Riflessioni su fascismi, razzismi e non solo

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

Care lettrici, cari lettori

Stiamo seguendo, come molti, una accelerazione costante e complessa, non solo episodica di una pericolosa deriva autoritaria che investe non solo l’Italia. La marginalizzazione, se non la messa sul banco degli imputati di chi si rende “colpevole di solidarietà” verso i migranti, si accompagna a recrudescenze fascistoidi e razziste – i fatti di Macerata sono ad oggi solo l’apice – a cui mancano ancora risposte propositive. Anzi dalle istituzioni preposte giungono messaggi che possono divenire giustificatori e rassicuranti atti a non turbare una brutta campagna elettorale. Intanto forme di disagio sociale, che sarebbe erroneo e supponente giudicare come decodificabili con categorie binarie, mutano sempre più e in peggio un sentire comune permeato da paure indotte e, a volte, anche reali. Abbiamo provato -col testo che segue – ad accennare alcuni temi che meritano nel tempo ampia e più articolata riflessione. Abbiamo cercato di mettere questi temi in connessioni cercando di ribaltare la narrazione tossica dominante. Ci piacerebbe che questo servisse ad aprire un confronto aperto e privo di remore, perché soprattutto a sinistra di questo c’è bisogno. Domani 10 febbraio saremo come ADIF, nelle diverse piazze in cui si manifesta contro il terrorismo fascista e razzista. Lo riteniamo necessario ma non basta.
Buona lettura

 

 

1. Assistiamo, soprattutto negli ultimi mesi, ad una preoccupante crescita di movimenti fascisti, neo-fascisti e di estrema destra, che mai come oggi sembrano godere, tra l’altro, di ampi e diffusi consensi popolari. Gruppi politici esplicitamente fascisti, come Casa Pound, ottengono lusinghieri (per quanto ancora sporadici) risultati alle elezioni amministrative, si radicano in alcune periferie delle nostre città, e ottengono ascolto presso giornali e televisioni. Idee fino ad oggi ritenute estranee al discorso politico legittimo, e spesso coperte da un vero e proprio tabù discorsivo – il razzismo, il suprematismo bianco, il revisionismo storico, persino l’antisemitismo e l’odio razziale – entrano nei “normali” circuiti del dibattito pubblico, guadagnano credibilità, ottengono lo status di “opinioni” meritevoli di rispetto, quando non di attenzione e considerazione. Persino le aggressioni e le violenze razziste vengono giustificate e minimizzate, se non proprio legittimate e autorizzate. Emblematici, da questo punto di vista, sono molti commenti seguiti ai tragici fatti di Macerata: l’azione terroristica del neofascista Luca Traini è stata criticata, da molti uomini della destra italiana, ma anche dal ministro dell’interno Minniti, non per la sua violenza e il suo carico di odio, ma perché sarebbe sbagliato «farsi giustizia da soli». Come se una strage fosse, appunto, un atto di «giustizia»…

2. Per capire le origini, le cause e i possibili sviluppi di questo inquietante revival razzista e neofascista, è bene uscire dalla desolante provincia italiana, e guardare a cosa accade altrove, in Europa e nel mondo. Assistiamo quasi ovunque alla crescita di movimenti appartenenti alla destra eversiva; e quasi ovunque si registrano svolte autoritarie, attacchi alla democrazia, colpi di Stato più o meno mascherati (e più o meno sanguinosi). L’elenco è troppo lungo, e troppo noto a chi ci legge, per soffermarvisi. Basterà ricordare, tra i molti esempi possibili, il colpo di Stato di Al-Sisi in Egitto, che ha instaurato un regime dittatoriale tra i più feroci della storia del paese, la svolta autoritaria di Erdogan in Turchia, che ha portato in carcere centinaia di attivisti democratici e che oggi si lancia in una nuova avventura bellica, l’affermazione di partiti nazionalisti e antisemiti nell’Est Europeo – in primis Ungheria, Ucraina e Polonia – ma anche i recenti risultati elettorali in Austria, o, ancora, la temperie reazionaria in America Latina. Per non parlare di fenomeni largamente riportati sulla stampa italiana, e dunque assai più conosciuti qui da noi, come l’affermazione di Trump negli Stati Uniti. Si tratta, beninteso, di fenomeni molto diversi tra loro, che qui non proponiamo affatto di “equiparare”: essi sono tuttavia espressione di una diffusa tendenza neo-autoritaria, che come ovvio può assumere modalità diverse, a seconda dei contesti e dei paesi in cui prende piede.

