Migranti: cosa sono i CPR, e perché vanno chiusi per sempre

Articolo pubblicato in «La Città Invisibile», periodico online a cura di «perUnaltracittà, laboratorio politico di Firenze», n. 193, 21 Aprile 2023

 

 

E dunque ci risiamo. Dopo anni nei quali il tema sembrava caduto nel dimenticatoio, si torna a parlare di un Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) da aprire anche in Toscana. A dire il vero, la questione aveva già fatto capolino nel Dicembre scorso, quando il Prefetto di Firenze aveva dichiarato che la presenza di un CPR avrebbe garantito una più efficace lotta alle attività criminali. Il Sindaco Nardella, dal canto suo, aveva affermato che senza un CPR si rischiava nientemeno che «di contrastare l’oceano della criminalità con un secchiello» (!), e anche il Presidente della Regione Eugenio Giani si era detto favorevole.

Negli ultimi giorni il tema è salito nuovamente alla ribalta delle cronache, ma le posizioni in campo sono cambiate: mentre la destra continua a chiedere a gran voce la costruzione dei CPR, il segretario regionale del PD, Emiliano Fossi, non li vuole né in Toscana né altrove (ma la mozione depositata dal PD in Consiglio Regionale è un po’ meno perentoria). Tra gli amministratori si assiste a qualche ripensamento. Giani, per esempio, ha fatto un passo indietro rispetto alle posizioni di Dicembre: ha spiegato che i CPR «per come li abbiamo conosciuti finora» non vanno bene, e ha tirato fuori dal cilindro l’idea un po’ bislacca di un centro per il rimpatrio «più vicino al concetto di un centro di accoglienza»«dotato di caratteristiche di assistenza sociale».

Intendiamoci: è senz’altro positivo il fatto che si moltiplichino le voci contrarie alla costruzione di un CPR, pur nell’inevitabile differenza di accenti, di sensibilità e di approcci. E tuttavia, si ha la sensazione che le massime autorità politico-amministrative della nostra Regione non sappiano di cosa stanno parlando. Cosa c’entrano i CPR con la criminalità? E come può un luogo detentivo trasformarsi magicamente in un «centro di accoglienza», per di più dedito a funzioni di «assistenza sociale»? Forse è il caso di riavvolgere il nastro, e di spiegare una volta per tutte cosa sono, e soprattutto cosa non sono, i Centri per il Rimpatrio.

Con i CPR non si contrasta la criminalità

Come si accennava qui sopra, i CPR non hanno nulla a che vedere con il contrasto alla criminalità. Questa non è un’affermazione ideologica, né tantomeno una forma di «buonismo», come si usa dire con un termine denigratorio e offensivo (che peraltro rimanda alla retorica del ventennio fascista). Stiamo parlando di un semplice, banalissimo dato di fatto: i CPR non sono stati pensati per rinchiudere i criminali. Hanno altri scopi e altre funzioni. Tutto qui.

La legge (decreto legislativo 286/98, art. 14) dice chiaramente che nei «Centri» finiscono non gli stranieri che hanno commesso furti, rapine o aggressioni, ma quelli che si trovano in Italia senza un permesso di soggiorno, e che per questo devono essere allontanati dal territorio nazionale. Neppure il cosiddetto «reato di immigrazione clandestina», introdotto dal governo Berlusconi nel 2009, viene punito con la reclusione nei CPR: la norma prevede una «semplice» (si fa per dire) sanzione pecuniaria di alcune migliaia di euro.

L’irregolarità, a sua volta, non ha nulla a che fare con la criminalità: molti stranieri diventano irregolari per banali motivi burocratici, ad esempio perché hanno perso il lavoro (la legge Bossi-Fini lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro), o perché si sono visti rifiutare la domanda di asilo, o – ancora – perché sono arrivati in Italia con un visto turistico, che (sempre secondo la Bossi-Fini) non può essere trasformato in un permesso per insediamento stabile.

Per capirci: può essere irregolare – e dunque può finire in un CPR – la signora georgiana che accudisce un pensionato, il bracciante nigeriano che lavora nei campi, il cameriere bengalese o pakistano impiegato in un ristorante del centro storico, il manovale albanese in un cantiere edile, e così via. All’inverso, uno straniero regolare che commette un reato subirà un processo e una condanna, ma non verrà internato in un CPR, appunto perché è regolare.

Perché si finisce in un CPR

Vediamo allora nel dettaglio perché si finisce in un CPR. Come abbiamo visto, gli stranieri irregolari devono essere allontanati dall’Italia: ma eseguire un’espulsione non è una faccenda semplice. Ci sono anzitutto problemi logistici: per «accompagnare l’immigrato alla frontiera» – come recita la formulazione un po’ orwelliana della legge – servono uno o più mezzi di trasporto (aerei, autobus ecc.), e una squadra di agenti di polizia addetti alla scorta. Spesso per risolvere queste banalissime questioni pratiche servono alcuni giorni, durante i quali lo straniero potrebbe darsi alla fuga.

