Il Signor Nessuno, l’antisemitismo e l’immigrazione

Originariamente pubblicato sul sito di Adif

Quando i discorsi dei “sovranisti” anti-immigrazione di oggi somigliano a quelli degli antisemiti di ieri

Una quindicina di anni fa, durante una piacevole conversazione sui lungarni di Pisa, Annamaria Rivera – di cui mi considero amico ma in qualche modo anche allievo, per le tante cose che ho imparato da lei – mi spiegò che le destre di oggi riattivano spesso stereotipi e retoriche proprie dell’antisemitismo storico europeo. È una tesi, questa, che Annamaria (e naturalmente non solo lei) ha più volte ripreso e argomentato nei suoi scritti.

All’epoca, la cosa mi parve nulla più che una stimolante provocazione intellettuale. Una di quelle provocazioni acute, che ti fanno riflettere, ma che alla fin fine sembrano troppo “estreme” per essere vere. Mai avrei immaginato di ritrovare i discorsi degli agitatori antisemiti di fine Ottocento – che avevo studiato per la mia tesi di dottorato, sotto la guida di Giuliano Campioni – riprodotti quasi testualmente da commentatori più o meno leghisti, più o meno destrorsi, più o meno “sovranisti” di oggi.

Invece è successo. E me ne sono accorto soltanto pochi giorni fa: precisamente l’8 Marzo, che tra l’altro non è proprio il giorno ideale per questo genere di esperienze….

Tornato a casa, stanco come sempre, ho acceso distrattamente la televisione e mi sono messo a guardare, un po’ imbambolato dal sonno, la puntata della «Gabbia» di Gianluigi Paragone. La mia attenzione è stata catturata dal “Signor Nessuno”, una specie di giornalista-commentatore anonimo, che si presenta mascherato con un improbabile cappuccio bianco e che racconta «quel che gli altri non vi raccontano» (di solito una sequela di banalità complottiste spacciate per raffinate analisi politiche).

Stavolta, l’omelia del «Signor Nessuno» prometteva di rivelare «a chi e a cosa serve l’immigrazione di massa», roba da non perdere. E siccome dopo averlo visto sono saltato letteralmente sulla sedia, vi invito ad ascoltarlo con attenzione. Poi torneremo ai nostri antisemiti.

Immigrazione e complotto plutocratico

Dunque, secondo il Signor Nessuno vi sarebbero nel mondo uomini che – cito testualmente – «manovrano il grande meccanismo dell’immigrazione di massa». Questi uomini non li conosciamo perché «stanno ben nascosti nei palazzi di vetro e negli uffici delle grandi multinazionali»: ma sono loro, gli «incappucciati della finanza» (sic!), a decidere, all’ombra di massicce scrivanie, quanti immigrati devono arrivare nel Nord del mondo.

Perché mai questi magnati della finanza dovrebbero «manovrare l’immigrazione di massa», invece di farsi semplicemente (e letteralmente) gli affari loro? La risposta è ovvia, almeno per il Signor Nessuno: «per far arrivare in Occidente un esercito di nuovi schiavi, uomini e donne pronti a lavorare a qualsiasi condizione, anche la più disumana»; così, accettando paghe da fame, i migranti abbassano il costo del lavoro, e i capitalisti ci guadagnano. E chi sarebbero questi «incappucciati della finanza»? Nella migliore tradizione del «vi racconto quel che altri non vi dicono», il Signor Nessuno fa nomi e cognomi.

In primo luogo Peter Sutherland, ex direttore generale del Wto, ex chairman di Goldman Sachs International nonché frequentatore dell’immancabile Gruppo Bilderberg: oggi, Sutherland è Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per le migrazioni internazionali, e stando al Signor Nessuno è il vero «manovratore» che guida il complotto.

Il secondo «manovratore» sarebbe il magnate della finanza George Soros, che avrebbe piazzato un suo uomo di fiducia – anzi, una sua donna di fiducia – all’interno dell’Oim, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni: da questa postazione strategica, Soros contribuirebbe a «manovrare» i movimenti dei migranti.

In questa ricostruzione c’è un lapsus incomprensibile, se non addirittura imperdonabile: il Signor Nessuno si dimentica di ricordare che Soros ha origini ebraiche. Se l’avesse fatto, l’immagine del complotto pluto-giudaico sarebbe stata completa: così, il complotto rimane solo “pluto”, che ricorda più che altro il cane di Topolino, e che per questo fa meno paura…

Una cospirazione inesistente

Va detto che, a un primo sguardo, la girandola pirotecnica di personaggi e istituzioni chiamati in causa dal Signor Nessuno fa un po’ impressione. Tra grandi magnati della finanza, uomini delle Nazioni Unite, fiduciari della Goldman Sachs e frequentatori del Gruppo Bilderberg, sembra davvero di trovarsi di fronte ai «padroni del mondo». Ma basta entrare un po’ nel dettaglio per capire che la ricostruzione dell’incappucciato fa acqua da tutte le parti.