3. Se teniamo conto di questo ampio contesto storico e geopolitico, non è difficile accorgersi che siamo in presenza di una vera e propria “crisi della democrazia”: la libertà di espressione, il diritto di manifestare, la partecipazione popolare, le garanzie dello Stato di diritto sono ovunque messe in discussione, delegittimate, poste sotto attacco (sia pure in modi e forme assai differenti, come non ci stancheremo di ripetere). Si direbbe che una parte del potere politico, collegato con i grandi gruppi economici, voglia (o debba) sbarazzarsi della democrazia, o almeno mettere tra parentesi, ridimensionare gli istituti democratici, per tornare a forme di governo autoritarie, fondate sul carisma del “capo” e, nei casi più drammatici, alla violenta repressione del dissenso e delle minoranze.

Non è difficile abbozzare una prima, approssimativa spiegazione di questo fenomeno involutivo. Posti di fronte alla rottura del “patto fordista” prima, e ai drammatici effetti della crisi economica e delle politiche di austerità poi, i poteri politici sono sempre meno in grado di governare i conflitti e i dissensi. Incapaci di agire come mediatori e garanti del patto sociale, costrette – o convinte – a praticare scelte anti-popolari, non più in grado di garantire una seppur minima redistribuzione delle risorse, le leadership di molti paesi del mondo (o per meglio dire una parte di esse) si orientano verso una gestione autoritaria del potere. Operazione politica che si traduce in misure legislative che cancellano i diritti dei lavoratori, e che si presta ad una redistribuzione della ricchezza a tutto vantaggio della rendita speculativa e delle multinazionali.

Per dirla in modo fin troppo semplicistico: è difficile governare in modo democratico e trasparente quando si devono imporre tagli alla sanità e alle pensioni, o quando si deve ridurre alla fame e alla disperazione una parte consistente del corpo sociale.

Quest’analisi, come ovvio, è parziale e non spiega tutto: ci consente però di fare un po’ di luce sui nessi, troppo spesso dimenticati, tra crisi della democrazia, globalizzazione e crisi economica. Di fatto – e il fenomeno è cresciuto come una lenta Weimar – si rafforza una nuova/antica incompatibilità fra diritti e profitti, fra capitale, impresa, finanza e democrazia sostanziale.

4. Si sarebbe tentati, di fronte a questa pericolosa involuzione della politica, di collocarsi in una posizione – per così dire – “difensiva”, a tutela di ciò che resta della dialettica democratica. In Italia, di fronte al dilagare del neo-fascismo, c’è chi richiama all’unità tutte le forze democratiche: al di là di pur legittimi dissensi, l’urgenza del momento imporrebbe di fare “fronte comune”, di costruire un argine alla deriva fascista e/o populista, di difendere le istituzioni della democrazia rappresentativa.

Matteo Renzi ha fatto largo uso di questa retorica, a fini strumentali di campagna elettorale: non è tempo di dividersi o di disperdere il voto, ha spiegato. Si chiede così di mantenere quella quiete e quel silenzio necessari in tempi brevi a non perdere consensi, in tempi lunghi a lasciare che i messaggi di odio possano proliferare. E si assiste a un Ministro dell’Interno che intende negare il diritto di manifestare, ponendo sullo stesso piano fascismo ed antifascismo.

5. Su un punto, ci pare, poco si è riflettuto in queste settimane: la destra in ascesa si presenta al mondo come una forza popolare, che tutela i ceti più deboli, che contrasta le politiche di austerità e i diktat europei, che si batte contro i privilegi delle élites e delle “caste”con un movimento non nuovo nella storia dei fascismi, chi sostiene i “padroni del vapore” si presenta al mondo come anticapitalista e anti-sistema; chi promuove una svolta autoritaria e anti-popolare si propone come soggetto rappresentativo proprio delle classi più svantaggiate; una politica eversiva (dell’ordine costituzionale) si maschera da politica sovversiva (a favore degli oppressi e degli sfruttati). Come già era accaduto con i fascismi storici, anche il neo-fascismo assume le vesti di un “socialismo degli imbecilli”.

