Consorzio Consolida – Lecco
L’Arcobaleno Società Cooperativa Sociale Onlus Lecco
Aeris Cooperativa Sociale Vimercate
La Grande Casa Cooperativa Sociale Sesto San Giovanni
In collaborazione con Comunità Montana Valsassina Valvarrone Val d’Esino e Riviera e Sistema di Accoglienza e Integrazione
settimo incontro, condotto da Sergio Bontempelli e Giuseppe Faso:
L’accoglienza, quella vera
“Siamo dovuti partire dalle basi: dall’utilizzo di forchette e coltelli, alle regole della raccolta differenziata, dall’educazione ad indossare magliette e scarpe alle regole per lavarsi e utilizzare servizi igienici e docce”. Così il comunicato stampa di un consorzio che è arrivato a ospitare oltre 600 richiedenti asilo, prevalentemente in Toscana; e il cui presidente, ma solo anni dopo, è stato condannato a 7 e 4 anni per vari reati. Non ancora in terzo grado, e perciò innocente. Ma sicuramente responsabile di quel comunicato. Continue reading
Il Centro Interdisciplinare “Scienze per la Pace” dell’Università di Pisa, in collaborazione con il Centro Servizi Volontariato Toscana (CESVOT), organizza un seminario gratuito di formazione sulle recenti modifiche del quadro normativo italiano in materia di immigrazione e asilo. L’evento formativo, intitolato “Diritto alla vita e diritto d’asilo: garanzie legali e strumenti operativi”, si svolgerà venerdì 24 novembre 2023, dalle ore 15.30 alle ore 19, in Aula P2 del Polo Didattico “Piagge” dell’Università di Pisa, via G. Matteotti 11. Continue reading
Il governo presieduto da Giorgia Meloni si è distinto per il suo particolare “attivismo” nel campo dell’immigrazione: in poco più di un anno abbiamo assistito a una vera e propria “pioggia” di provvedimenti, tutti caratterizzati da una visione repressiva e securitaria.
Si è così consolidata una visione restrittiva dell’asilo – per la verità condivisa per molti aspetti anche dai precedenti governi di centro-sinistra – secondo cui la protezione va garantita solo in casi di gravi ed esplicite persecuzioni: un’idea molto lontana dal dettato costituzionale, che imporrebbe invece di accogliere qualunque straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» (art. 10 Cost.).
Il decreto Cutro ha poi trasformato in profondità il sistema di accoglienza. In particolare, ha proibito l’accesso dei richiedenti asilo alle strutture della cosiddetta «rete Sai», cioè all’insieme dei centri residenziali per rifugiati gestiti dai Comuni. Con le nuove regole, coloro che sono ancora in attesa di una decisione sulla loro domanda di asilo possono entrare solo nei Cas, i centri emergenziali gestiti dalle Prefetture (che offrono sistemazioni precarie, e che non sono attrezzati per assistere gli stranieri nei percorsi di inserimento lavorativo e sociale). Così, con l’aumento degli sbarchi verificatosi in Estate, si è creato il paradosso di strutture Cas piene fino all’inverosimile, e di centri Sai dove invece erano ancora disponibili dei posti: posti che però non potevano essere occupati dai migranti appena arrivati nel nostro Paese…
Il decreto Cutro, peraltro, ha previsto una ulteriore precarizzazione dell’accoglienza: la norma ha cancellato infatti alcuni servizi essenziali (corsi di italiano, orientamento legale, assistenza psicologica) in precedenza forniti nei Cas, e ha introdotto nuovi centri di carattere «emergenziale», diversi dai Sai e dai Cas, da allestire con procedure accellerate in deroga al Codice degli Appalti. Non è ben chiaro come funzioneranno questi nuovi centri, ma tutto lascia pensare che si tratterà di tendopoli e tenso-strutture collocate ai margini delle aree urbane: una ulteriore ghettizzazione dei migranti, che già oggi sono sistemati troppo spesso in strutture fatiscenti e isolate.
Pochi mesi dopo, nel Giugno 2023, il governo Meloni ha siglato un Memorandum di Intesa con la Tunisia per il «contrasto all’immigrazione irregolare». Sulla falsariga di analoghi accordi stipulati dai governi precedenti (in particolare con la Libia), il Memorandum prevede un contributo finanziario di 150 milioni di euro da erogare al Paese nordafricano per il potenziamento della sua guardia costiera, incaricata di impedire le partenze. L’iniziativa rafforza un regime – quello del Presidente Kais Saied – che ha incarcerato oppositori politici e dissidenti, che ha colpito l’autonomia della magistratura, e che è responsabile di gravissime violenze contro i migranti subsahariani.