Peter Sutherland è senza dubbio un esponente di spicco della finanza internazionale: ma il suo incarico alle Nazioni Unite come «United Nations Special Representative of the Secretary-General for International Migration» assomiglia più che altro a un titolo onorifico.

L’Onu, infatti, non gestisce praticamente nulla in materia di immigrazione: il suo Alto Commissariato per i Rifugiati assiste i profughi di tutto il mondo, le diverse agenzie delle Nazioni Unite monitorano il rispetto dei diritti umani, i “gruppi di altro livello” studiano i fenomeni migratori e suggeriscono politiche possibili agli Stati Membri. Ma le vere decisioni in materia di governo dell’immigrazione restano saldamente in mano ai singoli paesi, o a istituzioni regionali come l’Unione Europea. Da questo punto di vista, sostenere che Sutherland «manovri il grande meccanismo dell’immigrazione di massa» non è solo un po’ esagerato: è proprio una boiata galattica.

Quanto a Georges Soros, è certo un personaggio influente: finanzia numerose organizzazioni per i diritti umani, ed è capace di orientare pezzi di opinione pubblica democratica in alcuni paesi. Di lì a farne il «manovratore occulto» dei flussi migratori ce ne corre. La stessa Oim, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, ha un ruolo tutto sommato marginale nelle politiche migratorie: trasformarla in una specie di spectre, in un «centro decisionale globale» dove si programmano volumi e direzioni dei flussi, è roba da paranoia.

Quando i profughi erano ebrei

 

E qui torniamo ai nostri antisemiti. A cavallo tra Otto e Novecento, i profughi erano per lo più ebrei poveri, che fuggivano dai pogrom della Russia zarista e cercavano fortuna in Occidente. Contro di loro si scatenò una virulenta campagna di opinione che portò, in Inghilterra, all’emanazione della prima legge sui controlli di frontiera, l’Aliens Act (legge sugli stranieri) del 1905.

Le campagne antisemite si dirigevano non solo contro gli ebrei ricchi – i magnati della finanza, i presunti «padroni del mondo» che nell’immaginario comune ordinavano complotti ai danni del popolo – ma anche agli ebrei straccioni: ai migranti e ai profughi accusati di portare malattie, delinquenza, prostituzione e degrado urbano (vi ricorda qualcosa?).

I quartieri ebraici – come l’East End londinese – erano considerati luoghi pericolosi, dove la legge era sospesa e dove la criminalità la faceva da padrone. Persino Jack lo Squartatore, che agiva nel distretto di Whitechapel popolato di migranti, era sospettato di essere ebreo: la stampa antisemita lo chiamava non a caso Jacob the Ripper, «Giacobbe lo Squartatore».

Ma c’è di più. Come per il nostro Signor Nessuno [*], anche per gli antisemiti dell’epoca l’immigrazione abbassava il costo del lavoro, portando nei paesi occidentali manodopera a basso costo, «disperata», disposta a tutto pur di lavorare. All’epoca, si parlava di «sweating system» (letteralmente, il «sistema del sudore») per indicare il lavoro massacrante e senza diritti praticato in alcune imprese, soprattutto nel settore tessile: gli ebrei, che accettavano paghe da fame e condizioni disumane, finivano per agevolare lo sweating system, minacciando gli stessi lavoratori autoctoni.

Non era vero, naturalmente, e il movimento operaio dell’epoca seppe smentire queste bugie: in un dettagliato opuscolo informativo uscito nel 1984, la Fabian Society spiegò ad esempio che il sistema dello sweating era diffuso anche in settori produttivi dove non era impiegata manodopera straniera. Non c’era dunque una correlazione diretta tra sfruttamento dei lavoratori e impiego di migranti.

Il personaggio dello “scafista”: un’invenzione antisemita?

C’è un altro ingrediente che accomuna il ragionamento del Signor Nessuno ai discorsi degli agitatori antisemiti di fine Ottocento-inizio Novecento, ed è la tesi del complotto: l’idea per cui l’immigrazione non nasce spontaneamente, dalle scelte degli stessi migranti, ma è organizzata e pianificata da decisori occulti, legati ai «poteri forti» e alla finanza «pluto-giudaica» (oppure soltanto «pluto», per l’appunto).

La stessa figura dello «scafista», come se la immaginano i giornali di oggi, riprende molte caratteristiche che gli antisemiti attribuivano all’«agente di emigrazione». Per spiegarci, sarà bene fare una piccola digressione storica.

Alla fine del XIX secolo, i migranti partivano per lo più dall’Europa centro-meridionale – dall’Italia, ma anche dalla Spagna, dalla Grecia, dai territori dell’Impero Austro-Ungarico – e si dirigevano verso il Nuovo Mondo, negli Stati Uniti o in America Latina. Di solito, le navi a vapore dirette verso le Americhe salpavano dai porti del Nord Europa (Amburgo, Brema, Liverpool, Le Havre): così, l’emigrante che partisse, ad esempio, da un piccolo paese della Calabria, doveva procurarsi il biglietto della nave, poi mettersi in viaggio e attraversare tutto il continente per arrivare al porto.

