L’accoglienza ai tempi del Coronavirus

Originariamente pubblicato su Fuorivista, periodico del Naga, n. 11, Marzo 2020

Sergio Bontempelli: operatore legale ed esperto di questioni legate allo status giuridico dei cittadini stranieri, coordina lo sportello dell’Associazione Africa Insieme a Pisa.

Come influisce questa nuova emergenza sul già penalizzato sistema dell’accoglienza? Ti aspetti che verranno immessi elementi peggiorativi destinati a permanere anche quando l’emergenza sarà passata? Quanto e come incide il problema del coronavirus sull’erogazione dei servizi più in generale disponibili per i migranti?

Per il momento ho informazioni solo sulla Toscana, quindi il mio osservatorio è molto limitato. Da quel che posso vedere, la situazione è tutt’altro che buona, per vari motivi.
In primo luogo, non si è adeguato il sistema di accoglienza alle esigenze di profilassi imposte dall’emergenza coronavirus: ad esempio, vi sono ancora diversi centri che ospitano decine di migranti, in condizioni di sovraffollamento che erano già indegne in condizioni «normali», e che diventano assolutamente inaccettabili in presenza di una pandemia.
In secondo luogo, in alcune province sta entrando proprio ora in vigore il capitolato Salvini, quello che limita i servizi erogati nei centri: il che significa, solo per fare un piccolo esempio, che in molti centri verrà tolta la connessione wi-fi, proprio nel momento in cui a tutti gli ospiti viene chiesto di restare chiusi a casa. Il rischio è che, in questa situazione, si alimenti la conflittualità e la legittima rabbia delle persone accolte, come è successo nelle carceri.
Infine, in molti centri gli operatori sono sprovvisti di mascherine e di dispositivi di sicurezza. Nel sistema di accoglienza, il lavoro degli operatori è sempre più squalificato e degradato, e la situazione del coronavirus sta facendo venire al pettine tutti i nodi.
Al momento, credo sia difficile capire come questa emergenza sanitaria potrà influire sulla vita quotidiana e sulle routine di lavoro del sistema di accoglienza. Credo che come associazioni e società civile dobbiamo vigilare affinché questo mondo – il mondo dei richiedenti asilo, dei migranti, ma anche degli operatori e degli addetti – non venga dimenticato e lasciato a se stesso.

Quanto e come la diffusione del virus sta incancrenendo ulteriormente le relazioni sociali soprattutto per quanto riguarda la tematica del razzismo? Quanto questa emergenza sta mettendo spietatamente a nudo alcune caratteristiche della cultura generale del nostro paese e non solo, quali la mancanza di solidarietà, la mancanza di attenzione verso l’altro e la paura dello straniero?

Abbiamo visto, soprattutto nelle prime fasi di diffusione della pandemia, una recrudescenza di atteggiamenti razzisti, soprattutto verso i cittadini cinesi.
Al tempo stesso, però, la situazione assolutamente inedita che stiamo vivendo sta mettendo in crisi molte certezze consolidate. I cinesi, come dicevo, sono stati percepiti come gli «untori» del coronavirus: eppure, l’epidemia in Italia non è partita né da Prato né dalla zona di Via Sarpi a Milano; negli insediamenti storici dell’immigrazione cinese, al contrario, il contagio è stato relativamente contenuto.
Gli altri classici «untori» dell’immaginario collettivo – i richiedenti asilo che arrivano dalla sponda Sud del Mediterraneo – non hanno avuto finora alcun ruolo nella diffusione della malattia.
Il virus, come ha scritto in questi giorni Ascanio Celestini, «ha viaggiato in business class, è passato da un corpo all’altro durante le riunioni dei manager (…), ha fatto il giro del mondo senza passaporto, ignorando le differenze di classe e di genere». E qua e là sta cominciando a emergere il fatto che, per combattere le pandemie, servono sistemi sanitari pubblici e inclusivi: non serve invece la caccia all’untore, al povero, allo straniero privo di mezzi.
Certo, affinché queste evidenze si consolidino nell’immaginario collettivo non basta l’emergenza coronavirus: è necessario anche cambiare la cornice (il «frame», come dicono gli psicologi cognitivi), cioè il modo in cui gli eventi vengono contestualizzati, percepiti, pensati e narrati. Per questo è importante che gli attori della società civile – ad esempio il «nostro» mondo, il mondo delle associazioni e degli attivisti – si mobilitino e prendano parola, e mettano in campo una sistematica opera di «reframing», di rimessa in discussione delle percezioni collettive consolidate.
Serve cioè una voce critica, attiva nello spazio pubblico, che parli di accesso universale ai servizi (in particolare al servizio sanitario), di diritti civili e sociali, di uguaglianza e di non discriminazione. La vicenda coronavirus deve servire come campanello d’allarme, come esempio per far capire l’importanza di tutte queste cose.

Gli stati europei brillano per il loro silenzio sia per quanto riguarda il virus sia per ciò che concerne la gestione del flusso migratorio, che ha sviluppato un nuovo picco emergenziale al confine tra Grecia e Turchia. Cosa dovrebbe pretendere dall’organismo di governo continentale il consistente (e internazionale) corpo sociale che in quasi tutti i paesi opera invece per favorire e gestire consapevolmente l’accoglienza dei migranti senza alcuna distinzione tra profughi economici, climatici o provenienti da zone di guerra?

Anche sul tema delle migrazioni è necessario mettere in campo una sistematica opera di «reframing». Si è ormai consolidata, tanto nel mondo politico quanto nelle opinioni pubbliche, un’immagine del migrante come soggetto pericoloso, da tenere lontano con muri, frontiere e provvedimenti repressivi. E il nostro compito – difficile, ma ineludibile – deve essere quello di riaffermare con forza il diritto di migrare, senza distinzioni (come giustamente dicevate) tra rifugiati e migranti.
Nell’immediato, credo che a livello europeo dovremmo batterci per l’immediata revoca di tutti gli accordi internazionali di «contenimento» dei movimenti migratori, a partire dall’accordo con la Turchia e da quello con la Libia: va riaffermato il diritto, sancito dalla Convenzione di Ginevra, a entrare sul territorio europeo per chiedere protezione e asilo.
A livello nazionale, è necessario chiedere l’abrogazione integrale dei decreti Salvini e del precedente decreto Minniti-Orlando, nonché una regolarizzazione che consenta a chi oggi vive in Italia senza permesso di soggiorno di emergere, e di vivere con pienezza di diritti. Mentre sul primo punto – l’abrogazione dei decreti Salvini e Minniti – siamo molto indietro, sulla regolarizzazione c’è un ordine del giorno approvato alla Camera nel Dicembre 2019, e dobbiamo batterci perché non rimanga lettera morta.