La sposa bambina e il processo ai rom

Originariamente pubblicato su Corriere Immigrazione, poi ripubblicato da Mahalla

Un “matrimonio combinato” in un campo rom dà il via a una lunga vicenda giudiziaria: i rom sono accusati di aver ridotto in schiavitù la giovane sposa. Ma la versione dell’accusa non regge. Ecco cosa è successo

Tratta di esseri umani, riduzione in schiavitù, violenza sessuale di gruppo e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sono i pesantissimi capi di imputazione a carico di cinque rom, tutti residenti nel campo di Coltano a Pisa: colpevoli, secondo l’accusa, di aver portato in Italia una minorenne kosovara, costringendola prima a sposarsi con un giovane del campo, poi a vivere segregata nella sua baracca. Il processo in Corte d’Assise, durato più di due anni, sta arrivando alle battute conclusive: Venerdì si sono tenute le arringhe del Pm e di tre difensori, e per il 15 marzo è attesa la sentenza. Nel frattempo, la versione dell’accusa è stata pesantemente ridimensionata: vale la pena vedere cosa è successo.

Il matrimonio combinato e la “sposa bambina”
La vicenda risale a due anni fa, quando la polizia fa irruzione a Coltano e arresta i cinque attuali imputati. E’ il 27 ottobre 2010. Pochi mesi prima, la comunità rom aveva festeggiato un evento speciale: il matrimonio tra un ragazzo di quindici anni e una sua coetanea, che aveva richiamato decine di rom da tutta Italia. La sposa, peraltro, non aveva mai visto il campo di Coltano: nata e cresciuta in Kosovo, aveva deciso di trasferirsi a Pisa per raggiungere il promesso sposo.
I due ragazzi si erano conosciuti tramite un’amica comune, e avevano cominciato a “chattare” su internet. Poi, com’è d’uso in questa comunità, le famiglie si erano accordate e avevano combinato il matrimonio: i parenti del ragazzo avevano versato la dote, ed erano andati a prendere la giovane per portarla a Pisa. Questa, almeno, è la versione dei rom.

Qualcosa però era andato storto. La ragazza non si era trovata bene a Coltano. E a un certo punto aveva deciso di sporgere denuncia contro il marito, i suoceri e il cognato: accusandoli di averla portata in Italia con la forza, di averla fatta oggetto di minacce e ripetute violenze. Di qui l’arresto e l’avvio del processo. E torniamo così al 27 ottobre 2010, data in cui comincia questa lunga e complicata storia.

Le polemiche in città
Com’è prevedibile, l’arresto dei cinque rom finisce su tutti i giornali locali. Tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre 2010, i cronisti si scatenano: il “matrimonio combinato”, la tenera età degli sposi, la violenza su una ragazza di appena quindici anni, le “tradizioni” rom in contrasto con la “modernità”. Un copione consolidato, che mette sotto accusa non solo gli imputati, ma l’intera comunità rom: le cui usanze, spiega il Presidente del Tribunale, «nel nostro paese si configurano come reati».

A gennaio, interviene anche il Comune. Che provvede a sfrattare la madre dello sposo dalla sua casetta al campo di Coltano. Il 31 gennaio 2011, il giorno più freddo dell’anno, la donna viene allontanata con la forza dalla polizia municipale. «Lo stesso fatto di essere imputata per reati di tale gravità», si legge nel provvedimento di sfratto, «denota la fuoriuscita dal percorso di integrazione». L’associazione Africa Insieme, da sempre vicina ai rom, e Padre Agostino, il prete che vive al campo nomadi, protestano inutilmente: in questo modo, dicono, la donna è già dichiarata colpevole, prima ancora della sentenza.

La vicenda processuale e i dubbi sulla versione dell’accusa
Nella Primavera 2011, la vicenda entra in un cono d’ombra, e nessuno ne parla più. Ma il processo prosegue: vengono visionati filmati e fotografie del matrimonio, si ascoltano i testimoni e gli imputati, si leggono le intercettazioni telefoniche. E gradualmente si fanno largo i dubbi sulla versione dell’accusa.