Di fronte al (prevedibile) aumento degli sbarchi, e alla conclamata inefficacia delle norme adottate per fermarli, il Governo ha alzato ulteriormente la posta. Con un ennesimo decreto legge, emanato il 19 Settembre (n. 124/2023), è stato previsto il prolungamento fino a 18 mesi dei tempi di detenzione nei Cpr (centri per il rimpatrio): una misura crudele e per di più del tutto inutile, perché è noto ormai che la possibilità di rimpatriare un migrante irregolare non dipende dai tempi di trattenimento. Del resto, l’estensione a 18 mesi del periodo massimo di detenzione era già stata introdotta dai Governi Berlusconi, e non aveva prodotto alcun risultato in termini di rimpatri. Lo stesso decreto del 19 Settembre ha poi previsto un piano straordinario per la costruzione di nuovi Cpr, e ha affidato al Genio militare (!!) e a Difesa Servizi S.p.A. il compito di dare attuazione a tale piano. L’idea è quella di moltiplicare i centri per il rimpatrio, costruendone almeno uno in ogni Regione.
Negli stessi giorni (il 14 Settembre), il Governo ha emanato poi un altro provvedimento, attuativo del “decreto Cutro”. La norma stabilisce che i richiedenti asilo appena arrivati alla frontiera potranno evitare il trattenimento nei Cpr se presenteranno una garanzia finanziaria di 5mila euro. Tale garanzia finanziaria dovrà essere pagata in un’unica soluzione, mediante fideiussione bancaria, e non potrà essere versata da terze persone (ad esempio dai familiari dei migranti). Si tratta di un provvedimento che sta a metà strada tra il sadico e il grottesco: non si capisce bene come uno straniero che ha appena affrontato il lungo viaggio nel Mediterraneo, privo di risorse e di mezzi, possa disporre di 5mila euro; né risulta che nei centri di accoglienza alle frontiere vi siano sportelli bancari dove effettuare una fideiussione. Qualcuno, tra il serio e il faceto, ha fatto notare tra l’altro che sono proprio i trafficanti – soprattutto in Libia – a estorcere denaro ai richiedenti asilo: e un governo che si comporta come un trafficante di esseri umani non è un bello spettacolo da vedere…
Passa meno di un mese e l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni riparte alla carica. Con un ulteriore decreto legge (decreto 5 ottobre 2023, n. 133), si interviene stavolta sui cosiddetti “minori stranieri non accompagnati”, cioè sui ragazzi minorenni (quasi tutti nella fascia di età 16-18 anni) che viaggiano senza genitori. Il nuovo decreto prevede che, in caso di eccezionali afflussi di migranti sul territorio nazionale, l’età dei minori appena sbarcati possa essere stabilita mediante rilievi antropometrici o radiografici. Tali rilievi sono notoriamente inefficaci: nel 2017, una commissione di inchiesta parlamentare aveva appurato che gli esami medici possono avere un notevole margine di errore, fino a 2 anni. L’obiettivo del governo sembra essere quello di “trasformare” con un colpo di bacchetta magica molti ragazzi minorenni (che secondo le convenzioni internazionali hanno diritto a un trattamento particolare) in altrettanti migranti adulti, da allontanare più agevolmente.
Nel frattempo i giudici del Tribunale di Catania, in alcune loro recenti decisioni, hanno rifiutato di convalidare il trattenimento dei richiedenti asilo e ne hanno disposto l’immediato rilascio: ciò perché le disposizioni del decreto Cutro, e quelle relative alla “garanzia finanziaria”, sono in evidente contrasto con le norme europee. Di fronte alle prevedibili polemiche – il Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha sbrigativamente etichettato le decisioni dei giudici come “sentenze politiche” – persino un magistrato non particolarmente “amico dei migranti” come Piercamillo Davigo ha spiegato che le norme italiane in contrasto con il diritto Ue non devono essere applicate: «può piacere o può non piacere», ha detto in un’intervista a La7, «ma non è stato il giudice a firmare il Trattato istitutivo dell’Unione Europea».
