Nashville, tra musica e business

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

Nashville, capitale del Tennessee, è anche la patria del country: qui hanno sede le case discografiche e le stazioni radio, e qui si esibiscono i principali artisti. Nel corso del Novecento, la città ha svolto un ruolo di primo piano nella diffusione della musica popolare: con tutte le ambiguità di un luogo che è patria della musica, ma anche di un business provinciale e conservatore.

E’ il 5 Ottobre 1925, quando ai microfoni della WSM – una radio locale di Nashville – si presenta un arzillo ottantenne, musicista rurale della zona degli Appalachi: un certo Jimmy Thompson, detto Uncle Jimmy («lo zio Jimmy»), suonatore di fiddle (il fiddle è il violino popolare dei musicisti country). Uncle Jimmy conduce una nuova trasmissione radiofonica, Radio Barn Dance, che tradotto in italiano significa più o meno «ballo del granaio via radio»: in pratica, si tratta dell’esibizione dal vivo, via etere, di gruppi provenienti dalle montagne, che suonano musica tradizionale («del granaio», appunto…).

Non si tratta di una formula nuova. Da qualche tempo un’altra stazione radiofonica, la WLS di Chicago, sta trasmettendo settimanalmente il National Barn Dance, una trasmissione simile a quella di Nashville, che ha già riscosso un imponente successo di pubblico: vi si esibiscono musicisti di talento, molto conosciuti in questo periodo [cfr. M De Simone, La musica country, Castelvecchi, Roma 1997, pagg. 114-115; scheda sul Radio Barn Dance in DeFord Bailey – sings Lost John using a Banjo, youtube]. Qui sotto, per esempio, potete ascoltare Barbara Allen di Bradley Kincaid:

Torniamo a Nashville, e alla trasmissione «del granaio» della WSM. Trasmesso ogni Sabato sera, il programma ottiene subito un ottimo successo di pubblico. Anche perchè a condurlo, oltre ad Uncle Jimmy, viene chiamato nientemeno che George D. Hay, il presentatore del National Barn Dance di Chicago, conosciutissimo in tutto il Sud degli Stati Uniti con il soprannome di Judge Hay [«il giudice Hay»]. Il 10 Dicembre 1927, appena due anni dopo l’avvio, il programma assume il nome di Grand Ole Opry. Nasce così una delle principali istituzioni del country: trasmessa ininterrottamente fino ad oggi, la Opry diventerà infatti il «tempio» di questo genere musicale, dove si alterneranno tutti i più noti autori, cantanti ed esecutori della storia. Allora come oggi, andare alla Opry costituisce uno degli obiettivi più ambiti di ogni musicista country.

Roy Acuff e l’epoca della commercializzazione

Nel 1938, alla Opry si esibisce per la prima volta un autore destinato a fare epoca: Roy Acuff. Suonatore di fiddle e musicista eclettico, Acuff diventa presto un abitueé della trasmissione, per la quale stipula un contratto già dal 1940: il suo rifacimento di Wabash Cannonball una canzone tradizionale registrata per la prima volta da Alvin Pleasant Carter – diventa una delle sigle di avvio della Opry, e uno dei pezzi più conosciuti del repertorio country. Eccola:

(per ascoltare altri pezzi di Roy Acuff clicca qui oppure qui)

Nel 1942, Roy Acuff fonda, assieme a Fred Rose, la prima casa discografica di Nashville, chiamata Acuff-Rose, che finisce per essere una delle principali agenzie di «ricerca di talenti» di tutto il Sud degli Stati Uniti. Tre anni dopo, nel 1945, nasce il primo studio di registrazione, su iniziativa di due tecnici della WSM. Il successo della Opry, insomma, sta cominciando a creare un vero e proprio «indotto» commerciale [cfr. M. De Simone, cit., pagg. 142-144]. E Nashville sta diventando la patria della country music: in pochi anni la città si riempe di negozi, studi di registrazione, case discografiche, talent-scouts, musicisti, editori, un mondo complesso e variopinto che ruota attorno alla musica popolare, ormai largamente commercializzata. E proprio il processo di commercializzazione della musica a Nashville produce conseguenze di straordinaria importanza, che meritano di essere segnalate brevemente.

Il Nashville Sound

Cambia, in primo luogo, il modo stesso di fare musica. Se, all’epoca delle trasmissioni radiofoniche «da granaio», i musicisti erano gli autori delle stesse canzoni che eseguivano alla radio, ora tutto il processo di composizione viene – per cosi dire – «industrializzato». La necessità di sfornare dischi a getto continuo, inseguendo le esigenze di un mercato in espansione, spinge le case discografiche a creare una nuova figura professionale: quella del compositore «seriale» di pezzi sempre più simili gli uni agli altri, consegnati a musicisti che si limitano ad eseguirli alla radio o ad inciderli. Nasce, in questo modo, una musica sempre più appiattita sulle esigenze del mercato, e per questo sempre più uguale a se stessa [cfr. M. De Simone, cit., pag. 147].

Cambia, inoltre, il sound del country. Le musiche «tradizionali» di origine rurale, eseguite dalle string-bands del Sud Est (le string-bands sono gruppi costituiti esclusivamente da strumenti a corda, in genere chitarra-fiddle-banjo), lasciano il posto a suoni più «orecchiabili» (per l’epoca), mutuati dalle orchestre jazz e dalle canzoni «pop» di questo periodo [cfr. M. De Simone, cit., pag. 148]. Un esempio è Bouquet of Roses di Eddie Arnold:

In quello che è stato definito il «decennio d’oro» del country – e dunque nel periodo che va dalla metà degli anni ’40 alla metà dei ’50 – si va insomma definendo un nuovo modo di fare musica, che sarà poi universalmente conosciuto come «Nashville Sound».

Country, un nome nuovo per una musica (quasi) nuova

In questo contesto, nasce persino la definizione di country music. In precedenza, infatti, i balli rurali e le canzoni «da granaio» erano comunemente definite hillbilly: un termine dispregiativo, rivolto contro gli abitanti delle montagne, che deriva da hill (collina) e billy-goat (una specie di capre diffuse nella regione appalachiana), e che potrebbe essere perciò tradotto – grosso modo – come «caproni da collina» [cfr. M. De Simone, cit., pag. 12]. L’avvento del Nashville Sound, la volontà di «nobilitare» la nuova musica, l’ibridazione con altri generi (in particolare con i suoni delle orchestre swing), l’impiego cinematografico delle canzoni nei film dei cowboy, spinge le case discografiche a coniare la nuova espressione di «country & western», poi abbreviata in «country». Un termine – quello di «country & western» – quanto mai improprio: sia perchè «western» significa letteralmente «dell’Ovest», e la musica «tradizionale» ha origine dalla regioni orientali degli Stati Uniti, sia perchè – storicamente – le prime canzoni popolari registrate a Nashville non avevano alcuna relazione con il mondo dei cowboy (sembra strano, ma è proprio così: avrò occasione di tornare su questo punto nel mio blog).

Il rock’n roll e la crisi

La standardizzazione del country, prodotta dalle istituzioni di riproduzione della musica (case discografiche, radio, ecc.), impedisce di valorizzare le novità prodotte dagli stessi musicisti cresciuti a Nashville. Alla fine degli Anni Quaranta nella capitale del Tennessee viene importato il boogie, un blues per pianoforte, molto veloce e ritmato, nato originariamente nelle taverne e nelle sale da ballo frequentate da neri: alcuni autori cominciano ad utilizzare sonorità tratte dal boogie, «fondendole» con i pezzi country & western. Nasce in questo modo un nuovo genere, di volta in volta definito come «rockabilly», «country-boogie» o «hillbilly-boogie».

A Nashville – ormai divenuta patria della musica conservatrice – è d’obbligo mantenere, sul palco e al microfono, una certa compostezza, cosa che mal si concilia con il ritmo serrato delle sonorità boogie. Così, quando nella non lontana Memphis un promettente giovanotto dalle radici country – tale Elvis Presley… – «sforna» una nuova musica, che mette insieme le sonorità country, i ritmi neri del blues, le chitarre elettriche, il boogie e – soprattutto – una prorompente energia giovanile, nessuno mette in relazione il nuovo genere con il country-boogie che ne era il legittimo precursore. La nuova musica, infatti, prende il nome di rock’n roll, e percorre strade del tutto autonome dal country standardizzato di Nashville [cfr. M. De Simone, cit., pagg. 152-153].

L’avvento del rock, anzi, produce una crisi profondissima del country e della sua storica «capitale». Alla fine degli anni ’50, Nashville cerca di adeguarsi al nuovo clima, valorizzando i musicisti che utilizzano strumenti elettrici e che tentano un’integrazione tra i due generi musicali. Si rispolvera il termine rockabilly, ad indicare stavolta la fusion tra country e rock, e si promuovono gruppi come gli Everly Brothers, veri e propri «ibridi» tra country e rock. Eccoli in Bye Bye Love, un pezzo di successo di questo periodo:

Le evoluzioni del Nashville Sound

Superata la crisi del rock’n roll, Nashville acquisisce a partire dagli anni Sessanta la sua «nicchia di mercato», tornando ad essere la capitale della musica conservatrice (legata, tra l’altro, agli ambienti repubblicani della destra americana). Le case discografiche ridefiniscono il «Nashville Sound», che ora perde del tutto le sonorità vagamente swing – quelle, per intenderci, della canzone Bouquet of Roses che abbiamo ascoltato prima – e si trasforma in un mix tra rock, melodia da canzonetta e musica pop di facile consumo, con qualche «innesto» di sonorità tradizionali [cfr. M. De Simone, cit., pagg. 157 e ss.].

Nashville si trasforma insomma in quello che è rimasta tuttora. Da un lato, il «tempio» del country, punto di approdo obbligato per chiunque voglia riscoprire le musiche popolari (e da cui, infatti, sono passati personaggi come Bob Dylan o Joan Baez). Dall’altro lato, però, la capitale di una vera e propria ortodossia conservatrice – culturale, politica e musicale -, ostile al cambiamento e anche al ripensamento critico del passato. Non è un caso, da quest’ultimo punto di vista, che molti fenomeni innovativi abbiano attraversato Nashville senza fermarvisi, mantenendo spesso un rapporto conflittuale con Music City. Ne sono un esempio personaggi come Johnny Cash – che abbandona la Opry proprio negli anni Sessanta -, o correnti musicali come il country-rock (che cercherà punti di riferimento alternativi in Texas o in California).

Oggi, questa ambiguità strutturale si rispecchia nelle produzioni recenti di Nashville. La capitale del country ha «sfornato» pezzi sostanzialmente «pop» come Don’t be Stupid della canadese Shania Twain, che per motivi misteriosi è l’unica cantante country ad avere un fan club italiano

… ma anche una come Alison Krauss, cantante di straordinario talento, interprete di un nuovo intreccio tra sonorità country e tradizione bluegrass. Qui sotto potete ascoltare Every Time you say goodbye, eseguita con gli Union Station: