Pisa, i lungarni dell’ingegner Bellini

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Ecco qui sotto due immagini, che riprendono quasi lo stesso punto dei bellissimi Lungarni di Pisa: quella a sinistra è stata scattata nell’ormai lontano 1868, mentre l’altra è recente (e infatti l’originale, tratta dal sito stilepisano, sarebbe a colori: ma, per rendere più facile il confronto, ho messo entrambe in bianco e nero). Osservate l’argine: oggi è un nastro uniforme in mattoni rossi; nella foto “antica” – quella a sinistra – si nota invece un andamento discontinuo, fatto di rientranze, archi, scali per le imbarcazioni, muraglie in pietra.

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L’idea di costruire un lungo muraglione di mattoni rossi nasce negli anni ’60 dell’Ottocento, per effetto di fenomeni che cambieranno in profondo la struttura – non solo urbanistica – della città.

Il primo fenomeno da evidenziare è quello delle ripetute piene dell’Arno. All’inizio degli anni ’60 la città è vittima infatti di drammatiche esondazioni, che devastano alcuni quartieri e fanno numerosi danni al già precario tessuto urbano del centro storico. Nel 1863, le acque invadono una parte degli attuali quartieri di Tramontana, in un evento che – dicono allora i pisani – rappresenta il peggiore nel suo genere in tutta la storia della città. L’anno dopo, nel 1864, le cose vanno ancora peggio: l’Arno tracima di nuovo, e fa ancora più danni. La sensazione è che ormai non si tratti più di fatti eccezionali, e che occorra intervenire in modo strutturale. Oggi sappiamo che le esondazioni non erano un capriccio della natura, ma l’effetto di un’opera capillare di arginamento delle acque a monte di Pisa: che provocava, a valle, conseguenze disastrose.

Il secondo fenomeno degno di rilievo riguarda il cambiamento nel ruolo dei tecnici, e in particolare degli ingegneri, nella progettazione della città. Nella prima Restaurazione, responsabili di strade, edifici, palazzi e quartieri erano due periti: quello per le “strade comunitative di campagna” (la cui nomina era soggetta all’approvazione di un organo granducale, la “Camera di soprintendentenza comunitativa”, a sua volta dipendente dal Ministero delle Finanze), e quello “delle fabbriche comunitative”, che si occupava specificamente della città. Si trattava di figure tecniche con scarsi poteri: soggetti a riconferma annuale, e perciò precari e poco autonomi, imbrigliati in una rete fittissima di controlli da parte di organi superiori (granducali), questi tecnici possedevano un misero diploma di Accademia, non erano veri e propri ingegneri e le loro competenze non erano riconosciute. Pian piano, questa situazione cambia, prima con la riforma del 1825, poi con quella del 1849 sui regolamenti comunitativi. Ad occuparsi delle questioni urbanistiche arrivano veri e propri ingegneri, direttamente nominati dalle magistrature locali e sempre più indipendenti dal potere centrale del Granducato. Nel 1849, tra l’altro, vengono soppresse le Camere di soprintendenza, e le loro funzioni passano alle Prefetture: che però dipendono dal Ministero dell’Interno e non da quello delle Finanze, e operano perciò un controllo di natura politica, lasciando ampia autonomia economica all’azione delle singole comunità (si tenga presente che, nel linguaggio amministrativo dell’epoca, per comunità si intende grosso modo ciò che oggi chiamiamo “Comune”, e comunitativo è sostanzialmente sinonimo di “comunale”).

Protagonista di questa nuova stagione è Pietro Bellini, nominato ingegnere comunale nel 1851, che rimarrà in carica fino alla sua morte, avvenuta nel 1866: Bellini non è più un semplice perito, ma un tecnico di alta qualificazione, ben consapevole del proprio ruolo, indipendente nelle sue scelte, autorevole e potente artefice delle trasformazioni urbanistiche del territorio. E proprio Bellini elabora, nel 1863, un progetto di riqualificazione complessiva dei Lungarni, che prevede, tra l’altro, il rialzamento dei muri di sponda, la rettifica del corso del fiume in alcuni punti e, appunto, la costruzione del nastro uniforme di mattoni rossi lungo l’argine.

Nelle pieghe di questo progetto si nasconde il terzo fenomeno degno di nota: la trasformazione del rapporto tra la città e il suo fiume. Per tutto l’Ottocento si erano susseguiti una serie di lavori volti per lo più ad ampliare il tratto stradale del Lungarno. Alcuni scali dei navicelli erano stati a questo fine soppressi, e gran parte delle discussioni riguardavano le strade attigue al fiume, la viabilità dei Lungarni di Mezzogiorno, i ponti di attraversamento: in altre parole, si discuteva sempre meno del corso d’acqua, e sempre più della porzione di città che vi gravitava attorno. L’Arno cominciava ad essere percepito non come luogo di commerci, scambi e attività economiche, ma come elemento estetico, come parte di un paesaggio urbano di straordinaria (e rara) bellezza. Il lungo fiume diventa dunque un “magnifico teatro”, ad uso di turisti e abitanti: non più funzionale all’economia della città, ma alla “vista teatrale” di chi lo osserva dall’esterno (e dall’alto). In questo quadro, navicelli, scali, punti di attracco o porticcioli non rappresentano più un naturale utilizzo del fiume: e possono diventare, all’occorrenza, un ingombro da eliminare.

Il progetto di Bellini rappresenta per molti aspetti un punto di intersezione tra due diverse concezioni del rapporto tra Pisa e il suo corso d’acqua, entrambe emerse in questo scorcio di XIX secolo: da un lato, l’Arno rappresenta una crescente minaccia, in ragione delle piene ormai sempre più frequenti; dall’altra, il fiume è anche uno dei simboli della bellezza della città, da preservare e custodire. Ed è attorno a questi due poli che si può leggere il dibattito cittadino di questo periodo: se, infatti, il progetto Bellini risponde prevalentemente ad esigenze di carattere funzionale – mettere in sicurezza il centro storico -, non mancano voci che rivendicano la necessità di tutela del paesaggio e della sua bellezza. Cosa diventerebbe la “vista magnifica” del Lungarno, se venisse deturpata in nome della pur necessaria difesa della città? Se lo chiede per esempio Francesco Perry, che propone come alternativa la costruzione di un “fosso scaricatore” (oggi si direbbe un canale scolmatore) nei dintorni di Pontedera.

Un’idea, quest’ultima, solitaria e inascolata: spinto dall’urgenza delle ripetute esondazioni, e anche dal potere del suo ingegnere, il Comune approva nel 1865 il progetto Bellini. I lavori cominciano, ma l’anno dopo Bellini muore: nel frattempo, dopo l’alluvione del ’64 l’Arno sembra concedere una tregua alla città, e l’ambizioso programma torna a giacere nei cassetti degli uffici comunali. Anche perchè, nel frattempo, accade un evento storico: il 16 Agosto 1859 l’Assemblea Toscana dichiara l’annessione del Granducato al Regno d’Italia…

Il brusco risveglio arriva pochi mesi dopo quell’evento, il 10 Dicembre 1869: il fiume si fa sentire ancora, tracima a Mezzogiorno nel tratto tra Ponte di Mezzo e Ponte della Fortezza, lasciando sul campo numerosi feriti e persino qualche morto. Il progetto Bellini viene frettolosamente “riesumato” dal Comune, che emette un prestito di 5 milioni per finanziarlo: scomparso Bellini, i lavori vengono affidati all’ingegner Ranieri Simonelli, cui non a caso è stato intitolato un tratto dei nostri lungarni.

Così, nel 1870, la sponda dell’Arno diventa quel che è ancora oggi: un lungo muraglione di mattoni, in cui viene cancellata ogni traccia delle antiche funzioni portuali del fiume.

Riferimenti bibliografici:
– Lucia Nuti, Pisa, progetto e città 1814/1865, Pacini ed., Pisa 1986
– Emilio Tolaini, Pisa, la città e la storia, Edizioni ETS, Pisa 2007
Le foto sono tratte dal sito Stilepisano