L’ultimo atto di questa «ipertrofia normativa» è l’accordo tra Italia e Albania per il contrasto all’immigrazione irregolare. Il Protocollo di Intesa firmato da Giorgia Meloni e dal presidente albanese Edi Rama prevede la costruzione, nel Paese delle Aquile, di due strutture di trattenimento – una presso il porto di Shengjin, vicino Tirana, e l’altra nel villaggio di Gjader, nell’entroterra – dove verranno portati i migranti sbarcati in Italia. I due centri saranno interamente gestiti dalle autorità italiane, e serviranno per identificare i migranti, per espletare le pratiche di asilo e per rimpatriare tutti coloro che non saranno ritenuti meritevoli di protezione.
La decisione di «esternalizzare» le procedure di asilo e di rimpatrio è particolarmente grave, e pone numerosi problemi. Secondo la legge italiana, infatti, il trattenimento dei migranti deve essere sempre autorizzato da un giudice: in che modo questo potrà avvenire nel territorio di un altro Paese? In che modo potrà essere garantito il diritto alla difesa? Come potranno i migranti far valere il loro diritto di asilo, se si troveranno fuori dal territorio italiano? Come potranno chiamare un avvocato, o rivolgersi a un’associazione di tutela?
Per il governo Meloni, evidentemente, i diritti sono solo un impiccio. Di cui liberarsi in ogni modo.
Originariamente pubblicato in «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», 5 Settembre 2023
La «questione migranti» torna ad occupare le prime pagine dei giornali e le homepage dei siti di news, con gli arrivi via mare descritti come un fenomeno «fuori controllo». Secondo il Cruscotto statistico giornaliero del Ministero dell’Interno, alla data del 1 Settembre erano sbarcati sulle coste del nostro Paese circa 115mila migranti, quasi il doppio rispetto alla stessa data dello scorso anno (59mila persone), e quasi il triplo rispetto al medesimo periodo del 2021 (40mila persone).
Intanto la macchina dell’accoglienza, messa sotto pressione da questi sbarchi «inattesi» (o presunti tali), è andata nel caos. Per rendersene conto basta guardare a quel che sta accadendo nella nostra regione: a Firenze la Prefettura, nel tentativo disperato di reperire dei posti dove ospitare i nuovi arrivati, ha balenato l’ipotesi di utilizzare le palestre delle scuole cittadine; a Vicchio, nel Mugello, i migranti sono stati sistemati temporaneamente nelle tende, quasi fossero vittime di un terremoto o di una catastrofe improvvisa; a Pisa, sempre in un clima di emergenza, si è pensato di ammassare i minori non accompagnati in una struttura ben nascosta all’interno del Parco di San Rossore (lo ha denunciato pochi giorni fa la lista di sinistra sociale «Una Città in Comune»). Un po’ ovunque, in Toscana e non solo, si cercano soluzioni temporanee a un problema che sembra aver colto di sorpresa le istituzioni: in alcune città si sta pensando addirittura di allestire delle tensostrutture.
Esiste davvero una «emergenza»?
In questo clima di allarme, è bene chiarire subito una cosa: dal punto di vista dei numeri, non esiste nessuna «emergenza migranti». In primo luogo perché, se è vero che sono aumentati gli arrivi via mare, è anche vero che ciò avviene in un contesto complessivo di stabilizzazione dei fenomeni migratori: se si considera l’immigrazione nel suo complesso – se cioè si guarda non solo ai cosiddetti «sbarchi», ma anche ai flussi di lavoratori provenienti dall’Est Europa, dall’Asia o dall’America Latina, agli arrivi di studenti dall’estero, ai ricongiungimenti familiari, alle migrazioni stagionali o a quelle di lavoratori qualificati – si scopre che la presenza straniera nel nostro Paese è ormai stabile da diversi anni.
In secondo luogo, perché anche i nuovi arrivi via mare erano ampiamente prevedibili: così prevedibili che erano statiprevisti. Ecco cosa si leggeva, ad esempio, in una pubblicazione del Parlamento italiano uscita alla fine del 2022. «Le dinamiche migratorie di oggi dipendono (…) da sviluppi politici, economici e demografici che riguardano vaste regioni dell’Africa e dell’Asia. In alcuni casi, conflitti armati e cambiamenti climatici stanno contribuendo al movimento di profughi e i numeri sembrano destinati ad aumentare (…). Nei mesi scorsi, per esempio, la Tunisia ha superato la Libia per il numero settimanale di sbarchi in Italia. L’Algeria sta diventando un altro importante paese di transito» [Senato della Repubblica – Camera dei Deputati – Ministero degli Affari Esteri, Osservatorio di Politica Internazionale, Libia: recenti sviluppi e prospettive, Roma 2022, pag. 13].
