Milano, delitto di cronaca

Originariamente pubblicato sul blog personale di Sergio Bontempelli

In seguito all’omicidio di un ragazzo di colore, si è scatenato un battage mediatico senza capo nè coda: una vera e propria cortina fumogena di dichiarazioni e polemiche che, invece di far luce sull’episodio, hanno finito per occultarlo del tutto. Ecco una piccola cronaca di una giornata tutta da riscrivere.

In Italia, se un immigrato si rende colpevole di omicidio, tutto è chiaro: si scatenano i giornali e le televisioni, si grida all’emergenza immigrazione, si invocano espulsioni e rimpatri, ci si lamenta delle frontiere spalancate, si chiede l’intervento di chiunque, dalle forze armate alla NATO. Tutto torna, tutto è facile da raccontare, da capire, da scrivere. Ma quando avviene il contrario, quando è un italiano ad uccidere un immigrato (o presunto tale), l’informazione e la politica vanno in tilt: e così è successo ieri.

I fatti, nella loro brutalità, sarebbero semplici. Siamo a Milano, zona Porta Romana, in un bar che si chiama Shining [!!]. Ci sono tre ragazzi molto giovani, tutti di colore: uno è straniero ruandese, gli altri due sono cittadini italiani. I ragazzi escono dal bar in fretta, e i proprietari pensano di essere stati derubati di un pacco di biscotti. I gestori del locale, furiosi, rincorrono i ragazzi, li raggiungono e si accaniscono contro uno di loro, Abdul Salam Guibre, cittadino italiano originario del Burkina Faso: lo colpiscono con una spranga e lo uccidono, urlandogli «ladro, negro di merda», «sporco negro, ti ammazziamo».

Questo è quello che è successo: ma ai giornali e al mondo della politica i semplici fatti non bastano. Soprattutto quando smentiscono lo stereotipo del «negro» cattivo e del «bianco» buono. E allora bisogna ricamarci sopra, gironzolarci un po’ intorno, sollevare cortine fumogene per confondere le acque.

I giornali si danno da fare. A metà mattinata esce un lancio di agenzia – ripreso dai principali siti di informazione, dal Corriere a Repubblica – che comincia il resoconto dei fatti in questo modo: «Abdul era con altri due amici di colore, Samir R., 19 anni di Reggio Calabria, e John K., 21enne del Ruanda con permesso di soggiorno scaduto». Non si capisce bene quale rilevanza abbia la data di scadenza del documento, in una cronaca che parla di omicidio. La cosa puzza di insinuazione di basso livello: ma per fortuna passa inosservata, sommersa com’è dal fuoco di artificio delle dichiarazioni dei politici.

Questi ultimi si azzuffano accusandosi a vicenda della responsabilità morale del delitto. Veltroni se la prende con la Lega e con il clima di odio contro il diverso agitato dai padani: e lo dice lui, che il 31 Ottobre scorso – all’indomani dello stupro di Giovanna Reggiani – aveva luminosamente pontificato sull’«unica matrice rumena» delle violenze sessuali.

Il Presidente PD della Provincia di Milano, forse preoccupato di tanta apertura, corregge il tiro e commenta l’omicidio invitando a «non sottovalutare i dati del Ministero degli Interni, secondo cui la maggior parte dei reati sono commessi da immigrati clandestini». Cosa c’entrino gli immigrati clandestini con un delitto commesso da un italiano contro un altro italiano lo sa solo lui. Poi, però, anche Penati se la prende con il nuovo Governo: «quando tutto il problema sicurezza si riconduce solo ai rom», spiega, «passa il messaggio che il problema è quello del contrasto con chi è di un’altra nazione o di un’altra cultura. Ma non è colpendo il diverso che si conquista sicurezza». Peccato che proprio Penati, su La Repubblica del 14 Maggio scorso, avesse proposto di «azzerare i campi nomadi nel milanese», schierandosi apertamente a favore del decreto sicurezza varato da Berlusconi.

Intanto la Procura annuncia di non aver contestato agli assassini l’aggravante di odio razziale. A quanto pare, i due gestori del locale avrebbero agito «solo» per i biscotti, non per xenofobia. Il Governo coglie l’occasione per levarsi d’impiccio, e Berlusconi dichiara: «ho parlato con i responsabili del Ministero dell’Interno, e mi hanno espresso il loro convincimento che non c’entri niente il razzismo, il colore della pelle». In realtà, il razzismo non è stato il movente dell’aggressione: ma il ragazzo è stato ucciso al grido di «sporco negro», che a casa mia è una frase razzista.

La Lega Nord, offesa per essere stata chiamata in causa quasi come mandante morale del delitto, si risente e rovescia l’accusa sull’avversario: i veri razzisti sono quelli della sinistra, tuona Paolo Grimoldi, coordinatore dei Giovani Padani. Che spiega: «La sinistra dovrebbe interrogarsi sul perché si verificano casi di razzismo. Allora capirebbe che non porre un freno all’immigrazione non ha fatto altro che aumentare i rischi». Insomma, per arginare il razzismo bisogna allontanare gli immigrati: che è un po’ un modo gentile per dire «non siamo noi i razzisti, sono loro che son negri»…

Con il passare delle ore, la vicenda specifica – e tragica – del delitto è trascolorata in una polemica tanto veemente quanto priva di senso. Ai giornali e agli uomini politici piace molto trarre conclusioni generali da singoli fatti di cronaca: così, se l’omicidio di Giovanna Reggiani era colpa dei rumeni (di tutti i rumeni), e se le accuse – tutte da dimostrare – di una signora a Ponticelli insegnavano che gli zingari rubano i bambini, oggi si può disinvoltamente dire che l’uccisione di un ragazzo di colore fuori da un bar è tutta colpa della Lega che è razzista, o della sinistra che fa entrare gli immigrati.

Le generalizzazioni richiedono cautela e un qualche rigore metodologico: sennò non aiutano a capire, e sollevano solo nubi di polvere. Il fatto di Milano ha una propria dinamica, che andrebbe analizzata nella sua specificità e singolarità. Poi, certo, è legittimo e utile individuare nessi, legami, contesti: ma questi non chiamano in causa una singola forza politica, un unico responsabile o un solo mandante morale.

In Italia si è assistito ad una escalation progressiva di criminalizzazione di immigrati, Rom, venditori ambulanti «abusivi», «clandestini» e quant’altro: e queste figure sono state additate – dal sistema politico e dalla stampa, con pochissime eccezioni – come bersagli fragili e inermi, su cui scaricare la rabbia collettiva. Gli assassini di Milano avevano i loro motivi per fare quello che hanno fatto: ma, forse, hanno sentito – anche – di poter esercitare liberamente violenza su un nemico «facile», privo di protezione. Quante volte giornali e televisioni hanno di fatto assolto commercianti che uccidevano ladri in fuga dai loro negozi? Quante volte la furia della sicurezza ha legittimato reazioni sproporzionate contro Rom o immigrati, magari colpevoli di piccoli reati?

Qui si potrebbe – con la dovuta cautela, e avendo sempre cura di guardare al fatto specifico, alla sua irriducibilità – tentare qualche generalizzazione. E non per prendersela con la Lega, ma con un sistema dell’informazione e della politica avvelenato nel suo complesso.

Sergio Bontempelli

15 Settembre 2008