Potrebbe sembrare un gioco di prestigio: eppure, è un fatto che i nuovi fascismi abbiano, negli ultimi anni, trasformato in rancore e in risentimento – dunque in risorsa politica per loro vantaggiosa – la rabbia popolare nei confronti delle politiche di austerità. In assenza di una sinistra degna di questo nome, sono i neofascisti a farsi interpreti del malessere di ampi strati della popolazione. E lo fanno secondo il copione ormai consolidato dei loro omologhi novecenteschi: scaricando la rabbia su facili “capri espiatori” – ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e i richiedenti asilo – e agitando slogan contro la “casta” dei politici, contro le burocrazie, contro privilegi veri, o più spesso presunti. È un meccanismo – dobbiamo riconoscerlo – che al momento funziona e che produce consenso.

Se le cose stanno così, è davvero possibile contrastare i neofascismi sostenendo – sia pure indirettamente, in modo temporaneo o puramente elettorale – chi ha finora promosso politiche di austerità e di impoverimento? Non si rischia in questo modo proprio di accreditare l’immagine dei neofascismi come unici movimenti di reale opposizione all’establishment? 

6. L’antifascismo, oggi come ieri, non può non fare i conti con la crisi economica e con i fenomeni di progressivo impoverimento indotti dalle politiche di austerità. E non può presentarsi in alcun modo come un supporto all’establishment, pena la perdita della sua stessa ragion d’essere. Una sinistra che non tuteli i lavoratori e le lavoratrici, che non si opponga davvero alle scelte antipopolari degli ultimi anni, è destinata a favorire la destra, ad accreditarla come unica forza “anti-sistema”.

È invece necessario mostrare che i nuovi fascismi – come già quelli “vecchi” – sono tutt’altro che anti-sistema. La Lega Nord, dopo aver fatto il cane da guardia ai governi Berlusconi, dopo aver votato i peggiori provvedimenti monetaristi e liberisti di quei governi, in Italia come in Europa, si presenta oggi come sostenitrice della “sovranità popolare contro l’euro”: ma il suo “sovranismo”, guardato un po’ più da vicino, è nient’altro che un liberismo selvaggio, temperato da qualche dazio doganale (e dalla svalutazione della moneta) per favorire i piccoli imprenditori del Nord-Est. Nulla che interessi le classi popolari, i lavoratori e le lavoratrici, i pensionati e i giovani precari.

Non sarebbe difficile, per una sinistra che davvero contrastasse le politiche di austerità, smascherare questo equivoco. Ma se ci si muove sul terreno minato dell’«unità democratica», se si sostiene per l’appunto l’establishment in nome di una logica rinunciataria e difensiva («meglio chi comanda oggi rispetto ai fascisti»), il rischio è proprio quello di alimentare il flusso di consensi alla destra estrema.

7. È necessario affermare con forza che i nuovi fascismi non agitano affatto “problemi reali”, come si sente dire sempre più spesso: piuttosto, canalizzano la rabbia – dettata, questa sì, da disagi reali – su problemi inesistenti o fantasmatici.

La differenza non è di poco conto. In Italia, c’è chi pensa – a partire dal Ministro dell’Interno Minniti – che l’immigrazione sia un “problema reale”, a cui si dovrebbe dare una qualche “risposta”, per evitare che le destre se ne approprino. I risultati di questa politica sono sotto gli occhi di tutti: le frontiere sono state chiuse, i migranti trattenuti in Libia, le ONG allontanate dalle loro attività di soccorso, il numero delle vittime in mare ed in Libia è in crescita esponenziale, ma per Minniti ed il governo che lo esprime il problema si sarebbe, se non proprio “risolto”, almeno avviato a una qualche “soluzione” (le virgolette sono d’obbligo…). I fascismi, però, non solo non sono stati fermati, ma prosperano come mai era accaduto prima.

I fascismi non si sconfiggono assecondando il loro linguaggio, assumendo la loro stessa lettura della società, nominando i “problemi” nel loro stesso modo. Se si assume che “il problema” è la presenza “eccessiva” dei migranti, si avalla il discorso fascista: lo si legittima, col risultato di farlo tracimare.

8. E di quale presenza dei migranti si parla, poi? Coloro che, in modo talvolta un po’ approssimativo, vengono definiti “immigrati” costituiscono un universo assai variegato, difficile da ricondurre a un denominatore comune. Non parliamo tanto delle provenienze nazionali, quanto soprattutto dei percorsi di inserimento sociale, delle modalità di interazione con i contesti locali, delle forme di inclusione (o di esclusione) nei mercati del lavoro. Le migrazioni si sono scontrate con un sistema sociale ed economico gerarchico, privo – più che per gli autoctoni – di mobilità sociale, parcellizzato in mille nicchie, generazionali, urbane, economiche e culturali: e così le presenze migranti in Italia sono divenute frammenti in una società polverizzata. Eppure, le rappresentazioni mediatiche del mondo dell’immigrazione sono spesso – per non dire quasi sempre – piatte e uniformi.

Ad uno stadio di pseudo normalità sono considerati i tanti cittadini stranieri più o meno inseriti nei circuiti produttivi, con nuclei familiari stabili, comunque sottoposti a forme diverse di sfruttamento. Esempi “di qualità” come atleti e calciatori, modelle e attori, sono eccezioni: la “normalità” è quella di un ceto operaio e popolare impoverito, formato da immigrati che lavorano con un contratto regolare o semi-regolare, spesso in bilico tra disoccupazione e precarietà, ma comunque percepiti come “integrati”.

La negazione sempre più diffusa del diritto alla protezione internazionale, la trafila fragile dei titoli di soggiorno, la privazione del diritto di voto, gli ostacoli opposti anche per l’ottenimento della cittadinanza, così come la lingua, il colore della pelle, la religione, i mille caratteri distintivi servono di fatto a rimarcare una distanza incolmabile: un “noi” rispetto a un “loro” che permea e spersonalizza gli “infiniti loro”, che getta le basi per la discriminazione, la stigmatizzazione, oltre che per rappresentazioni statiche e semplificate.

Questa platea di “altri” cosiddetti “integrati” per quanto maggioritaria, è rappresentata solo come una eccezione di quel fatto sociale totale che è l’immigrazione. Nel percepire comune, alimentato dal discorso pubblico dei mass-media e della politica, prevalgono l’ansia e il disagio rappresentati da minoranze che numericamente sarebbero insignificanti, ma che sono divenute l’alibi rabbioso dei fascismi vecchi e nuovi.

Esemplare al riguardo è il tema centrale di questa ultima campagna elettorale, la questione posta da Berlusconi d’intesa con Salvini: l’espulsione annunciata (ma irrealizzabile) di oltre 500.000 migranti irregolari presenti oggi in Italia, spesso dopo essere stati soccorsi sulla rotta libica. In molti casi ospiti di un sistema di accoglienza che non si è saputo o voluto rendere degno di un paese civile (basti pensare ai centri di Mineo e Crotone). In altri casi costretti alla condizione di senza fissa dimora, in perenne movimento tra le capitali dello sfruttamento, da Castelvolturno a Borgo Mezzanone, da Rosarno a Campobello di Mazara e a Vittoria in Sicilia.

9. In questi strati più bassi della gerarchia sociale, si trovano comportamenti ritenuti fastidiosi, e che sembrano dare corpo alla metafora sociale del degrado. Si tratta ad esempio dei ragazzi dall’aria spaurita che, tenuti fuori dai cosiddetti centri di accoglienza, passano le giornate girando per le strade e ingannando il tempo. Sono giovani, poveri e spesso il loro colore della pelle è stigma preventivo. “Stanno sempre in giro senza far nulla”, si dice: una condizione, peraltro spesso non voluta, che è letta come sintomo di pericolosità potenziale.

Ad un altro gradino, semplificando, si trovano coloro che hanno la povertà come carattere distintivo. Che osano turbare la quiete vendendo oggetti, insistentemente a volte, chiedendo una moneta, guardandoti in faccia con la speranza che in quella moneta si possa trovare mezza giornata di futuro. Che fanno mostra della loro povertà, nei cartoni in cui riposano, nelle panchine ancora non ferrate dalle ordinanze dei Sindaci, nei parchi rimasti incustoditi e negli stabili diroccati.

È per questa tipologia di migranti – gli ultimi degli ultimi – che si manifesta il fastidio e si invocano risposte istituzionali repressive, per cancellare l’immagine di una povertà diffusa ormai anche fra gli autoctoni.

Ad un girone ancora successivo, di un inferno chiamato presente, ci sono coloro che hanno fatto almeno temporaneamente “il salto” e diventano l’emblema del nemico contro cui scagliarsi. Persone che hanno scelto, più o meno consapevolmente, di rompere i codici normati di convivenza. Sono nel mercato perché spacciano, non mediano, offendono, aggrediscono, pretendono e a volte diventano anche predatori, in contesti in cui la violenza è unico codice comunicativo. Ci sono e fanno parte, da sempre, del tessuto sociale, quando non si redistribuiscono le eccedenze e la scala sociale è sempre più ripida e impervia. Ci sono e spesso sono confinati nei quartieri più abbandonati da politiche urbanistiche in mano a speculatori, privi dei servizi essenziali e in cui la distanza sociale  aumenta giorno dopo giorno, chilometro dopo chilometro, buca dopo buca.

Fino agli scontri del 7 gennaio 2010 l’ESAC, ex Opera Sila, ARSSA era lo stabilimento diventato la più grande baraccopoli per i lavoratori stagionali delle campagne tra Rosarno e Gioia Tauro. Questo “ruolo” era prima affidato alla Cartiera, andata però in fumo e poi murata nell’agosto del 2009. Le condizioni di vita degli abitanti erano pessime. Secondo Medici Senza Frontiere, che per anni hanno seguito i lavoratori stagionali in Calabria, gli africani arrivavano qui in buone condizioni di salute per poi ammalarsi qui cronicamente. 30 dicembre 2009 www.andreascarfo.com

Quest’ultimo girone diviene il centro del racconto, della percezione, dell’elaborazione, spesso della realtà, di chi in questi quartieri ci vive. Facili diventare nemici, facile essere considerati cause e non effetti di un modello di sviluppo privo di prospettiva. E facile presa hanno le parole d’ordine in cui l’odio si mescola alla ricerca spasmodica di un ordine mai esistito sotto la miseria, di una identità rassicurante e serena, sogno di una età dell’oro che non c’è mai stata ma a cui ci si aggrappa mentre il mondo ci crolla addosso. Facile infine – in assenza di una appartenenza che si chiami classe, ceto sociale, collocazione stabile – che si ricomponga una appartenenza reazionaria fondata sui “noi” e i “voi” separati da muri altissimi e insuperabili.

10. Si compiono sovente due errori speculari nel cercare di interpretare tali forme profonde, quasi antropologiche di disagio: ergersi a giudici e condannare come “razzismo” ogni risposta che non rientri nei codici culturali cui siamo abituati, oppure – ed è questa la strada che si imbocca più di frequente oggi – comprendere, sotterraneamente giustificare, chi urla contro “l’invasione degli stranieri”.

Quello che invece oggi servirebbe con urgenza è un agire e un pensare proiettato ad altra proposta di società. Agire nel mutualismo, nella ricostruzione di legami in cui ognuno possa essere ricompreso e incluso, rimettendo insieme quanto il liberismo individualista divide e separa. Servirebbero azioni concrete per dimostrare che di fronte alla fame, ad uno sfratto, all’assenza di un giaciglio, nessuno (autoctono o meno) deve essere lasciato da solo. Rompere la solitudine in cui si viene rinchiusi, l’infelicità da consumatori frustrati, l’insoddisfazione dei bisogni primari: sono queste le risposte praticabili al terrorismo mediatico, che a volte si trasforma in azione criminale ed eversiva.

La sfida politica del terzo millennio, in Europa forse, è tutta qui. Nella creazione di “un’altra umanità”, avrebbe detto Franco Fortini.

 

Il collettivo di ADIF

13 Febbraio 2018