Nel Marzo di quest’anno persino la premier Giorgia Meloni, commentando la crisi politica in Tunisia, aveva evocato – con i suoi consueti toni apocalittici – il rischio di «un’ondata migratoria senza precedenti» dal piccolo Paese nordafricano. Insomma, che in Estate si sarebbero intensificati gli arrivi di migranti via mare lo sapevano tutti, ma proprio tutti: lo sapevano gli studiosi più attenti, lo sapevano i commentatori dei giornali «mainstream» (Il Messaggero, per fare un esempio, ne aveva parlato già alla fine di Marzo), lo sapevano i ministri e le ministre del governo attualmente in carica.
E cosa ha fatto l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, per attrezzarsi a gestire questo prevedibilissimo incremento degli arrivi? Si potrebbe dire che non ha fatto nulla, ma sarebbe una risposta inesatta. In realtà il governo ha fatto molte cose: il problema è che queste «cose» sono tutte sbagliate, fallimentari, destinate a creare un problema dove il problema non c’era. Vediamo meglio.
L’accoglienza in Italia
Per capire di cosa stiamo parlando, bisogna sapere che in Italia esistono due distinti «sistemi di accoglienza», cioè due diverse reti di strutture e centri destinati ad ospitare i migranti, a fornir loro un posto letto e alcuni servizi essenziali.
Il primo è il cosiddetto «Sai» (acronimo di Sistema di Accoglienza e Integrazione), ed è l’insieme dei centri gestiti dai Comuni, sotto il coordinamento dell’Anci e del Ministero dell’Interno: è il sistema più «antico» ed è anche quello meglio attrezzato, nel senso che non si limita alla semplice «ospitalità» (vitto e alloggio), ma prevede percorsi di inserimento sociale, di avviamento al lavoro e di progressiva autonomizzazione delle persone accolte.
Il secondo, il sistema «Cas» (Centri di Accoglienza Straordinaria), è l’insieme dei «centri» gestiti dalle Prefetture. I Cas erano nati negli anni immediatamente successivi alle Primavere arabe del 2011, in una stagione «straordinaria» di sbarchi, quando le strutture Sai (che all’epoca si chiamavano «Sprar») erano piene e non potevano far fronte all’emergenza. In origine dovevano essere strutture temporanee, e per questo i servizi che offrivano ai loro ospiti erano più scarni, di solito limitati al vitto, all’alloggio e ai corsi di italiano. Poi, come spesso accade nel nostro Paese, quello che doveva essere un sistema temporaneo è diventato definitivo, e oggi gran parte dei migranti sono accolti proprio nei Cas, e non nei Sai.
La (dis)organizzazione dell’accoglienza
Il Governo, si diceva, ha inanellato una serie di azioni fallimentari, per non dire disastrose. In primo luogo, con il famigerato «Decreto Cutro» del 10 Marzo scorso, ha vietato alle persone appena sbarcate in Italia l’accesso al sistema Sai: con le nuove norme, infatti, possono entrare in un centro Sai soltanto gli stranieri che si sono visti riconoscere la loro domanda di asilo; chi è ancora in attesa della decisione delle autorità competenti può entrare solo in un Cas. Una mossa non proprio astuta, perché quando – in piena Estate – si sono moltiplicati gli sbarchi, in molte città si è verificato il paradosso di strutture Cas piene fino all’inverosimile e di centri Sai dove invece erano ancora disponibili dei posti: posti che però non potevano essere occupati dai richiedenti asilo appena giunti nel nostro Paese…
La seconda «mossa» disastrosa risale a qualche anno addietro, quando l’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini decise di ridurre i costi di gestione dei Cas: dopo le polemiche pretestuose contro i presunti 35 euro al giorno «regalati» ai migranti (cifra che in realtà andava quasi interamente agli enti gestori dei centri di accoglienza), Salvini decise di tagliare drasticamente le spese a carico dello Stato.
Così, nelle gare di appalto indette dalle Prefetture (quelle che servono per selezionare le associazioni o le cooperative più idonee a gestire un centro Cas), la quota giornaliera erogata dagli enti pubblici è passata dai famosi 35 euro a circa 21 euro a persona. Con una cifra così bassa, molte cooperative si sono trovate nell’impossibilità di garantire servizi dignitosi, e di pagare il loro stesso personale. La conseguenza, largamente prevedibile, è che i bandi di gara per i Cas sono andati deserti, e molti centri di accoglienza che dovevano aprire non hanno mai aperto. Questa situazione si è aggravata proprio negli ultimi mesi, quando ci sarebbe stato più bisogno di posti liberi.
La terza «mossa» disastrosa è stata ancora una volta partorita dal «decreto Cutro»: invece di rafforzare il sistema di accoglienza nel suo complesso, il decreto puntava ad accelerare le espulsioni e gli allontanamenti dall’Italia. E infatti le risorse erano tutte dirottate nei Centri per il Rimpatrio o CPR, negli «hotspot» e nelle strutture di frontiera. Ora, a prescindere da considerazioni etiche o giuridico-costituzionali (è illegittimo rinviare ai loro Paesi di origine persone che fuggono da guerre e persecuzioni), l’idea di puntare tutto sui rimpatri era del tutto inadeguata in una situazione come quella attuale: le aree di provenienza o di transito dei migranti – Libia e Tunisia in primis – sono caratterizzate da una forte instabilità politica e da conflitti interni spesso sanguinosi. È perciò difficile pensare che i governi di quelle zone (che tra l’altro sono governi autoritari e liberticidi) possano garantire la riammissione dei migranti allontanati dall’Italia.
Sono queste scelte disastrose ad aver prodotto il collasso attuale del sistema di accoglienza: un collasso che non è dovuto al fenomeno migratorio in quanto tale, ma al modo in cui è stato ed è governato. Non c’è nessuna emergenza migranti, insomma: semmai, siamo di fronte all’emergenza governo.
Intervento al Convegno “Immigrazione e propaganda elettorale a venti anni della legge Bossi Fini” organizzato da A-dif, Associazione Diritti e Frontiere, 22 Settembre 2022. Guarda il video dell’intero convegno a questo link, oppure il mio intervento qui sotto:
Le motivazioni della sentenza dipingono un uomo assetato di denaro e di potere, che ha utilizzato l’accoglienza come semplice pretesto per perseguire i propri interessi personali. Ma molte cose non tornano: e una lettura attenta delle 904 pagine scritte dai giudici di Locri rivela una verità molto diversa
Il direttore del Fatto non ha dubbi: i magistrati, che hanno «letto e valutato le carte», hanno stabilito che Lucano ha «reinvestito in forma privata» gran parte delle risorse stanziate dallo Stato per l’accoglienza dei migranti. Insomma, quel fiume di soldi riversatosi su Riace non è stato usato per i richiedenti asilo, e neppure per gli abitanti del piccolo Comune calabrese, come ha sempre sostenuto Domenico Lucano: al contrario, è andato ad arricchire l’ormai ex Sindaco, e a costruire la sua fortuna politica.
Da dove trae questa granitica convinzione, il direttore del Fatto Quotidiano? Ma naturalmente (dice lui) dalla lettura attenta delle 904 pagine scritte dai giudici: mentre invece certa sinistra – lamenta Travaglio – «sproloquiava di complotti politici e persecuzioni giudiziarie senza aver letto una riga delle carte».
Su una cosa possiamo dargli ragione: fino a pochi giorni fa, dato che le «carte» non erano disponibili, nessuno poteva averle viste. Solo che, adesso che sono uscite, il giornalista torinese sembra averle lette a righe alterne, una riga sì e una no. Se invece quelle righe si leggono tutte da cima a fondo – come ha fatto ad esempio Marco Revelli sul Manifesto– si arriva a conclusioni molto diverse.
Marco Travaglio si è affidato – potremmo dire – solo alle righe pari, quelle in cui si esprimono giudizi sull’operato degli imputati. Così, per esempio, i giudici osservano che Lucano si rifiutava di allontanare i migranti dai centri di accoglienza, allo scadere del periodo di ospitalità previsto, perché voleva continuare a guadagnare i famosi 35 euro al giorno a persona erogati all’epoca dal Ministero (pag. 161): e sostengono che questo suo movente economico emergerebbe molto chiaramente dalle intercettazioni.
Poi però – ed ecco le righe dispari che contraddicono quelle pari – viene riportata l’intercettazione che dovrebbe «inchiodare» il Sindaco. E si sente Lucano che, parlando con i suoi stretti collaboratori, dice:
«[Dalla Prefettura mi dicono] “non hanno diritto, se ne devono andare!”, e vogliono applicare una regola precisa, quando gli conviene. Io non posso fare questo, io devo avere uno sguardo più alto» (pagg. 180-181).
Si è mai visto un criminale che, per alludere a un traffico illecito di soldi pubblici, parla di «sguardo più alto»? Non è più ovvio interpretare questa affermazione alla luce di quel che Lucano ha sempre detto e sostenuto in pubblico, e cioè che sbattere una famiglia in mezzo a una strada significa tradire i principi a cui dovrebbe ispirarsi l’accoglienza?
Questa discrepanza tra righe pari e righe dispari è una vera e propria costante delle 904 pagine scritte dai giudici di Locri. Per fare un altro esempio tra i tanti possibili, i magistrati si soffermano sulle ispezioni effettuate a Riace dal Ministero dell’Interno, e lasciano intendere che l’ex Sindaco avesse molte cose da nascondere. Eppure, nell’intercettazione riportata a pag. 164 si sente Lucano che dice, ancora una volta a un suo stretto collaboratore:
«[L’ispettore] ha fatto una relazione limitandosi a elencare solo gli aspetti negativi. Ora io chiedo al Prefetto, ufficialmente chiedo, non voglio una visita a campione, voglio una visita integrale… approfondita… approfondita».
Si è mai visto un criminale che, invece di affrettarsi a nascondere tutto, chiede agli ispettori un controllo approfondito sul suo operato?
Pasticci amministrativi
Intendiamoci: le «carte», quelle che Travaglio dice di aver letto con grande attenzione, non restituiscono un quadro idilliaco della situazione a Riace. Incalzato dall’emergenza, il piccolo Comune calabrese versava in una situazione di grave difficoltà, che si traduceva in un clima di vero e proprio caos: secondo quanto raccontano gli inquirenti, molte spese non venivano rendicontate, le risorse destinate ai centri prefettizi venivano spesso usate per i centri Sprar e viceversa (con una inevitabile confusione nei rendiconti dei due sistemi), e alcune associazioni avevano aperto dei centri di accoglienza senza avere alcuna convenzione formale con il Comune o con la Prefettura.
Questa situazione di caos era dovuta a vari fattori. In primo luogo, alla gestione «emergenziale» degli sbarchi da parte delle autorità centrali: dato che Riace si era detta disponibile ad accogliere tutti i migranti che arrivavano sul territorio, la Prefettura aveva finito per convogliare nel piccolo Comune jonico una quantità cospicua di richiedenti asilo. Ogni giorno, ogni settimana venivano inviate decine e decine di nuove persone a cui funzionari comunali e operatori dovevano trovare un posto in accoglienza: si dovevano perciò aprire in fretta e in furia nuove strutture, attrezzarle, individuare gli enti gestori e gli operatori, acquistare generi di prima necessità per accogliere i nuovi arrivati. Ed è naturale che in una situazione del genere «saltassero» procedure, bandi, regole di contabilità e atti amministrativi formali. A ciò si aggiunga che i fondi provenienti da Prefettura e Ministero dell’interno venivano accreditati al Comune con sistematico ritardo, rendendo molto difficile la gestione quotidiana dell’accoglienza.
In secondo luogo, l’arrivo di così ingenti risorse aveva portato ricchezza nel piccolo borgo calabrese, ma non tutti condividevano i principi e le idealità di Lucano: dalle intercettazioni emergono spesso conflitti tra l’ex Sindaco e alcuni abitanti di Riace che sembravano interessati unicamente a «fare cassa» con i soldi dell’accoglienza. In alcuni momenti Lucano manifesta sfiducia anche nei confronti di alcuni suoi collaboratori, che gli paiono dediti più al proprio tornaconto personale che all’impresa politica complessiva. Su questo punto torneremo tra poco, perché – come vedremo – è quello che ha generato i maggiori equivoci.