All’epoca, ovviamente, i biglietti non si compravano su internet, la prenotazione di un albergo non si faceva su Booking, e per arrivare a Le Havre o a Liverpool servivano diversi giorni di viaggio: come facevano dunque gli emigranti ad arrivare fino al porto di imbarco? Dove pernottavano durante il tragitto? Come potevano acquistare il passaggio sul piroscafo diretto nelle Americhe?

Per risolvere questi problemi logistici, nacquero le cosiddette “agenzie di emigrazione”, che funzionavano da intermediarie tra le compagnie di navigazione e gli emigranti: in pratica, organizzavano il viaggio fino ai porti di imbarco, predisponendo il pernottamento lungo il tragitto e acquistando i biglietti ferroviari per arrivare fino a Liverpool, Amburgo, Le Havre o Brema.

Come accade per ogni impresa commerciale, anche le agenzie di emigrazione si facevano pubblicità: gli «agenti» giravano di villaggio in villaggio, parlavano con i contadini e con le loro famiglie, magnificavano le opportunità di lavoro e di guadagno nelle Americhe, e vendevano i loro servizi. Proprio questa propaganda finì nel mirino delle polizie europee: gendarmi e funzionari prefettizi cominciarono a pensare che il fenomeno dell’emigrazione fosse «indotto» dalle agenzie, che imbrogliavano gli ingenui contadini e li inducevano a partire.

E siccome alcuni agenti di emigrazione erano ebrei, gli agitatori antisemiti finirono per credere ad un vero e proprio complotto giudaico: erano i magnati della finanza ebraica a «guidare» i movimenti migratori, attraverso il lavoro delle «agenzie».

Il processo Wadowice: gli ebrei come capro espiatorio

Il 19 novembre 1889, giornalisti provenienti da tutto l’impero austro-ungarico, e da paesi lontani come la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti, confluirono a Wadowice, a una cinquantina di chilometri da Cracovia, nei territori polacchi che all’epoca erano sotto dominazione austriaca [**].

Presso il tribunale di Wadowice, quel giorno, si apriva un processo che prometteva di entrare nella storia: alla sbarra, come imputati, erano stati chiamati gli agenti di emigrazione Simon Herz e Julius Lowenberg, entrambi ebrei, che operavano da anni nella vicina città di Oswiecim. Le accuse contro di loro erano pesantissime: frode ai danni degli emigranti, violenze, riduzione in schiavitù e organizzazione mafiosa.

Ed in effetti, per quanto ne sappiamo, Herz e Lowenberg non dovevano essere degli stinchi di santo. I testimoni dell’accusa – gli emigranti che si erano avvalsi dell’agenzia per intraprendere il loro viaggio – raccontarono di essere stati truffati, di aver pagato biglietti a prezzi esorbitanti, o addirittura di aver acquistato un servizio che poi non era stato erogato: come gli «scafisti» di oggi, anche gli «agenti di emigrazione» dell’epoca erano spesso sfruttatori, imbroglioni e truffatori.

Eppure, nelle deposizioni dei testimoni un punto emerse con chiarezza: tutti spiegarono che la decisione di emigrare era stata presa di loro spontanea volontà, e che nessuno era stato «costretto a partire». Anche qui l’analogia con gli «scafisti» di oggi è sorprendente: per quanto violenti, mafiosi o sfruttatori possano essere, i cosiddetti «trafficanti» non sono la causa ma il mezzo, lo strumento dell’emigrazione.

Agli antisemiti dell’epoca, però, non interessava la verità dei fatti. Era molto più comodo immaginare l’immigrazione come un prodotto del complotto ebraico. Era molto più semplice prendersela con la cospirazione pluto-giudaica, che indagare la complessità dei fenomeni migratori.

Herz e Lowenberg furono condannati ciascuno a quattro anni di reclusione, dopo una campagna di stampa antisemita dai toni virulenti. L’emigrazione non si fermò, ma anzi riprese con più vigore, nonostante i molti processi (e le molte condanne) contro gli «agenti» e i «trafficanti di carne umana» (già allora si usavano queste espressioni). Le campagne antisemite diffusero nell’opinione pubblica l’odio contro gli ebrei, che a sua volta avrebbe prodotto le conseguenze note a tutti.

Ironia della sorte, la cittadina di Oswiecim, dove operava l’agenzia di Simon Herz e Julius Lowenberg, sarebbe poi passata tragicamente alla storia con il suo nome in lingua tedesca: Auschwitz.

 

Sergio Bontempelli, 11 Marzo 2017

[*] A scanso di equivoci, si chiarisce qui che non è nostra intenzione sostenere che il Signor Nessuno sia un antisemita, più o meno camuffato. Ci limitiamo qui a constatare le analogie, sicuramente inconsapevoli e non volute, tra i suoi discorsi e le retoriche pubbliche dell’antisemitismo storico.

[**] Si veda, per i dettagli sul processo: Tara Zahra, Travel Agents on Trial: Policing Mobility in Late Imperial Austria, in «Past and Present», n. 223, Maggio 2014, pagg. 161-193.