazione (per i richiedenti asilo) e centro di accoglienza per fronteggiare gli sbarchi: il che significa che le funzioni umanitarie e di accoglienza vengono assolte da luoghi detentivi e punitivi, quasi tutti costituiti in violazione della procedura di cui all’art. 14 comma 1 del Testo Unico.
Il 20 Giugno 2004, intanto, la nave dell’organizzazione umanitaria tedesca Cap Anamur, sistematasi al largo di Porto Empedocle per monitorare gli sbarchi di profughi sulle coste siciliane, raccoglie a bordo 37 persone, tutte provenienti dall’Africa subsahariana, stipate su un gommone che navigava nelle acque comprese tra la Libia e l’isola di Lampedusa. La Cap Anamur chiede alle autorità italiane la possibilità di portare in salvo i profughi, ma il Ministero degli Interni nega l’autorizzazione all’attracco e costringe i migranti – molti dei quali in precarie condizioni di salute – a rimanere al largo, a bordo della nave. Dopo 13 giorni di attesa, scanditi da comunicati di protesta di ACNUR (Alto Commissariato ONU per i Rifugiati), Caritas, organizzazioni umanitarie ed enti locali, alla fine viene autorizzato l’attracco, ma l’equipaggio della nave viene messo sotto arresto, mentre i migranti vengono trattenuti nel CPT di Agrigento. Il 15 Luglio, il Ministero dell’Interno nega l’asilo politico ai profughi: il Ministro Pisanu dichiara che si tratta semplicemente di clandestini da espellere, e il 22 Luglio un aereo deporta i migranti in Ghana. La vicenda della Cap Anamur, legata solo marginalmente alla questione dei CPT, ripropone nel dibattito nazionale il problema della detenzione dei migranti irregolari.
Il 20 Giugno 2005 Amnesty International presenta alla stampa un dettagliato rapporto sui CPT dal titolo Presenze temporanee, diritti permanenti. Il rapporto contiene dettagliate denunce di persone detenute nei Cpt e sottoposte ad aggressioni fisiche da parte di agenti delle forze dell’ordine e del personale di sorveglianza e alla somministrazione eccessiva e abusiva di sedativi e tranquillanti. «Molte persone» – spiega Amnesty nella conferenza stampa di presentazione dell’inchiesta – «incontrano difficoltà nell’accedere alla consulenza di esperti, necessaria a contestare la legalità della loro detenzione e del relativo ordine di espulsione. La tensione nei centri è alta, con frequenti proteste, inclusi tentativi di fuga e alti livelli di autolesionismo. I centri sono spesso sovraffollati, con strutture inadeguate, condizioni di vita contrarie alle norme dell’igiene e cure mediche non soddisfacenti».
Nell’Estate 2005, intanto, si moltiplicano gli sbarchi sull’isola di Lampedusa: già all’inizio di Giugno, le cronache segnalano che il locale CPT – che ha una capienza massima di 190 persone – è arrivato ad ospitarne quasi 600. La RAS (Rete Antirazzista Siciliana) – un cartello di associazioni impegnate per i diritti dei migranti – lancia un appello “Per un’Estate di lotta in Sicilia”, e organizza un campeggio-presidio a Licata nonchè una presenza a Lampedusa per monitorare le attività del CPT. L’iniziativa della RAS, preceduta da alcuni video-inchiesta sui rimpatri illegali dall’isola, prodotti tra il 2004 e il 2005 (e che tra l’altro avevano sollecitato, nella Primavera 2005, una dura presa di posizione del Parlamento Europeo contro l’Italia), riesce a catalizzare l’attenzione dei mass-media sul CPT di Lampedusa.
Il 15 Settembre approda sull’isola una delegazione di europarlamentari di tutti gli schieramenti politici, nell’ambito di un giro di verifiche informative sulla detenzione dei migranti programmato dal Parlamento UE: i delegati trovano nel centro – ripulito e “svuotato” per l’occasione – appena 11 migranti. L’operazione di “ripulitura”, effettuata per nascondere ai parlamentari la realtà del centro, viene accuratamente documentata da una troupe televisiva de La7, che alla vicenda dedicherà un’apposita trasmissione di inchiesta il 22 Ottobre.
Il 6 Ottobre 2005, il giornalista Fabrizio Gatti pubblica uno sconcertante reportage proprio sul CPT di Lampedusa. Come già aveva fatto in Via Corelli a Milano, il cronista si finge clandestino, si dà persino un nome di fantasia (Bilal, di etnia curda) e si fa internare nel centro. Il racconto dell’esperienza vissuta è drammatico. «Tu non vieni dalla Turchia, tu arrivi dalla Libia. E quella scritta in arabo lo dimostra. Noi adesso ti rimandiamo da Gheddafi», minaccia un’operatrice del centro, mentre un suo collega le chiede «ce lo lascia un attimo che lo portiamo nella sala delle torture?». «Centinaia di immigrati», prosegue ancora il racconto, «sono seduti sull’asfalto in fila […]. Due rigagnoli di liquido violaceo escono da una porta a destra, […] il liquame puzza di urina e fogna. “Seduti”, urla uno dei carabinieri, […]. “Ma qui in fondo è una schifezza”, dice il collega […]. “Il maresciallo ha detto di farli sedere. Sit down”, grida più forte il primo e sorprende un immigrato alle spalle, frustandolo sulle orecchie con i suoi guanti in pelle. […] Per evitare botte bisogna rassegnarsi e bagnarsi». «I gabinetti», narra ancora Fabrizio Gatti, «sono un’esperienza indimenticabile. […] Docce con gli scarichi intasati, quaranta lavandini, e otto turche di cui tre stracolme fino all’orlo di un impasto cremoso […]. Dai rubinetti esce acqua salata. Non ci sono porte, non c’è elettricità, non c’è privacy. Si fa tutto davanti a tutti. […] E non c’è nemmeno carta igienica: bisogna usare le mani. Lì dentro è meglio andarci di notte perché di giorno il livello dei liquami sul pavimento è più alto dello spessore delle ciabatte e bisogna affondarci i piedi».
Mobilitazioni, inchieste e denunce sulla realtà dei CPT non restano senza conseguenze: a partire dall’Estate 2005, l’istituto della detenzione/trattenimento amministrativo è oggetto di diffuse critiche, non più limitate all’associazionismo e ai movimenti, ma estese anche ad ambiti politici e istituzionali.
Il documento delle Regioni (2005)
Il 7 Giugno 2005, il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, di Rifondazione Comunista, lancia in un articolo sul Manifesto una campagna contro i CPT, definiti piccole Guantanamo italiane. Vendola chiama a raccolta i Presidenti delle altre Regioni, quattordici dei quali – tutti del centro-sinistra – si ritrovano l’11 Luglio a Bari nel Forum Nazionale Mare Aperto. Nel documento conclusivo approvato dal Forum si chiede il superamento dei CPT e l’apertura di una nuova stagione riformatrice in materia di politiche migratorie.
Il documento suscita gli strali delle aree più moderate del centro-sinistra ancora all’opposizione. L’ex Ministro dell’Interno Giorgio Napolitano, padre della legge che per prima ha istituito i Centri di Permanenza Temporaea, continua a sostenere un approccio repressivo. In un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera del 3 Luglio 2005, Napolitano difende la necessità dei CPT, pur criticandone la gestione da parte del nuovo Governo. «Non c’è alcuna alternativa a uno strumento del genere», spiega in modo perentorio il futuro Capo dello Stato, «tant’è che non c’è alcuna proposta, se non quella irresponsabile di chiuderli senza sostituirli con nulla».
Il programma dell’Unione e il “superamento” dei CPT (2005-2006)
All’interno del centro-sinistra, che nel frattempo sta preparando la campagna elettorale, prevalgono però le tesi di Vendola. La coalizione di forze politiche che si è data il nome di “Unione” – e che comprende sia forze “moderate” come DS e Margherita, sia partiti più “radicali” come Rifondazione Comunista o i Verdi – pubblica all’inizio del 2006 un articolato programma di Governo che, sulla questione dei CPT, recepisce sostanzialmente le indicazioni dei governatori regionali.
Il documento parte proprio dalla crisi delle politiche migratorie repressive, e si interroga sul loro fallimento: perché, nonostante l’inasprirsi delle norme in materia di ingresso e soggiorno, è aumentata la presenza clandestina nel nostro paese? Perché le espulsioni non hanno funzionato? Perché i CPT non sono riusciti ad allontanare i migranti “indesiderati”?
Ad alimentare la clandestinità – argomenta l’Unione – non sono state leggi “lassiste”, ma al contrario normative troppo rigide, che hanno reso impossibile l’ingresso e il soggiorno regolare. Una volta che tutti o quasi i migranti siano costretti alla clandestinità, la repressione perde efficacia: rimpatriare centinaia di migliaia di persone diventa impossibile, sia dal punto di vista economico che da quello logistico. L’Unione, dunque, non ha dubbi: è necessario «ridurre il fenomeno dell’irregolarità a dimensioni fisiologiche, quindi gestibili».
A questo scopo, bisognerà anzitutto prevedere meccanismi realistici di ingresso: per esempio attraverso un visto per ricerca di lavoro, che non obblighi gli aspiranti immigrati a munirsi di un contratto di lavoro o di uno sponsor prima della loro partenza. Sarà necessario poi alleggerire le procedure di rinnovo dei permessi, nonché consentire una qualche forma di regolarizzazione ai migranti clandestini già presenti in Italia, che lavorino al nero. Così ridotta numericamente, l’immigrazione irregolare potrà essere realmente contrastata. La Bossi-Fini, dicono i partiti del centro-sinistra, ha previsto un solo mezzo per il trattamento dell’irregolarità: quello dell’espulsione indifferenziata, uguale per tutti, con accompagnamento alla frontiera e divieto di reingresso per dieci anni. Per gli immigrati privi di documenti, dei quali non è possibile ricostruire l’identità e il paese di provenienza, la legge ha poi disposto il trattenimento nei CPT. È efficace questo insieme di strumenti? O non è troppo rigido, incapace di adattarsi al caso singolo?
Secondo le forze politiche del centro-sinistra, l’immigrato senza passaporto ha tutto l’interesse a non rivelare la sua identità: una volta che la polizia abbia individuato il suo paese di origine, infatti, potrà rispedirlo a casa, e per lui scatterà il divieto di reingresso per dieci anni. Il programma propone allora di differenziare il divieto di reingresso a seconda dei casi: più anni a chi non collabori alle procedure di identificazione, un tempo minore per chi rivela i propri dati anagrafici e il proprio paese di provenienza. In questo modo, i CPT non saranno più necessari: i pochi stranieri che decideranno di non collaborare alla loro espulsione potranno essere, eventualmente, oggetto di misure di sorveglianza disposte dal Magistrato. «L’adozione di queste norme», conclude il documento, «comporta il superamento dei Centri di Permanenza Temporanea».
La formula del “superamento” dei CPT – già utilizzata, come abbiamo visto, dai governatori delle Regioni – finirà per provocare polemiche ed interpretazioni contrastanti. Così, per esempio, secondo il responsabile per l’immigrazione dell’ARCI Filippo Miraglia, «il superamento di cui si parla è un superamento che verrà consentito da una riforma delle politiche sull’immigrazione in generale: considerato che oggi in Italia c’è un’immigrazione irregolare che non sceglie di esserlo, ma lo è perché la legge obbliga ad esserlo, modificando la legge ed eliminando quasi del tutto le cause dell’irregolarità, anche i provvedimenti di espulsione diminuirebbero moltissimo, e a quel punto si renderebbe meno difficile un cambio di decisione anche sui Cpt». Diversa è l’interpretazione di alcune aree dei movimenti antirazzisti, legate ai centri sociali o alle reti disobbedienti, secondo le quali la formula del superamento coprirebbe la scarsa volontà di chiudere i CPT. Così, secondo il Centro Sociale Laboratorio Zeta di Palermo (uno dei principali animatori della Rete Antirazzista Siciliana), la proposta di incentivare la collaborazione dei migranti alle procedure di identificazione sarebbe «pericolosa e paradossale», perchè «introdurrebbe una distinzione nel trattamento dei migranti, considerati “buoni” o “cattivi” sulla base della loro collaborazione alla propria espulsione: tutto ciò non equivale naturalmente alla chiusura dei C.P.T.».
Dal volume di Marco Rovelli al “Libro Bianco”: ancora denunce (2006)
Intanto proseguono le denunce e le inchieste sulle violazioni dei diritti umani nei centri di permanenza temporanea.
Nel Febbraio 2006, Amnesty International pubblica il dossier Invisibili, nel quale si denuncia la presenza, nei CPT italiani, di minori stranieri (che secondo le normative internazionali e la stessa legge italiana non possono essere espulsi nè trattenuti). Nel Giugno dello stesso anno, il giovane cantante Marco Rovelli pubblica per la BUR il libro Lager italiani. Introdotto da Erri De Luca, e commentato da una postfazione di Moni Ovadia, il volume narra, in forma di racconto, le storie – raccolte dalla viva voce dei protagonisti – di migranti che a causa della loro condizione di clandestinità si sono trovati a permanere, in condizioni di reclusione, all’interno dei CPT. Rovelli sostiene nel libro che questi centri sono definibili come lager – laddove il termine lager rimanda al concetto di “campo” inteso come spazio dove il diritto è sospeso, destinato a coloro che sono privati dei diritti derivanti dalla cittadinanza. Dalle storie raccontate risulta come il soggetto recluso venga spesso sottoposto a vere e proprie forme di tortura, psicologica e fisica, senza alcun controllo di legalità [su Lager italiani vedi anche la recensione del sito Peacereporter].
Nell’Estate 2006, il Comitato Diritti Umani, organismo composto da parlamentari ed esponenti della società civile, pubblica un Libro Bianco sui CPT in Italia, risultato di ripetute visite ai centri di permanenza temporanea ed ai centri di identificazione sparsi nel territorio italiano. Il Libro Bianco rileva, tra l’altro, la totale assenza di un effettivo controllo giurisdizionale sulla detenzione amministrativa (affidata all’ampia discrezionalità dei prefetti e delle autorità di polizia); la sistematica violazione delle leggi in materia di immigrazione da parte delle autorità; l’erosione del diritto di asilo; la chiusura dei CPTA al mondo esterno (stampa, organizzazioni umanitarie, amministratori locali, avvocati e persino rappresentanti delle Nazioni Unite); l’utilizzo dei CPT come un indebito prolungamento di detenzione ai fini del riconoscimento di stranieri che sono stati in carcere anche per diversi anni; la violazione dei più basilari principi di trasparenza della pubblica amministrazione nella gestione dei CPTA [vedi anche la conferenza stampa di presentazione del Libro Bianco].
Dall’insediamento del governo Prodi alla Commissione De Mistura (2006-2007)
Nel frattempo l’Unione di Centro-Sinistra, che nel suo programma propone il superamento dei CPT, vince le elezioni politiche del 9 e 10 Aprile 2006, e nel mese di Maggio insedia il nuovo governo guidato da Romano Prodi: i ministri competenti in materia di immigrazione sono Paolo Ferrero di Rifondazione Comunista (alla Solidarietà Sociale) e Giuliano Amato (agli Interni). Sin dalle prime settimane dopo l’insediamento del governo si registrano rilevanti dissensi tra i due ministri proprio sul tema dei CPT. Mentre Paolo Ferrero, sul Manifesto del 23 Maggio, ribadisce l’obiettivo del superamento, il suo collega Amato – in una intervista concessa a La Stampa nel mese di Agosto – si dichiara esplicitamente contrario a chiudere i centri, sulla base di un ragionamento che parte dalla necessità di limitare i flussi migratori: «Devo tenere conto», spiega l’inquilino del Viminale, «di una limitata capacità di assorbire l’immigrazione da parte della nostra società, una soglia che non posso superare per non provocare il demone della reazione negativa, che non a caso ha una sua rappresentanza politica. Devo stare attento a non scatenare la tigre». Poche righe dopo, il pensiero di Amato si fa più esplicito: «Ammetto che nella maggioranza c’è chi rivendica la chiusura dei Ctp. Ma confido nell’ampia possibilità di ragionare con questa posizione».
Per comporre il dissenso interno al Governo e alla maggioranza che lo sostiene, il Viminale decide di costituire una commissione di studio, a cui è conferito il compito di elaborare proposte sulle politiche relative ai CPT: della commissione, presieduta dall’ambasciatore ONU Staffan De Mistura, entrano a far parte funzionari ministeriali, ma anche esponenti della società civile e dell’associazionismo. Dopo alcuni mesi di lavoro, la Commissione presenta, il 31 Gennaio 2007, gli esiti della propria ricerca. Vale la pena soffermarvisi, anche perchè si tratta delle informazioni più recenti, tra quelle attualmente disponibili: la Commissione fornisce sia dati stastici sui centri visitati, sia considerazioni critiche sul loro funzionamento.
Cominciamo dai dati statistici. Al momento della rilevazione effettuata dalla Commissione (cioè tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007), esistevano in Italia 14 centri di permanenza temporanea, con una capienza totale di 1.940 posti. Calcolando una rotazione di 60 giorni per ciascun “ospite”, il sistema dei CPT è in grado di accogliere nell’arco di un anno, 11.742 persone, a fronte di una presenza di stranieri irregolari in Italia che la commissione stima attorno alle 300.000 unità: «si crea quindi», spiega il rapporto, «una situazione paradossale, in cui a fronte di un certo numero di irregolari presente sul territorio ed un certo numero di posti disponibili nei CPT è la casualità a determinare i trattenimenti nonché i conseguenti accompagnamenti alla frontiera» [pag. 5].
Nel periodo 2005 – 2006, risultano tradotti nei vari cpt un totale di circa 25 mila stranieri, a circa 22 mila (88%) dei quali è stato convalidato il trattenimento dal giudice entro i termini di legge. Dei trattenuti, oltre 6 mila e 500 (30%) risultano già identificati all’ingresso: «il trattenimento», argomenta la commissione, «si spiega quindi con motivazioni di ordine organizzativo [reperimento del passaporto o del mezzo di trasporto] […] e non identificativo» [pag. 12].
Un dato interessante riguarda le nazionalità presenti nei CPT. I rumeni sono la nazionalità più rappresentata: il 31% dei trattenuti nei centri, quando i rumeni regolarmente soggiornanti in Italia sono il 12% degli stranieri [pag. 15]. Seguono i marocchini (12% di trattenuti nei CPT, contro il 10% delle presenze regolari); a distanza, nigeriani, palestinesi e tunisini (4% di trattenuti per ciascuna nazionalità), quindi i moldavi (2,9%) e gli iracheni (2,8%) [pag. 12]. Quanto ai motivi del trattenimento, la commissione rileva un’alta presenza di ex detenuti (17%), con tre CPT che superano il 45%: Lamezia Terme (58%), Gorizia (49%), Bologna (47%).
La ricerca della Commissione si sofferma anche sull’efficacia dei CPT, cioè sulla reale capacità di rimpatriare gli stranieri trattenuti: «emerge», si legge nel Rapporto De Mistura, «una situazione diversificata da Centro a Centro […]: per i 6 CPTA per i quali è stata possibile un’elaborazione, si passa complessivamente dal 52% di Modena al 73% di Ragusa. Degli altri 7 CPT, 2 non hanno fornito dati e 5 evidenziano incongruità tra parziali e totali». «In sostanza», conclude la commissione, «su ogni 10 trattenuti in media 6 vengono successivamente espulsi con accompagnamento alla frontiera, […] e in molti casi non si dà luogo all’espulsione perché non si riesce a procedere all’identificazione» [pag. 13].
Quanto ai rilievi critici, la commissione De Mistura trova, nei CPT visitati, numerose situazioni improprie, tra le quali il rapporto cita espressamente: la presenza di circa il 30% di cittadini stranieri che risultano già identificati all’atto dell’ingresso nel centro e nei cui confronti «il trattenimento risulta finalizzato al solo conseguimento dei titoli di viaggio [cioè del passaporto, ndr]»; la presenza rilevante di ex-regolari, persone il cui permesso di soggiorno non è stato più rinnovato, e che hanno alle spalle periodi anche molto lunghi (superiori al decennio) di presenza continuativa in Italia; la presenza di numerosi richiedenti asilo «che non avevano adeguato accesso a servizi di orientamento», nonché di donne vittime di tratta, malati e minori stranieri; la presenza cospicua di migranti che «non vengono comunque mai rimpatriati e per i quali il trattenimento risulta del tutto inutile e produce un circolo vizioso» [che vengono cioè liberati in Italia ma, essendo clandestini, finiscono nuovamente nei CPT]; la presenza rilevante di ex detenuti «nei cui confronti sarebbe stato possibile e necessario procedere all’accertamento dell’identità durante il periodo di esecuzione della pena» [pagg. 20-22].
Sulla base di queste considerazioni, la Commissione De Mistura formula alcune proposte finalizzate a “superare” i CPT «attraverso un processo di svuotamento di tutte le categorie di persone per le quali non c’è esigenza di trattenimento». Si tratta in particolare, secondo il rapporto, di escludere dai CPT i cittadini rumeni (entrati nell’Unione Europea e divenuti perciò inespellibili), gli ex-detenuti (che possono essere identificati durante il periodo di detenzione, in modo da evitare la “doppia pena” carcere+centro di permanenza), alcune categorie sociali deboli come i minori, le vittime di tratta o i richiedenti asilo, nonchè le colf e le assistenti familiari [le cosiddette badanti] e gli ex-regolari, per i quali e le quali si deve ipotizzare una vera e propria regolarizzazione. Inoltre, la Commissione propone, per ridurre il ricorso al trattenimento nei CPT, l’istituzione di una forma di rimpatrio concordato e assistito, cioè di un sistema finalizzato a «favorire il rientro in patria dello straniero irregolare in cambio di un sostegno economico per realizzare nel suo paese […] un suo progetto di vita» [pag. 27].
L’insieme di questi provvedimenti, sostiene la Commissione De Mistura, non consente tout court di chiudere i CPT, perchè resterà comunque una “categoria residuale” di immigrati irregolari per i quali sarà necessaria l’identificazione finalizzata al rimpatrio: ma tale categoria sarà, appunto, residuale, numericamente irrisoria e più facilmente gestibile.
Le proposte della Commissione suscitano, nel variegato mondo che negli anni si era opposto all’istituzione dei CPT, reazioni contrastanti. Così, da una parte l’ARCI esprime soddisfazione per aver visto raccolte molte delle sue proposte, l’ASGI (l’associazione di studi giuridici sull’immigrazione) formula un giudizio critico ma sostanzialmente positivo sul lavoro della “De Mistura”, mentre la responsabile immigrazione di Rifondazione Comunista Roberta Fantozzi invita a tradurre i “passi avanti” proposti dalla Commissione in atti normativi di riforma. Sull’altro versante, invece, il portale Melting Pot – uno dei più importanti strumenti di comunicazione e informazione sui fenomeni migratori – lamenta il bizantinismo della formula superamento dei CPT, e contesta la proposta finale della Commissione, che in sostanza – secondo la redazione del sito – propone di mantenere i CPT (sia pure per un numero ristretto di persone).
Dopo la De Mistura: dalla proposta di legge Amato-Ferrero alla restaurazione
Il 24 Aprile 2007, il Governo presenta alla stampa il disegno di legge Amato-Ferrero, che dovrebbe abrogare la Bossi-Fini sostituendola con una nuova normativa in materia di immigrazione [sulla Amato-Ferrero leggi anche: testo del disegno di legge; brochure informativa a cura del Ministero dell’Interno]. Il disegno di legge recepisce gran parte delle proposte della De Mistura, mentre alle Camere risultano depositati due disegni di legge – uno dei Comunisti Italiani e l’altro di Rifondazione Comunista – che perseguono in maniera ancor più decisa l’obiettivo del superamento dei CPT.
Intanto, però, cambia il clima culturale e politico nel paese. L’emergenza-sicurezza, agitata da stampa e televisioni a partire da Maggio 2007, modifica profondamente l’agenda politica di partiti e uomini di governo. La riforma delle politiche dell’immigrazione lascia il posto, man mano che passano i mesi, all’esigenza di misure sempre più repressive. Così, la questione del superamento dei CPT sembra tramontare, ed anzi nel decreto-sicurezza approvato il 1 Novembre 2007 si estende la misura del trattenimento persino ad alcune categorie di cittadini comunitari.
I dati della Relazione sulla criminalità in Italia (2007)
Gli ultimi dati disponibili sul funzionamento dei CPT provengono dalla Relazione sulla Criminalità in Italia, presentata dal Ministero dell’Interno il 20 Giugno 2007. Nella Relazione vengono pubblicati alcuni dati (che riporto nella tabella qui sotto) sul rendimento dei CPT, cioè sulla loro effettiva capacità di allontanare i migranti “indesiderati”. A fronte di un rendimento calante delle espulsioni in generale (dopo l’approvazione della Bossi-Fini la capacità di rimpatriare davvero gli stranieri colpiti da decreto di espulsione è minore di anno in anno), l’efficacia dello strumento specifico dei CPT mostra un andamento oscillante. Mentre ai tempi della legge Turco-Napolitano lo Stato riusciva a rimpatriare circa un terzo dei migranti trattenuti nei “centri”, con l’approvazione della Bossi-Fini gli espulsi salgono alla metà. La punta massima di efficacia viene raggiunta nel 2005, quando circa due terzi degli stranieri transitati nei CPT erano stati espulsi; nel 2006, però, il rendimento dei centri è tornato a scendere, con meno del 60% dei trattenuti allontanati.
Rendimento dei CPT
Fonte: Ministero dell’Interno, Rapporto sulla criminalità in Italia, 2007
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Anni | 2000 | 2001 | 2002 | 2003 | 2004 | 2005 | 2006 |
Transitati nei CPT | 9.768 | 14.993 | 17.469 | 13.863 | 16.465 | 16.055 | 12.842 |
Di cui espulsi | 3.134 | 4.437 | 6.372 | 7.021 | 8.939 | 11.081 | 7.350 |
% espulsi su transitati | 32,08% | 29,59% | 36,47% | 50,64% | 54,29% | 69,01% | 57,23% |
Sergio Bontempelli, Maggio 2008
Originariamente pubblicato su «Percorsi di Cittadinanza», supplemento mensile di «Aut&Aut» a cura dell’Anci Toscana, n. 9, Settembre 2005
«Chiediamo il superamento dei Centri di Permanenza Temporanea. […] Invece di aggredire i nodi spinosi della clandestinità [essi] colpiscono nei loro diritti le singole persone […] Noi pensiamo che la clandestinità vada combattuta favorendo l’apertura di canali di ingresso legali, varando programmi seri di cooperazione allo sviluppo, riconoscendo il diritto d’asilo, promuovendo politiche di integrazione sociale». Così scrivevano, l’11 Luglio scorso, 14 Presidenti delle Regioni – tra le quali la Toscana – riuniti nel “Forum Nazionale Mare Aperto”.
Pochi giorni dopo, il 21 Luglio, le agenzie di stampa diffondevano i dati della Corte dei Conti proprio sulla gestione dei CPT: soltanto nel 2004, lo Stato avrebbe speso quasi 80 milioni di euro. I risultati, in termini di contrasto all’immigrazione clandestina, sarebbero però scarsi o nulli: la metà degli stranieri trattenuti non è stata rimpatriata, e i centri di permanenza, oggetto di contestazioni per la loro dubbia costituzionalità, si sono rivelati inefficaci anche sul piano repressivo.
Eppure, c’è chi pensa che non sia possibile una diversa politica dell’immigrazione: “non c’è alcuna alternativa ai CPT”, ha detto per esempio Giorgio Napolitano sul Corriere della Sera del 3 Luglio, “tant’è che non c’è alcuna proposta, se non quella irresponsabile di chiuderli senza sostituirli con nulla”.
Un’affermazione lapidaria e senza appello: idealmente smentita, però, dalle numerose associazioni e reti sociali presenti al Meeting Antirazzista di Cecina. Che hanno presentato a tutte le forze politiche un vero e proprio “decalogo” di proposte operative immediatamente praticabili: ratifica della Convenzione ONU sui diritti dei lavoratori migranti, introduzione della cittadinanza di residenza, approvazione di nuove leggi su cittadinanza, asilo e diritto di voto, superamento della politica delle quote, chiusura dei CPT, regolarizzazione permanente, passaggio di competenze dalle Questure agli enti locali.
Pochi giorni dopo, il 27 Luglio, il campeggio della Rete Antirazzista Siciliana incontra i Sindaci delle zone coinvolte negli sbarchi di migranti: ne emerge un’articolata proposta, presentata alle Prefetture, per sostituire i luoghi di trattenimento per i profughi – CPT e centri di identificazione, spesso confusi in strutture detentive uniche di dubbia legalità – con spazi di accoglienza gestiti direttamente dagli enti locali. Alla logica repressiva ed espulsiva, insomma, le associazioni e le amministrazioni siciliane propongono di sostituire quella della solidarietà.
Alternative ai CPT, dunque, esistono, ed hanno il pregio di provenire da chi opera direttamente, “sul campo”, a fianco degli immigrati: associazioni, società civile, enti locali, Regioni. Se si tratti di proposte ragionevoli e concrete, oppure “irresponsabili” e velleitarie, è naturalmente materia di discussione. Ma, dopo le vicende di quest’estate, chi ancora sostiene le ragioni delle politiche espulsive deve fornire alcune spiegazioni: è ragionevole spendere 80 milioni di euro all’anno per sostenere strutture che violano i diritti umani, e che per di più non riescono ad allontanare i migranti “indesiderati”? E’ ragionevole condannare alla clandestinità gli stranieri che non riescono ad entrare nelle “quote”, anche se magari hanno maturato in Italia un inserimento sociale e lavorativo? E’ ragionevole vincolare l’ingresso per lavoro ad una preventiva – ed improbabile – “assunzione a distanza”, firmata da un datore di lavoro in favore di uno straniero ancora all’estero?
Concretezza e realismo, forse, stanno altrove: non certo nelle politiche migratorie degli ultimi anni.
Sergio Bontempelli
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