L’accoglienza come volano di sviluppo: la questione del frantoio
Infine, a provocare questa situazione di «caos amministrativo» c’era, paradossalmente, lo stesso progetto politico di Lucano. Come sappiamo, l’ex Sindaco intendeva l’accoglienza non come semplice «aiuto» a persone venute da altri paesi, ma come strumento e volano di giustizia sociale, di inclusione, di eguaglianza e di sviluppo economico.
Non si trattava cioè di dare solo un posto letto e un pasto caldo ai migranti, cosa pur doverosa: era necessario anche costruire percorsi concreti di inserimento sociale, che valorizzassero saperi, competenze e capacità dei nuovi arrivati, e producessero ricchezza e sviluppo per tutti. Di qui le iniziative che hanno trasformato Riace in un modello conosciuto e studiato in tutto il mondo: le botteghe artigiane aperte dai richiedenti asilo, le borse lavoro, il turismo sostenibile, le imprese e le cooperative costituite insieme da migranti e cittadini «autoctoni», e così via.
Tra i progetti di punta, finiti poi nel mirino della Procura, c’era il famoso «frantoio». Lucano pensava di poter riattivare una delle più antiche e «tradizionali» attività economiche di Riace – la produzione di olio di oliva di alta qualità – valorizzando proprio la presenza dei richiedenti asilo. Voleva perciò acquistare un frantoio, e darlo in gestione a un gruppo di migranti e di cittadini riacesi: dimostrando così che accogliere persone venute da fuori poteva essere un arricchimento per tutti, anche per gli italiani.
Ma per avviare quell’attività servivano soldi. E Lucano pensò di trovarli attingendo ai fondi che lo Stato destinava all’accoglienza. Questo era non solo assolutamente legittimo, ma persino coerente con il concetto di «accoglienza integrata» che è uno dei pilastri del programma SAI (il sistema di accoglienza gestito dai Comuni, un tempo chiamato Sprar). L’ex Sindaco di Riace ha però avuto la «colpa» di non chiedere alle autorità centrali l’autorizzazione ad avviare il frantoio: così, ha cercato di ricavare – dai soldi che arrivavano via via per la gestione dei centri di accoglienza – un po’ di «economie», cioè di risparmi da destinare al suo progetto. E questo, come si diceva, ha contribuito a generare confusione, perché leggendo i bilanci non era chiaro il fatto che una parte delle risorse serviva a finanziare il frantoio.
Irregolarità amministrative o reati penali?
Non spetta a noi stabilire se questo sistematico utilizzo di fondi pubblici per il progetto del frantoio configurasse un reato penale, o una semplice irregolarità amministrativo-contabile. Quel che è certo, anche dalla lettura delle «carte» tanto osannate da Marco Travaglio, è che il Sindaco Lucano non aveva alcuna intenzione di arricchirsi: il frantoio faceva parte del suo ambizioso progetto politico, che intendeva trasformare Riace in un modello di sviluppo solidale e sostenibile.
E invece, per i giudici di Locri, Domenico Lucano non aveva finalità ideali: il frantoio gli serviva per fare soldi, per crearsi una ricchezza personale. A sua volta, la ricchezza personale gli serviva per garantirsi pacchetti di voti, per conquistare visibilità e potere politico. Che è una tesi abbastanza difficile da sostenere, visto che Lucano era ed è rimasto poverissimo, e ha rifiutato a più riprese la candidatura in tornate elettorali – nazionali ed europee – nelle quali sarebbe stato sicuramente eletto.
Per i magistrati, però, l’idea che Domenico Lucano sia un delinquente comune sembra quasi un articolo di fede: tutti i fatti che potrebbero smentirla sono sistematicamente omessi, oppure distorti al punto da diventare irriconoscibili. In questo senso la sentenza sembra davvero il frutto di una tesi precostituita. E l’esempio del frantoio è ancora una volta illuminante.
Quando i fatti sono piegati al servizio delle teorie: ancora sul frantoio
Per i magistrati, si diceva, il progetto del frantoio serviva per l’arricchimento personale di Domenico Lucano. A riprova di questa tesi, nella sentenza si cita un’intercettazione ambientale (pagg. 311 e ss.), nella quale l’ex Sindaco sembra fare due conti: spiega che il frantoio appena acquistato ha un buon valore immobiliare (attorno ai 700-800mila euro), e dichiara la sua volontà di ritirarsi dalla scena pubblica.
Per i giudici non ci sono dubbi: da questi stralci di conversazione emergerebbe chiaramente la finalità esclusivamente privata del frantoio, che servirebbe a garantire una rendita al primo cittadino di Riace dopo la fine del suo mandato. Questa lettura, però, è in aperto contrasto con quello che Lucano dice pochi minuti dopo, sempre nella stessa intercettazione:
«Tutto sommato a me conviene chiudere (…). Basta. Ho dato il mio contributo per vent’anni. Perché poi Chiara mi ha detto (…): “abbiamo pensato a un lavoro con noi sulla cooperazione internazionale” (…). A me basta che mi danno uno stipendio di 1.200 euro al mese, quello che prenderei anche a scuola (…). Tutto sommato se mi danno questo lavoro, a me piace (…). Sul mio conto corrente ho 700 o 800 euro, per pagare la rata della macchina (…). Non ho conti in banca da nessuna parte…».
Come mai un Sindaco che si sarebbe arricchito in modo fraudolento, fino ad accumulare un patrimonio di 800mila euro, dichiara poi – in una conversazione privata – di voler vivere con appena 1.200 euro al mese? E come mai nel corso del colloquio non aggiunge che, accanto a quel modesto stipendio, può vivere con la rendita del frantoio? La risposta potrebbe essere molto semplice: perché le 800mila euro del frantoio non sono una ricchezza personale, ma un patrimonio dell’associazione Città Futura, destinato a promuovere un’attività sociale. I giudici non la pensano così, benché tutti i fatti depongano chiaramente a favore di questa lettura.
In un’altra intercettazione (pagg. 405 e ss.), Lucano discute con la sua compagna e con un’amica sull’avvenire del progetto politico di Riace. L’ex Sindaco suggerisce di rivedere tutti gli assetti dell’associazione Città Futura, quella che dovrebbe gestire materialmente il frantoio: vuole allontanare il Presidente, di cui non si fida, e nominare un nuovo gruppo direttivo inserendovi persone di sua fiducia. Chiede perciò alle due donne la loro disponibilità a entrare negli organi dirigenti dell’associazione. Secondo i giudici, questo colloquio dimostrerebbe la volontà di Lucano di «appropriarsi» in forma privata del frantoio.
Ma basta seguire passo passo le intercettazioni per capire che questa lettura è forzata e implausibile. Lucano non si fida del Presidente dell’associazione, e vuole allontanarlo proprio perché sospetta che lui voglia appropriarsi del frantoio per fini privati. E ha ragione a non fidarsi: il Presidente, in un colloquio privato con sua moglie (pagg. 429-430), dice chiaramente che «sono soldi dello Stato, però se lui [Lucano, ndr.] la imposta come laboratorio per… per gli immigrati… mica quello è un frantoio per l’integrazione agli immigrati».
Queste parole sono in evidente polemica col Sindaco («però se lui la imposta…»): i giudici, però, ne distorcono il senso, e le usano per dimostrare che era lo stesso Lucano a volersi arricchire col frantoio. E tutta la sentenza è percorsa da questa convinzione incrollabile. Persino in un colloquio privato con il figlio (pag. 416), Lucano continua a dire che il frantoio serve per l’integrazione degli immigrati: ma questo colloquio, per i giudici, è la prova che Lucano mentiva a tutti, anche ai suoi familiari più stretti. Tutte le prove che potrebbero, se non proprio scagionare l’ex Sindaco, almeno dimostrare la sua assoluta buona fede, vengono distorte e usate contro di lui.
Un processo a tesi precostituita
Insomma, leggendo attentamente le «carte», si ha davvero l’impressione amara che il processo sia servito non ad accertare la verità, ma a far rientrare i fatti all’interno dei limiti angusti di una tesi precostituita.
Forse ha ragione Cataldo Intrieri, quando sul giornale Il Dubbio segnala che proprio la lunghezza della sentenza finisce per coprire l’inconsistenza delle sue conclusioni: «900 pagine sono tante e (…) chi scrive così tanto in fondo coltiva la speranza che nessuno se le legga tutte, e che la mole schiacciante svolga una funzione dissuasiva».
“Un mare di solidarietà”. Evento organizzato da Una Città in Comune a sostegno di Mimmo Lucano. Pisa, Stazione Leopolda, 18 Dicembre 2021. Intervento di Sergio Bontempelli
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