Diritti dei migranti e antirazzismo

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Verso il referendum, c’è chi ha paura dei nuovi cittadini. La Costituzione no

Articolo pubblicato sul quotidiano Domani, 20 Maggio 2025

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di Marika Ikonomu, 20 Maggio 2025

Ottenere la cittadinanza nel nostro paese è un percorso a ostacoli. Bontempelli: «Il referendum riguarda noi e la nostra idea di popolo»

«Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono». Giorgio Gaber nel 2003 cantava la sua idea di (non) appartenenza: «Mi scusi presidente, se arrivo all’impudenza di dire che non sento alcuna appartenenza». Eppure, chi è nato da cittadini e cittadine italiane, secondo il principio dello ius sanguinis, non rischia di vedersi togliere la cittadinanza se non si sente italiano o commette reati, così come non è tenuto a provare di guadagnare abbastanza o sapere a sufficienza la lingua per ottenere un documento.

Ma cosa significa essere cittadini? E cosa significa essere italiani? Ottenere la cittadinanza in Italia è un percorso a ostacoli, anche per chi è arrivato nel paese a pochi mesi di vita ed è costretto a fare domanda per naturalizzazione. È la principale forma di acquisizione: non un diritto, ma una concessione dello stato. Ci sono requisiti da ottenere, burocrazie da affrontare e anni di attese.

Il referendum dell’8 e 9 giugno ha l’obiettivo di attenuare uno dei requisiti necessari: abrogando un comma dell’articolo 9 della legge del 1992 si propone di ridurre da 10 a 5 anni la residenza continuativa necessaria per fare richiesta di cittadinanza. O meglio, di ripristinare la disciplina precedente alla legge in vigore. Gli altri requisiti invece rimangono: certificato di nascita, casellario giudiziale del paese di origine, conoscenza della lingua e reddito minimo.

«Penso sia fondamentale non solo perché è ragionevole ridurre il termine, adeguandolo alla tendenza europea, ma anche perché i cittadini cominciano a prendere coscienza dell’opacità di queste procedure», spiega Sergio Bontempelli, operatore sociale, studioso e responsabile degli Sportelli di assistenza agli stranieri dei Comuni della provincia di Pistoia. Un voto dal grande senso simbolico, dice l’esperto: «Le procedure non vengono più nascoste o occultate dietro il concetto che la cittadinanza bisogna meritarla». Poi però servirà comunque una «riforma radicale della legge».

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La naturalizzazione. Maggio 2025

Giornata di formazione e auto-formazione per gli attivisti e le attiviste del Comitato Pisano per il SI al referendum sulla cittadinanza. Interventi di Sergio Bontempelli e Andrea Callaioli

Slide di Sergio Bontempelli in formato PDF. Leggi

 

 

Intervista: verso il referendum sulla cittadinanza

Pubblicato come Valeria Camia e Alessandro Vaccari, Legge sulla cittadinanza italiana: un po’ di chiarezza sul referendum dell’8 e 9 giugno, dal blog Sconfinamenti.info, 12 Maggio 2025

L’8 e il 9 giugno gli italiani saranno chiamati a esprimersi su cinque quesiti referendari, tra cui uno particolarmente rilevante per le comunità migranti: la proposta di riforma delle norme sulla cittadinanza. Il quesito mira a ridurre da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale necessario per richiedere la cittadinanza italiana, estendendo automaticamente questo diritto anche ai figli minorenni dei richiedenti.

Ne abbiamo parlato con Sergio Bontempelli, esperto di diritti dei rifugiati e richiedenti asilo, operatore legale in strutture di accoglienza del centro Italia, presidente dell’Associazione Africa Insieme e dell’Associazione Culturale Straniamenti. Continue reading

Sulla cittadinanza, un referendum “anti-sovranista”

Originariamente pubblicato sul sito dell’Associazione Libertà e Giustizia

L’8 e il 9 giugno i cittadini saranno chiamati al voto su cinque referendum abrogativi su lavoro e cittadinanza. Sabato 12 aprile parte formalmente la campagna elettorale con l’obiettivo iniziale di raggiungere il quorum.
Il quinto quesito chiede in sostanza che venga dimezzato (da 10 a 5 anni) il tempo di permanenza “sul territorio della Repubblica” per ottenere la cittadinanza: le norme attuali risalgono al 1992 e da allora la società italiana è cambiata.

Sono circa un milione e mezzo i residenti stranieri che hanno in tasca un permesso di soggiorno “per soggiornanti di lungo periodo”, valido cioè a tempo indeterminato: un documento che si può richiedere dopo cinque anni di permanenza regolare e ininterrotta sul territorio nazionale, a condizione di avere una serie di requisiti (reddito, alloggio, conoscenza della lingua ecc.). I titolari di questo permesso abitano in Italia da molto tempo – a volte anche da decenni –, spesso hanno figli nati e cresciuti in Italia, e in ogni caso hanno scelto il nostro Paese come luogo in cui vivere, lavorare, costruire relazioni, metter su famiglia, comprare casa, avere dei bambini, invecchiare. Non stiamo parlando dunque di “immigrati” ma di “ex immigrati”: perché la condizione di “immigrato” – come quella di “straniero” – non è eterna, non resta attaccata alle persone come i tatuaggi, o come certe fastidiose cicatrici che ci facciamo da bambini e non se ne vanno più via.

Se guardiamo al mondo della scuola, ci accorgiamo che gli alunni stranieri sono quasi un milione, e ben 600mila sono nati in Italia da genitori non italiani. Qui abbiamo il paradosso di giovani uomini e giovani donne che le statistiche ufficiali classificano come “immigrati”, e che però non hanno mai avuto un’esperienza migratoria in tutta la loro vita (sono nati nello stesso Paese in cui sono cresciuti e in cui studiano). A dir la verità, anche gli altri 400mila alunni “non italiani” sono difficilmente collocabili nella categoria dei migranti: non sono nati sul territorio nazionale, è vero, ma spesso vi sono arrivati in tenera età, quando erano piccoli o piccolissimi, e non hanno memoria di aver vissuto altrove. L’Italia, molto semplicemente, è la loro terra.

Ecco due esempi di “italiani senza cittadinanza”: di persone, cioè, che sono classificate come “altre” e “straniere” dalla Pubblica Amministrazione, e che però nei fatti sono parte integrante del “noi”. Non stiamo parlando di casi isolati né di sparute minoranze, ma di milioni di uomini, donne, ragazze e ragazzi: un’intera fetta della popolazione esclusa dai diritti politici e dall’appartenenza alla collettività nazionale. Questa vera e propria “segregazione giuridica” – difficile definirla in altro modo – è il prodotto due fattori che nel corso del tempo si sono intrecciati e rafforzati a vicenda: una legge sulla cittadinanza vecchia e inadeguata, e un’ideologia nazionalista “sangue e suolo” condivisa da politici, giornalisti e funzionari ministeriali. Un mix esplosivo.

La legge che regola l’acquisizione della cittadinanza risale al 1992: venne scritta e approvata in un periodo storico in cui l’Italia si pensava ancora come Paese di emigranti e non come terra di immigrati. Per la verità, in quegli anni stavano già arrivando lavoratori provenienti dal Marocco, dall’Albania, dalla Tunisia o dal Senegal, e già allora si sapeva che l’immigrazione sarebbe divenuta prima o poi un fenomeno rilevante: non erano chiare, però, le conseguenze di un cambiamento così radicale.

La legge si preoccupava di tutelare i connazionali che vivevano all’estero, e per questo garantiva un’applicazione molto estesa del principio di discendenza (il cosiddetto “ius sanguinis”): tutti i bambini nati in altri Paesi, se avevano familiari o avi italiani, diventavano a loro volta italiani. Per gli immigrati residenti nello Stivale, invece, i meccanismi di acquisizione della nazionalità erano astrusi e farraginosi: chi nasceva sul territorio da genitori stranieri doveva arrivare a diciotto anni prima di poter diventare italiano per “diritto di nascita” (il cosiddetto “ius soli”), mentre lo straniero adulto doveva risiedere ininterrottamente per un intero decennio nella Penisola prima di chiedere la cittadinanza per “naturalizzazione”. Era una norma, insomma, che guardava al passato e non al futuro, agli emigranti e non agli immigrati.

Nulla di strano e nulla di grave: sono moltissime le leggi che, approvate in un determinato periodo, si rivelano inadeguate a fronteggiare le sfide di un’altra fase storica. Sarebbe bastato modificare e aggiornare la norma, introducendo forme di naturalizzazione più ragionevoli, e garantendo la cittadinanza a chi nasceva e cresceva in Italia. Ma qui è intervenuto il secondo fattore che nel corso dei decenni ha inquinato tutto il dibattito, e cioè l’ideologia tossica del “sangue e suolo”. Il “diritto di discendenza” – lo abbiamo visto – era stato pensato per mantenere un legame tra la Repubblica e la sua diaspora: accordare la cittadinanza ai figli e ai nipoti degli emigranti significava cioè assicurarsi che le comunità italiane all’estero rimanessero in contatto con la madrepatria. Negli ultimi decenni, però, questa esigenza “pragmatica” ha lasciato il posto a una concezione familistica e razziale della nazionalità: si è cominciato a dire che “è italiano chi ha sangue italiano”, cioè chi può “vantare” (si fa per dire) una discendenza da avi italiani. Tutti gli altri – gli stranieri residenti da lungo tempo sul territorio, e i bambini nati in Italia da genitori immigrati – sono e devono rimanere stranieri, salvo casi eccezionali e sporadici.

Intendiamoci: questa ideologia “sangue e suolo” non è una novità in senso assoluto. L’Italia è pur sempre il Paese che ha approvato le leggi razziali antiebraiche del 1938, e altre leggi razziali troppo spesso dimenticate, quelle dell’Impero coloniale (in cui i nativi furono esclusi dalla cittadinanza della madrepatria). All’indomani della Seconda Guerra Mondiale il fascismo era stato sconfitto, e la Repubblica si era data una Costituzione democratica ed egualitaria: eppure, nei recessi profondi dell’immaginario collettivo una certa immagine razzializzante dell’italianità ha continuato a circolare per decenni. Ed ecco il problema: negli ultimi tempi, questa immagine ha conosciuto una nuova fortuna, ed è entrata prepotentemente nel dibattito sulla cittadinanza. Lo abbiamo visto qualche anno fa, quando la campagna nazionale “l’Italia sono anch’io”, e alcune forze del centro-sinistra, hanno proposto di allargare le maglie dello “ius soli” in modo da tutelare i minori nati in Italia. La reazione del centro-destra è stata virulenta, e ha fatto emergere quell’immaginario razziale che sembrava definitivamente sepolto.

Non basta. Intimorite dall’aggressività dei loro avversari, e timorose di perdere voti, le forze di centro-sinistra hanno finito per modificare le loro argomentazioni, e per introiettare loro stesse un immaginario nazionalista. Molti commentatori e leader politici hanno cominciato a dire, per esempio, che la cittadinanza presupporrebbe la condivisione di una lingua e di alcuni “valori”: secondo questo ragionamento, chi vuol essere italiano deve parlare italiano, e deve aderire a una non meglio definita “cultura nazionale”. Può sembrare un discorso di buon senso, ma è in realtà un pericoloso scivolamento verso quell’idea di “omogeneità etnica”, che è in fondo il pilastro di ogni nazionalismo escludente e aggressivo.

È un’idea, oltretutto, che introduce una ingiustificata discriminazione tra coloro che sono italiani dalla nascita (la maggioranza della popolazione), e gli stranieri che acquisiscono la nazionalità in un momento successivo: perché non è affatto vero che, per i primi, la cittadinanza si fonda sulla condivisione di un’identità, di una cultura o di presunti “valori” comuni. Chi nasce da genitori italiani è italiano dal primo giorno di vita in base ad un automatismo di legge: a lui (o a lei) non viene chiesto di dimostrare la sua “italianità”, la sua padronanza dell’idioma nazionale o la sua adesione a un particolare stile di vita. Se appartiene a una minoranza linguistica – ad esempio ai sud-tirolesi di lingua tedesca dell’Alto Adige – e non parla bene italiano, nessuno gli toglierà la cittadinanza per questo. Se adotterà uno stile di vita “da straniero” (qualunque cosa ciò voglia dire), continuerà a essere giuridicamente un cittadino. In altri termini, la pretesa di attribuire lo status civitatis a chi possiede specifici tratti identitari si applica solo ed esclusivamente agli immigrati: è un modo per ribadire la loro presunta “diversità”.

La cittadinanza andrebbe svincolata dalla (presunta) identità etno-culturale, e ancorata semmai all’effettiva partecipazione alla vita collettiva: ad esempio, in una Repubblica che nella sua Carta Fondamentale si proclama “fondata sul lavoro”, dovrebbe essere cittadino chi col suo lavoro quotidiano (e con le tasse che paga allo Stato) contribuisce allo sviluppo economico e sociale del Paese. Il richiamo a una presunta “omogeneità” non fa che perpetuare il clima di avvelenato nazionalismo che stiamo vivendo in questi anni. Non c’è affatto bisogno di essere tutti uguali – di far parte della stessa presunta “etnia”, di avere gli stessi presunti “valori” o la stessa presunta “cultura” – per essere un corpo politico capace di auto-governarsi: la democrazia è la convivenza e la convivialità delle differenze, non l’omogeneizzazione forzata dei governati.

Il quesito referendario su cui siamo chiamati a votare l’8 e il 9 Giugno non interviene su questo insieme così ampio di problemi, e si limita a modificare  – come sempre accade in un referendum – una specifica disposizione di legge: il requisito di dieci anni di residenza ininterrotta sul territorio nazionale, necessario per richiedere la cittadinanza. Se vincono i SI, questo periodo verrebbe portato a cinque anni, cioè al tempo previsto da quasi tutti gli altri Paesi europei. Si tratta di una piccola modifica, certo, che però manderebbe un segnale importantissimo al mondo politico: gli elettori non tollerano più quella segregazione giuridica che ha ridotto decine di migliaia di persone allo status di “italiani senza cittadinanza”; e sono disposti, finalmente, a ragionare di una riforma più complessiva delle norme che regolano l’appartenenza alla collettività nazionale. Sarebbe, insomma, un primo passo per rimettere in discussione quel nazionalismo escludente e aggressivo, che ha pervaso il dibattito politico negli ultimi decenni.

Sergio Bontempelli

Sergio Bontempelli lavora nell’ambito della tutela legale dei migranti. Attualmente dirige gli sportelli per stranieri nei Comuni della Provincia di Pistoia per conto della Cooperativa ARCA. È Presidente dell’Associazione Africa Insieme di Pisa e membro di Adif-Associazione Diritti e Frontiere.

 

 

 

Cittadinanza, migranti e migrazioni: intervista a Radiograd

Martedì 9 Aprile 2025, Radiograd, webradio. Rubrica “Interviste Scomode”. In studio Adriana Bernardeschi e Federico Giusti. Vai al link della puntata

Ospite di “Interviste Scomode” Sergio Bontempelli attivista e studioso dell’immigrazione.

Al suo attivo decine di pubblicazioni, una trentennale militanza attiva a fianco dei migranti, Sergio a Radio Grad apre una riflessione sull’operato del Governo in materia di immigrazione e lo fa rispondendo alle insidiose domande della nostra redazione.

 

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La mancata riforma della cittadinanza italiana

Articolo pubblicato in contemporanea sul sito Sbilanciamoci.info e su Cronache di Ordinario Razzismo

Anticipazione di un saggio di imminente pubblicazione

21-22 Settembre 2024

di Sergio Bontempelli

La legge sulla cittadinanza in Italia risale al 1992, quest’estate il tema è tornato d’attualità e si stanno raccogliendo le firme per un referendum propositivo (entro il 30 settembre). Il dibattito politico è invece ancora schiacciato sulla confusione tra status giuridico e pretesa “italianità”, un concetto molto pericoloso.

Una legge vecchia, e un dibattito fuorviante

La legge che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana risale all’ormai lontano 1992: fu concepita e approvata in un periodo in cui i flussi migratori dall’estero erano relativamente contenuti, e in cui questioni che negli ultimi anni hanno acquisito grande rilevanza – come quella dei figli di stranieri nati sul suolo italiano, ma non riconosciuti come cittadini italiani – non erano ancora oggetto di un ampio dibattito pubblico.

Si tratta dunque di una legge vecchia, del tutto inadeguata a regolare fenomeni profondamente mutati nel tempo. Non a caso da almeno due decenni associazioni, movimenti di base, intellettuali ed esponenti politici (questi ultimi soprattutto di centro-sinistra) invocano una riforma complessiva della cittadinanza. Il dibattito degli ultimi anni, tuttavia, è stato segnato da almeno due rilevanti limiti: il primo di carattere – per così dire – «tematico», l’altro di natura più ideologica.

In primo luogo, la discussione si è concentrata quasi esclusivamente sui minori nati in Italia da genitori immigrati, e dunque sull’ampliamento del cosiddetto «ius soli». Si tratta di un tema di indubbia rilevanza, se solo si pensa che, oggi, quasi un quinto degli stranieri residenti sono nati e cresciuti nel nostro Paese (sono quindi «stranieri» unicamente in base a una forzatura giuridica…): e tuttavia, la questione dell’accesso allo status civitatis e ai diritti che gli sono connessi è assai più ampia, come vedremo tra poco, e meriterebbe di essere affrontata in tutta la sua complessità.

In secondo luogo, la cittadinanza italiana (che è, o dovrebbe essere, nient’altro che uno status giuridico) è stata sistematicamente confusa con l’«italianità», nozione dai contorni quanto mai vaghi che indicherebbe un insieme di (presunti) caratteri identitari nazionali. A loro volta, questi caratteri identitari vengono rintracciati talora nella lingua («è italiano chi parla italiano»), talora nella «cultura» o nelle «tradizioni», ma non sono rari i casi di esplicita razzializzazione della nazionalità, per cui sarebbe italiano solo chi può vantare una discendenza tutta italiana (o addirittura chi ha i tratti somatici «giusti», cioè chi è bianco e caucasico…).

L’accesso allo status di cittadino, d’altra parte, è pensato come il risultato ultimo di un processo di «italianizzazione», cioè di acquisizione di una identità e di un modo di essere compiutamente italianiSe questa «identità» è definita in termini culturali, il percorso di progressiva acculturazione è ritenuto possibile (uno straniero può benissimo acquisire gli usi, i costumi o i «valori» della società ospitante), e magari anche auspicabile. Al contrario, per chi pensa che siano i tratti somatici o la discendenza a decidere chi è davvero cittadino, l’assimilazione è un obiettivo irraggiungibile quasi per definizione: i genitori e i nonni non si possono cambiare, la pelle nera non può diventare bianca, e i lineamenti «esotici» (o presunti tali) non possono trasformarsi in fattezze «caucasiche» o «ariane». È per questa motivazione razziale che le destre sono restie a riconoscere la cittadinanza agli immigrati lungo-residenti, o ai loro figli nati e cresciuti nel territorio nazionale. Ed è sempre per questo motivo che il generale Vannacci si ostina a considerare straniera la pallavolista afrodiscendente Paola Egonu, che pure ha un regolare passaporto italiano e per di più rappresenta il nostro Paese nelle più prestigiose competizioni sportive.

Torneremo tra poco su questa razzializzazione della nazionalità, e sulle sue conseguenze. Qui ci interessa soffermarci sulla confusione tra uno status giuridico (la cittadinanza, appunto) produttore di diritti e di doveri, e una identità personale – comunque definita – associata ad una appartenenza collettiva. Nel dibattito pubblico questa confusione è molto frequente, tanto da essere entrata ormai nel senso comune. Si sente dire spesso, ad esempio, che i bambini nati in Italia da genitori stranieri meritano la cittadinanza perché anche loro in fondo, sono «come noi»: mangiano gli spaghetti (o la pizza), parlano in dialetto, tifano per la Juventus (o per l’Inter, il Milan, il Torino o l’Atalanta…), guardano Sanremo e la domenica vanno alla partita. Come se lo status giuridico e i diritti che ne derivano dovessero dipendere dall’adozione di usi e costumi «da italiani».

Questa sovrapposizione tra identità e status produce effetti deleteri. Il primo effetto è una ingiustificata discriminazione tra coloro che sono italiani dalla nascita (la maggioranza della popolazione), e gli stranieri che acquisiscono la nazionalità in un momento successivo: perché non è affatto vero che, per i primi, la cittadinanza si fonda sulla condivisione di caratteri identitari. Chi nasce da genitori italiani è italiano dal primo giorno di vita in base ad un automatismo di legge: a lui (o a lei) non viene chiesto di dimostrare la sua «italianità», la sua padronanza dell’idioma nazionale o la sua adesione a un particolare stile di vita. Se appartiene a una minoranza linguistica – ad esempio ai sud-tirolesi di lingua tedesca dell’Alto Adige – e non padroneggia la lingua italiana, nessuno gli toglierà la cittadinanza per questo. Se adotterà uno stile di vita «da straniero» (qualunque cosa ciò voglia dire), continuerà comunque a essere giuridicamente un cittadino italiano. Anni fa, in un articolo pubblicato sul settimanale Left, facevo notare scherzosamente che a Giorgio Gaber (che cantava «questa nostra Patria / non so che cosa sia / io non mi sento italiano…») nessuno propose mai di revocare la nazionalità. In altri termini, la pretesa di attribuire lo status civitatis a chi possiede specifici tratti identitari si applica solo ed esclusivamente agli stranieri: non serve per preservare una qualche omogeneità etno-culturale della popolazione (ammesso, e ovviamente non concesso, che tale omogeneità sia un obiettivo di per sé desiderabile) ma a gettare un’ombra di sospetto sull’«alterità» (vera o presunta) della componente straniera e immigrata.

Ancor più mistificante è l’idea secondo cui essere cittadini significherebbe condividere dei «valori»: chi non accetta i «nostri valori», si dice, non dovrebbe diventare italiano. A molti sembra un discorso di buon senso, e invece è carico di presupposti stigmatizzanti: quali sarebbero mai questi presunti «valori» dell’italianità? Spesso si fa riferimento all’uguaglianza di genere, o al rispetto dei diritti umani: ma davvero pensiamo che il nostro Paese si fondi su questi principi etici? Basta dare un’occhiata alle statistiche sul gender gap, o alla condizione in cui versano le nostre carceri, per nutrire qualche dubbio in proposito. Anche in questo caso, siamo di fronte a un discorso che non mira tanto a definire l’identità nazionale, quanto a etichettare negativamente chi viene da fuori: «loro non rispettano le donne, non sono come noi…». E questa funzione stigmatizzante diventa ancor più esplicita quando alla retorica dei «valori» si affianca il riferimento alla nostra (presunta) «civiltà»: quando cioè si allude alle «radici cristiane dell’Europa», o a una non meglio definita «cultura occidentale», rispetto alla quale gli immigrati sarebbero estranei e nemici; qui, evidentemente, l’appello alla dimensione valoriale serve soprattutto a escludere i musulmani, percepiti come un’alterità irriducibile e vagamente minacciosa.

Proprio la retorica dei valori ci introduce al secondo motivo per cui occorre respingere la facile equazione tra status giuridico e identità. In uno Stato compiutamente laico, quale l’Italia è o dovrebbe essere, le autorità pubbliche sono neutre non solo rispetto alle appartenenze religiose, ma anche rispetto alle opzioni etiche e politiche dei propri cittadini. Imporre dei «valori» o – peggio – gabellarli come fondamento dell’identità collettiva significa aprire le porte a uno Stato etico (non più laico). E significa anche espellere simbolicamente dalla nazione – cioè stranierizzare – tutti coloro che non condividono i «valori di Stato»: se il «vero italiano» è cattolico, i cittadini protestanti o ebrei diventano di colpo italiani di serie B; se l’Italia esiste in quanto ha radici «giudaico-cristiane», i non credenti, i musulmani o i buddisti si trasformano in ospiti sgraditi o a malapena tollerati, anche se hanno in tasca un passaporto del nostro Paese.

La cittadinanza andrebbe dunque svincolata dalla (presunta) identità etno-culturale, e ancorata semmai all’effettiva partecipazione del richiedente alla vita collettiva: ad esempio, in una Repubblica che nella sua Carta Fondamentale si proclama «fondata sul lavoro», dovrebbe essere cittadino chi col suo lavoro quotidiano contribuisce allo sviluppo economico e sociale del Paese. Il richiamo a una presunta omogeneità culturale o, peggio ancora, a caratteristiche etno-razziali, non fa che perpetuare il clima di avvelenato nazionalismo che stiamo vivendo in questi anni.

Un referendum per cambiare la legge sulla cittadinanza è stato lanciato recentemente, servono 500mila firme entro il 30 settembre. 

ll quesito è semplice: riportare a 5 anni il termine per poter avanzare domanda di cittadinanza (oggi servono 10 anni). Serve a riconoscere 2,5 milioni di cittadini stranieri e ai loro figli che già oggi in Italia risiedono da almeno 5 anni, parlano la lingua, lavorano, rispettano le leggi.

Si può firmare online  tramite SPID dal sito www.referendumcittadinanza.it

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