Gli avvocati difensori si concentrano in un primo momento sul giorno del matrimonio: tutte le fotografie ritraggono la sposa sorridente e felice, abbracciata al marito e ai suoceri, intenta a conversare con amici e parenti. I testimoni ricordano il clima di festa, i video la sorprendono mentre danza con le amiche e taglia la torta. Come è possibile che una ragazza così felice, almeno in apparenza, sia ridotta in schiavitù?

Tutti i testimoni – compreso Padre Agostino, il prete cattolico che vive a Coltano insieme ai rom – ricordano che la ragazza non era segregata nella sua baracca, ma circolava liberamente. La parrucchiera del paese dice di averla vista più volte al suo negozio. Altri ricordano la partecipazione della ragazza alle feste di Camp Darby, la base militare americana a due passi dal campo.

L’accusa risponde ricordando che anche alle prostitute vittime di tratta si concedono brevi momenti di serenità: perché la violenza non è fatta solo di calci e pugni, ma si nutre di soggezione e dipendenza psicologica, di premi e punizioni, di attimi di gioia che si alternano a periodi cupi di minacce e intimidazioni.

Vi sono tuttavia altre circostanze che gettano un’ombra sulla versione del Pm. Dopo l’inizio del processo, il telefono della giovane sposa viene messo sotto controllo. Le intercettazioni registrano i colloqui con il padre, che spiega alla figlia quel che deve dire agli inquirenti: mi raccomando – implora il genitore – dì che sei stata costretta ad andare a Coltano, dì che sei stata segregata, dì che sei stata picchiata e violentata. La famiglia della sposa riceve anche una telefonata della madre del giovane marito: ignara di essere intercettata, la donna implora i consuoceri, «dite a vostra figlia di raccontare la verità…». Non sembrano le parole di chi ha qualcosa da nascondere.

Non basta. La polizia, che ha condotto le indagini, dice di aver trovato la ragazza in stato di soggezione, costretta a vivere nella sua baracca senza poter mai uscire. Ma i carabinieri, che ogni giorno si recano al campo per controllare un rom agli arresti domiciliari, non si sono mai accorti di nulla. Possibile?

La versione della difesa
Ma perché una ragazzina di 15 anni dovrebbe inventare una storia del genere? Ed è qui che la versione della difesa appare abbastanza plausibile. La ragazza aveva un altro fidanzato in Kosovo: nulla di male – tiene a precisare l’avvocato Giribaldi nella sua arringa – cose che succedono, soprattutto in età adolescenziale. Trovatasi a Coltano lontana da casa, in mezzo a persone di cui non capiva la lingua (la sposa parlava solo albanese), ha cominciato a sentire nostalgia per la sua terra. Le intercettazioni rivelano anche contatti frequenti con l’ex fidanzato in Kosovo, al quale la giovane prometteva di tornare presto.

Secondo i difensori, la ragazza avrebbe maturato la volontà di tornare a casa. Ma la rottura del matrimonio avrebbe significato, per la famiglia, restituire la “dote” ai genitori dello sposo: e proprio la restituzione di quel denaro avrebbe messo in grave difficoltà il padre e la madre della ragazza. Così, ecco la via di fuga. Andare alla polizia, e raccontare quello che gli agenti vogliono sentirsi dire: una storia di violenza e di usanze “primitive”, che assecondi gli stereotipi sui rom “arretrati” e “incivili”.

Come andrà a finire il processo nessuno lo sa. Finora, il dibattito cittadino si è concentrato sulle “usanze” dei rom: il matrimonio combinato, gli sposi bambini… Si tratta, certo, di usanze che possono non piacere: ma da qui a parlare di tratta degli esseri umani ce ne corre. Violenze, minacce e riduzione in schiavitù non sono la diretta conseguenza di quelle “usanze”, ma reati gravissimi che vanno provati e circostanziati. E di prove, nel corso del processo, ne sono emerse davvero poche. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli