Diritti dei migranti e antirazzismo

Tag: burocrazia

Fortezza Europa: storia e paradossi

Originariamente pubblicato sul sito Corriere delle Migrazioni – Africa, 9 Dicembre 2019

Fortezza Europa. Breve storia delle politiche migratorie continentali (Helicon) è l’ultimo libro di Sergio Bontempelli, attivista e studioso del fenomeno migratorio nonché collaboratore di Corriere delle Migrazioni e Left.
Il volume affronta la storia delle politiche migratorie in Europa, dal dopoguerra ai giorni nostri. Si tratta di un lavoro di ricerca che offre diversi spunti di riflessione e, come scrive l’autore nelle conclusioni: «Una ricerca storica si rivolge al passato anche per capire il presente e immaginare un futuro possibile».

Il libro si apre con due storie di vita, un confronto tra vecchie e nuove migrazioni. Quanto un’operazione del genere può agevolare il “racconto” del fenomeno migratorio?
«Il confronto tra le storie rappresenta, diciamo così, un escamotage narrativo. Da un lato quella di Urbano Ciacci, emigrante italiano ed ex minatore, trasferitosi in Belgio alla fine degli anni Quaranta, per lavorare nella (tristemente nota) miniera di Marcinelle; dall’altro la vicenda di Irina, una domestica moldava che arriva in Italia nel 2005, per lavorare nella casa di un anziano. Raccontare queste storie è stato utile per mostrare come siano cambiate le politiche migratorie in Europa. Nell’immediato dopoguerra, gli emigranti (italiani e non) erano esplicitamente richiesti dai Paesi di destinazione, perché rappresentavano una manodopera indispensabile per le fabbriche. I Paesi europei più industrializzati incoraggiarono il loro arrivo, sollecitandoli ad emigrare: Urbano Ciacci racconta di aver visto sui muri della sua città un manifesto, stampato dagli imprenditori minerari del Belgio, che invitava gli italiani a partire, promettendo buoni salari e viaggi gratuiti fino alle località di destinazione. Per Irina le cose vanno diversamente: negli anni più vicini a noi, l’immigrazione è stata fortemente ostacolata dalle autorità, e i migranti sono arrivati spesso in modo irregolare, o comunque eludendo controlli e divieti».

Gli  emigranti italiani però non ebbero una buona accoglienza in Belgio, così come negli altri Paesi di destinazione.
«Oggi siamo abituati a collocare le politiche migratorie nelle categorie un po’ riduttive dell’accoglienza e del rifiuto. Qui siamo di fronte a vicende molto più complesse. Urbano non venne affatto “accolto” dal Belgio: i minatori italiani reclutati nelle miniere della Vallonia subirono vessazioni di ogni tipo, e furono oggetto di forti ostilità, non troppo diverse da quelle che oggi le burocrazie del nostro Paese (e purtroppo anche molti cittadini italiani) manifestano nei confronti dei migranti. Allora i migranti eravamo noi, e anche noi siamo stati oggetto di razzismo e di disprezzo.
Gli italiani, insomma, non furono “accolti”: semplicemente, c’era bisogno di loro, e le politiche migratorie furono pensate per incoraggiare il loro arrivo».

Le politiche migratorie dei Paesi europei hanno avuto, e hanno, tanti punti in comune. Il principale sembra essere la volontà di chiudere le frontiere. A cosa è dovuto questo accanimento?
«Questo è in effetti un punto decisivo. Nel libro, cerco di spiegare che le politiche restrittive – chiudere le frontiere, vietare o limitare i nuovi ingressi, impedire la regolarizzazione di chi non ha il permesso di soggiorno, e così via – sono state adottate da tutti i Paesi europei sin dagli anni Settanta, dunque ben prima che esistesse l’Unione Europea come la conosciamo oggi: ben prima, cioè, che esistessero direttive, regolamenti e norme valide per tutti i Paesi membri della Ue.
Viene dunque naturale chiedersi perché vi sia stata questa volontà così diffusa, pervicace e persistente di chiudere le frontiere. Ed è una domanda a cui è difficile dare risposte semplici, univoche. Sicuramente un attore che ha contribuito moltissimo a questa straordinaria “convergenza” delle politiche migratorie è stato quella che potremmo chiamare la “burocrazia dell’immigrazione”, cioè l’insieme degli apparati amministrativi e di polizia, chiamati a gestire le presenze degli stranieri. Noi tendiamo a pensare che le politiche migratorie siano fatte dai partiti, dai governi o dai parlamenti: in realtà, molto spesso sono gli apparati ministeriali, i funzionari, a orientare le scelte degli attori politici. In Italia, per esempio, parliamo spesso della legge Bossi-Fini o dei decreti Salvini come se fossero questi atti normativi ad aver costruito le politiche migratorie. Se però guardiamo le cose più da vicino, ci accorgiamo che molti cambiamenti sono dovuti a circolari ministeriali, o magari alle prassi dei singoli uffici, delle questure, delle prefetture, e così via. Anche su scala europea accadono cose simili: gli apparati burocratici sono stati decisivi nell’orientare le politiche».

Qui il fenomeno migratorio viene analizzato partendo dalle normative che hanno governato, o cercano di governare, i flussi migratori. Che quadro ne emerge?
«L’elemento forse più curioso è il fallimento delle politiche migratorie restrittive. I muri e le frontiere, semplicemente, non funzionano, e non hanno funzionato quasi mai. Nel libro faccio alcuni esempi. Negli anni Sessanta, il Regno Unito cercò di limitare i flussi migratori provenienti dalle ex colonie caraibiche, indiane e africane: eppure, gli immigrati caraibici, indiani e africani continuarono ad arrivare, mentre gli irlandesi (che avevano libero accesso al territorio britannico) diminuirono di numero. Negli anni Settanta successe una cosa simile nell’Europa continentale: Francia, Olanda, Belgio e Germania Federale chiusero le frontiere, ma i migranti continuarono ad arrivare. Gli anni Novanta, infine, sono il decennio in cui vi è stata la maggiore rigidità, ma anche l’epoca dei flussi migratori più cospicui.
Le norme restrittive, potremmo dire, non producono un’automatica riduzione dei flussi e, all’inverso, le frontiere aperte non generano necessariamente movimenti migratori “incontrollabili” e “insostenibili”».

(Amalia Chiovaro)

Codici (troppo) fiscali

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

 

Un cambiamento del codice fiscale, e una frasetta scritta sul nuovo modello di permesso di soggiorno, producono discriminazioni infinite contro i richiedenti asilo. Ecco come

Non ci stancheremo mai di ripeterlo, e qualcuno – come l’amico Sergio Briguglio – lo va dicendo da anni: le discriminazioni contro i cittadini stranieri non sono solo il frutto delle “grandi” leggi (la Bossi-Fini, il Pacchetto Sicurezza, il reato di immigrazione clandestina…) o della “grande” politica (il Migration Compact, l’esternalizzazione delle frontiere europee, il “Processo di Khartoum” e così via). Esistono discriminazioni in apparenza più piccole, che però incidono sulla vita di decine di migliaia di cittadini migranti, ne condizionano i percorsi di inserimento sociale e spesso ne limitano l’accesso ad alcuni diritti fondamentali.

Sono discriminazioni “ordinarie”, che passano dalle scelte quotidiane di una burocrazia sospettosa, farraginosa, spesso opaca e incomprensibile. Ce ne forniva un esempio Stefano Galieni, in un post pubblicato su questo sito pochi giorni fa: a Roma, è bastato collocare l’Ufficio Immigrazione della Questura nella lontanissima via Teofilo Patini, mal servita dal trasporto pubblico, per trasformare un banale rinnovo del permesso di soggiorno in una procedura infernale.

Il discorso vale anche per i richiedenti asilo e i “profughi”, oggetto di occhiute attenzioni mediatiche fino a qualche anno fa riservate ai migranti cosiddetti “economici” (oggi caduti nel dimenticatoio). Anche in questo caso, le forme di esclusione passano – certo – da leggi discriminatorie, da interpretazioni restrittive della Convenzione di Ginevra, o da pratiche di mala accoglienza diffuse (purtroppo) in tutto il territorio nazionale. Ma passano anche da banali e quotidiane procedure burocratiche.

Una norma pensata bene, applicata male

Succede ad esempio che, nel 2015, il Governo emani il decreto accoglienza (decreto legislativo 142): vi si legge, tra l’altro, che la ricevuta della domanda di asilo «costituisce permesso di soggiorno provvisorio» (art. 4 comma 3).

È una norma più che mai opportuna, questa, che potrebbe mettere la parola fine a una delle tante pratiche kafkiane diffuse presso le italiche Questure. Chi fa domanda di asilo, infatti, ha diritto a rimanere in Italia (lo dice la Convenzione di Ginevra), e dovrebbe vedersi rilasciare un permesso di soggiorno: ma gli uffici immigrazione, ingolfati di fascicoli e a corto di personale, di norma obbligano il richiedente ad una lunghissima attesa prima di ottenere il sospirato documento. Il decreto, dunque, dice una cosa banalissima: la semplice domanda di “protezione internazionale” – cioè di asilo – è già un documento di soggiorno.

Solo che, in Italia, anche le cose semplici finiscono per diventare complicate. Succede così che il Ministero dell’Interno, per dare attuazione al decreto, si inventi un nuovo documento, che si chiama “attestazione di avvenuta presentazione della domanda di protezione internazionale”: come dice il nome, per la verità un po’ farraginoso, il documento viene rilasciato dalle Questure al momento della presentazione della domanda di asilo (ne trovate un fac-simile qui).

E in calce a questo nuovo documento, il Ministero inserisce una piccola frase, una frasetta innocente e in apparenza innocua, che però sta creando un’infinità di guai:

Clicca sull’immagine per ingrandire

«La presente attestazione, pur non certificando l’identità del richiedente, costituisce permesso provvisorio». Il problema è in quel piccolo inciso, «pur non certificando l’identità del richiedente»: a differenza degli altri immigrati, infatti, i richiedenti asilo non hanno il passaporto, e utilizzano il permesso di soggiorno anche come documento di identità. Se il permesso provvisorio «non certifica l’identità del richiedente», significa che il malcapitato profugo non ha in tasca nessun documento identificativo…

E dunque, solo per dirne una, chi va in un negozio a comprare una SIM per il cellulare si sente rispondere che serve un documento, e che il permesso provvisorio (la famosa attestazione) non va bene. Chi cerca un lavoro, può incontrare ostacoli nel firmare un contratto di assunzione, perché manca un documento di identità. E gli esempi potrebbero continuare. Con una piccola innocente frasetta, il Ministero ha combinato un mezzo disastro…

Più “fiscali” che “codici”

I nostri più attenti lettori ricorderanno che qualche anno fa, il Ministero dell’Istruzione aveva lanciato un nuovo software per l’iscrizione online dei bambini nelle scuole. Tra i campi obbligatori bisognava inserire il codice fiscale: e siccome i bambini figli di stranieri irregolari non ce l’hanno, rischiavano di essere esclusi dalla scuola pubblica. La faccenda poi si risolse, ma rappresentò un monito per gli anni a venire: si può essere esclusi anche per una banalissima stringa di lettere e numeri…

E difatti la cosa si sta ripetendo. L’estate scorsa, l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato una propria circolare interna, in cui dispone di attribuire ai richiedenti asilo un codice fiscale “numerico” (composto cioè di soli numeri), al posto di quello “alfanumerico” (lettere e numeri) rilasciato a tutti gli altri cittadini.

Il problema sta nel fatto che molti software in uso presso amministrazioni comunali, aziende sanitarie, uffici postali o altri enti pubblici e privati non riconoscono il codice numerico: così, i richiedenti asilo rischiano di vedersi negati diritti essenziali, come ad esempio l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, solo perché hanno un codice fiscale diverso.

La denuncia delle associazioni

La questione è stata sollevata da un nutrito gruppo di associazioni (Asgi, Arci, Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Consiglio Italiano per i Rifugiati, Emergency, Federazione delle Chiese Evangeliche, Fondazione Migrantes, Medici per i Diritti Umani e Naga).

In un loro documento, queste sigle spiegano che «le informazioni giunte ai vari uffici periferici circa questa nuova procedura sono del tutto insufficienti e di conseguenza l’assegnazione ai richiedenti asilo di un codice fiscale diverso da quello assegnato agli altri cittadini non consente il pieno accesso ai diritti».

«Sono numerose le segnalazioni da noi ricevute», proseguono i firmatari del testo, «che rilevano (…) l’impossibilità [per molti richiedenti asilo] di accedere al Servizio Sanitario, di iscriversi ai tirocini formativi, di partecipare ai corsi di formazione professionale, di accedere al lavoro, di ottenere la residenza e/o il rilascio dei farmaci con la prescrizione medica».

Difficile commentare. Quel che ci viene da dire è che, se si vogliono privare i richiedenti asilo dei loro diritti fondamentali, lo si faccia almeno “a viso aperto”: con una proposta di legge, e non con questi piccoli mezzucci burocratici…

Sergio Bontempelli, 16 Dicembre 2016

© 2024 Sergio Bontempelli

Theme by Anders NorenUp ↑