Un altro problema è quello che tecnicamente si chiama «riammissione»: espellere un migrante significa rinviarlo al suo Paese di origine, ma le autorità di quel Paese devono essere disponibili a «riprendersi» il loro cittadino (a «riammetterlo», appunto). E proprio qui nascono le difficoltà: come sappiamo dalla lunga storia dell’emigrazione italiana, nelle regioni più povere del pianeta gli emigranti sono una risorsa economica preziosa – perché mandano i soldi alle loro famiglie – e le espulsioni sono percepite come un sopruso e un’ingiustizia. Per le autorità dei Paesi di origine, dunque, agevolare il rimpatrio degli emigranti significa inimicarsi le proprie opinioni pubbliche interne (abbiamo visto, ad esempio, quale ruolo abbia giocato questo tema nella rivoluzione tunisina del 2011).

Il rifiuto di collaborare alle riammissioni viene giustificato adducendo difficoltà tecniche legate all’identificazione: i migranti irregolari spesso non hanno passaporti né documenti, e gli Stati non possono riprenderseli se non sanno neppure chi sono. Così, quando la polizia italiana deve eseguire un rimpatrio, le trattative con l’Ambasciata e con le autorità del Paese di provenienza possono prolungarsi per giorni, a volte anche per settimane, e lo straniero ha tutto l’interesse a dileguarsi. Per farla breve: c’è sempre un fisiologico lasso di tempo che intercorre tra la decisione di espellere un immigrato e l’effettiva esecuzione del rimpatrio. In questo lasso di tempo lo straniero potrebbe darsi alla fuga: ed è per questo – solo per questo, e non certo per «contrastare la criminalità» – che i Paesi di immigrazione hanno creato luoghi detentivi, che in Italia si chiamano CPR.

La violazione dei diritti umani nei CPR: un fatto strutturale

E qui si apre un altro nodo problematico: quello relativo all’anomalo status giuridico di questi Centri. Si tratta di luoghi di detenzione a tutti gli effetti, in cui però sono rinchiuse persone che non hanno commesso alcun reato. Esterni al normale circuito penitenziario, i CPR non sono sottoposti ai controlli che l’autorità giudiziaria esercita normalmente nelle carceri. La loro gestione è affidata interamente alla polizia e al Ministero dell’Interno, senza quel delicato sistema di contrappesi e di garanzie che in uno Stato di diritto è chiamato a controbilanciare la forza repressiva delle istituzioni di ordine pubblico. I CPR non sono «lager» nazisti, come a volte si è scritto: sono però campi di prigionia in tempo di pace, un fatto anomalo per un ordinamento liberale e democratico. Non c’è da stupirsi che in strutture di questo tipo si verifichino violazioni anche molto gravi della dignità dei detenuti.

Da decenni ormai si moltiplicano le denunce sui soprusi e le violenze all’interno dei «Centri»: e queste denunce sono così costanti da risultare quasi monotone. Solo per citare i lavori degli ultimi anni, ricordiamo il dossier del gruppo di ricerca «Border Criminologies» dell’Università di Oxford (2020), il Rapporto «Buchi Neri. La detenzione senza reato nei CPR» curato dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili (2021), il volume «Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati nei Cpr d’Italia» della campagna LasciateCIEntrare (2022), nonché la Relazione annuale al Parlamento del Garante Nazionale delle Persone Private della Libertà Personale (2022). Questi rapporti parlano chiaro: le condizioni di vita all’interno dei centri di detenzione sono indegne di uno Stato democratico. Mancano servizi di base come il riscaldamento, le docce, le medicine, la carta igienica. Vi si consumano soprusi e violenze. In molti CPR l’assistenza sanitaria è inadeguata o addirittura inesistente, e si registrano casi (purtroppo molto frequenti) di suicidio e di autolesionismo.

Queste violazioni dei diritti umani non sono uno sgradevole «effetto collaterale» da correggere e rettificare: sono parte integrante del «modo di essere» dei CPR. È difficile pensare di «umanizzare» luoghi che per loro natura sono opachi, affidati alla gestione esclusiva delle autorità di polizia ed estranei al circuito penitenziario e penale.

Il rapporto costi/benefici

I più cinici ritengono però che le violazioni dei diritti umani siano il prezzo da pagare per garantire almeno l’efficacia dei meccanismi di rimpatrio: «Più CPR quindi più espulsioni», scriveva Matteo Salvini su Twitter un mese fa. Ma ancora una volta le cose non stanno così: alla prova dei fatti, i Centri per il Rimpatrio si rivelano strutture costose, elefantiache e per di più inutili rispetto agli scopi dichiarati.

I dati parlano chiaro. Per mantenere queste strutture lo Stato spende 100 euro al giorno a persona, l’equivalente del costo necessario per ospitare un anziano in una RSA [cfr. Rapporto CILD, Buchi neri. La detenzione senza reato nei CPR, 2021, pag. 44]. A fronte di cifre così rilevanti, gli stranieri effettivamente rimpatriati sono circa la metà di quelli detenuti. In altre parole, si sprecano ingenti risorse pubbliche, si infliggono sofferenze a persone che non hanno commesso reati, e per di più non si riesce neppure ad allontanarle dall’Italia: al danno inflitto allo stato di diritto e alle garanzie costituzionali si aggiunge la beffa dell’inefficacia complessiva del sistema.

Abbiamo insomma a che fare con strutture opache, costose e del tutto inutili. L’unica «soluzione» è chiuderle, in Toscana e ovunque.

Sergio Bontempelli