Testo non pubblicato, diffuso via mail
La tendopoli «Centi Colella» si trova immediatamente fuori dalla città dell’Aquila. Era il centro sportivo del CUS, e ospitava un importante campo da rugby.
Arriviamo nel primo pomeriggio. Siamo a Luglio, fa un gran caldo e il sole picchia forte: la gente staziona sotto i pochi alberi del piazzale, alla ricerca di un po’ d’ombra. Ci accolgono i militari della Croce Rossa: chiedono nome e cognome, ci fanno una foto e stampano il «badge», un cartellino che – spiegano – deve essere sempre esibito. La tendopoli è divisa in due: sulla destra c’è il campo militare della Croce Rossa, a sinistra le tende degli “sfollati”, così li chiamano. Pare che sia un termine tecnico. Mio nonno era “sfollato” in tempo di guerra.
I primi giorni
Gli effetti del terremoto non li notiamo subito. I nostri amici dell’ARCI, che ci ospitano, sembrano non parlarne volentieri, e noi non facciamo domande. Li seguiamo nei “campi” degli sfollati, e nei viaggi in auto sbirciamo attorno a noi, alla ricerca di qualche segno. In giro si vedono palazzi diroccati, crepe nei muri, transenne della Protezione Civile. Ma le strade sono percorribili, e interi quartieri appaiono “normali”, con gli edifici ancora in piedi. Qua e là ci sono negozi aperti, ristoranti, bar, chioschi di giornali affollati di gente che si attarda a leggere le locandine. Come se nulla fosse accaduto. O almeno così ci sembra.
I viaggi sembrano interminabili: per noi, che non ci orientiamo, L’Aquila appare una città immensa, fatta di strade larghe e di quartieri lunghissimi. È solo perché non entriamo mai in centro: il tessuto urbano si è come sfilacciato, la gente abita nelle tendopoli ai margini della città. Andare da un campo all’altro significa percorrere l’anello esterno dell’abitato: per questo ci si mette così tanto tempo. Un lungo anello di tende circonda una città rimasta vuota.
A guidarci è Mario, instancabile volontario dell’ARCI. Di tanto in tanto ci chiede di passare da casa sua: a prendere qualcosa che si è dimenticato, a dar da mangiare ai cani che ha lasciato in giardino, o semplicemente a dare un’occhiata, tanto per uscire dalla routine della tendopoli. Ci sembra di intuire che “passare da casa” una volta al giorno sia una necessità, e lo assecondiamo volentieri. Il palazzo dove abitava, in periferia, è rimasto in piedi, e a vederlo non sembra che ci sia passato un terremoto. Solo se rimani in silenzio e ti guardi attorno ti accorgi che qualcosa non va: le finestre dei palazzi sono tutte chiuse, nella zona non c’è nessuno, non ci sono macchine parcheggiate. Il silenzio è irreale. Il quartiere è vuoto.
Per le strade vedi passare camion e camionette militari: della Croce Rossa, dell’esercito o dei carabinieri. Sembra una zona di guerra. Una specie di retrovia del fronte, dove non si spara ma si tengono le operazioni logistiche dell’esercito. Anche i campi sono presidiati da militari: che chiedono documenti e filtrano gli ingressi. In ogni tendopoli c’è una specie di check-point.
A Centi Colella le cose vanno meglio, perché si entra anche senza mostrare badge e documenti. Ma il campo è comunque pieno di militari. Quelli della Croce Rossa vengono dal Kossovo o dall’Iraq. Per loro, il terremoto e la guerra sono la stessa cosa: quando parlano ti spiegano cosa facevano “in tempo di pace”. È un lapsus che ricorre spesso: in tempo di pace.
Centi Colella, gli immigrati
Se non fosse per l’onnipresenza dei militari, Centi Colella sembrerebbe un campeggio. Uno di quelli dove si va in vacanza. Le tende sono grandi, hanno l’aria condizionata e i letti. Ci sono tre bagni collettivi, e l’area mensa dove si mangia a ore stabilite: la mattina dalle sette alle nove, a pranzo dall’una alle due, a cena dalle otto alle nove. I pasti li fornisce la Croce Rossa. La pasta è sempre scotta, ma se prendi il formaggio e la carne fai un pranzo decente.
Qualcuno degli abitanti se ne va la mattina presto e torna la sera: sono i pochi fortunati che hanno ripreso a lavorare. Gli altri stazionano al sole cocente tutto il giorno. Si gioca a carte, si fa la doccia, i bambini giocano. Come se fossimo in vacanza.
Prendiamo confidenza con due vivacissimi bambini macedoni, Amir e Flora. Urlano, corrono e ti chiedono di giocare con loro. Amir quando sente le sirene della polizia o quelle dell’ambulanza si ferma un attimo e dice «vanno a prendere uno che gli è crollata la casa». Poi ricomincia a giocare.
Siamo venuti per un progetto di assistenza agli immigrati. Di giorno parliamo con i volontari dell’ARCI: ci raccontano i problemi e noi proviamo a ipotizzare soluzioni. Ci sono quelli che devono rinnovare il permesso di soggiorno, ma hanno perso il lavoro: e senza lavoro è difficile restare regolari. C’è anche chi il lavoro ce l’ha: ma, al momento del rinnovo del permesso ti chiedono una certificazione che attesta l’idoneità dell’alloggio, e qui le case sono tutte distrutte. Abbiamo provato a parlarne con una funzionaria della Questura, ma lei dice che le regole sono queste. Un terremotato deve esibire l’idoneità dell’alloggio.
Poi ci sono i problemi nei campi. Perché in molte tendopoli gli immigrati non entrano, se non hanno la residenza a L’Aquila. Abbiamo conosciuto un rumeno che dorme in una casa pericolante: gli hanno proibito l’accesso alla tendopoli dove abita tutta la sua famiglia. Lui non ha la residenza, dicono. Di giorno lavora nei cantieri della ricostruzione e la notte rischia la vita. Alcuni funzionari ci hanno spiegato che le tendopoli costano troppo: non si può fare entrare tutti. E c’è il rischio che qualcuno approfitti della situazione, venga da fuori città apposta per dormire in tenda. Il mercato della miseria va regolamentato.
Al tre e trentadue
La sera ci prendiamo un po’ di svago e andiamo a bere una birra al “3 e 32”. Tre e trentadue: è l’orario in cui, il 6 Aprile, le case hanno cominciato a crollare. A quell’orario hanno dedicato un comitato, che è uno dei più attivi in città: lavora per tutelare i diritti dei terremotati. Gli attivisti del “3 e 32” si sono presi un giardino pubblico, hanno piantato delle tende per dormire e hanno allestito una piccola casa mobile con un bar e un tendone per i concerti. È il luogo di ritrovo serale degli aquilani “impegnati”. Qui non ci sono militari, non si chiedono documenti e non serve il “badge” per entrare: ci tengono a spiegartelo, quelli del comitato. E lo esibiscono con orgoglio: all’ingresso campeggia una bandiera della pace. Di nuovo il tema della pace e della guerra.
Il “3 e 32” confina con la “zona rossa”. Si trova a ridosso di una collina. In basso corre Via Strinella, una delle poche risparmiate dai disastri del terremoto: i palazzi sono tutti in piedi, qua e là si nota persino qualche finestra aperta con la luce accesa. In cima alla collina, invece, ci sono le strade più colpite dal sisma. Facendo un giro lassù si vedono i muri distrutti, i calcinacci per terra, le transenne della Protezione Civile. La strada è buia, e c’è una macchina accartocciata in un parcheggio. Se sali ancora, ti spiegano, trovi la zona rossa, e i palazzi crollati. È la prima volta che vediamo gli effetti del terremoto.
Tra Via Strinella e la zona rossa, sul pendio della collina, c’è il parco pubblico divenuto sede del “3 e 32”. C’è musica, capannelli di gente che chiacchiera. E ci sono i computer del piccolo “media center” a disposizione di tutti. È qui che i nostri amici dell’ARCI si sciolgono e cominciano a raccontare.
I racconti del 6 Aprile
La notte del 6 Aprile, Ciro e Lucia sono a casa, a due passi dal Duomo. Dormono, ma il loro non è un sonno sereno: tra le undici e mezzanotte sono arrivate due scosse che – spiega Lucia – erano diverse da tutte le altre. Più minacciose, più inquietanti. Tanto che per un momento hanno pensato di scendere giù e dormire in macchina. Poi hanno lasciato perdere. Sono mesi che Bertolaso spiega che non bisogna avere paura.
Alle tre e trentadue arriva la scossa. Vogliono schizzare via ma non ci riescono. È come se fossero risucchiati in fondo al letto: impossibile risalire. Meglio aspettare. La scossa sembra non finire mai: tutto intorno cadono oggetti, bicchieri, piatti, calcinacci, si sente in lontananza un rumore sinistro, è la terra che si muove. Ciro pensa che crollerà tutto: impossibile che i muri resistano a una cosa del genere. Poi finisce. La casa è rimasta in piedi. Finalmente si alzano dal letto, col fumo dei calcinacci che impedisce il respiro. Scendono e corrono verso il Duomo. È pieno di gente sorpresa nel sonno, in pigiama, senza occhiali, con le pantofole. Qualcuno è ferito, ma c’è una calma irreale. Nessuno si rende conto davvero di quello che è successo. La terra trema ancora, ci sono tante scosse una dietro l’altra: ma chi si trova lì, al Duomo, non lo capisce, pensa che siano le gambe a tremare per la paura. L’aria è irrespirabile, e qualcuno si lava all’acqua della fontana per prendere un po’ di respiro.
La gente resta lì, imbambolata, per ore. Lucia dice che non ricorda le emozioni e le paure di quella notte, è come se tutto fosse successo a qualcun altro, come guardare un evento da fuori senza viverlo davvero. Nessuno dice niente, centinaia di persone restano in silenzio ad aspettare. Solo alle prime luci dell’alba arrivano i soccorsi.
Nel centro storico c’era anche la sede del circolo ARCI. L’Aquila è piccola e bellissima, spiega Ciro con gli occhi lucidi, e quella sede era un po’ un nido, un angolo di sicurezza e di calore. Ora non c’è più nulla. Ma ci sono loro, quelli del circolo. Decidono di restare insieme, vanno al Centi Colella ad organizzare i soccorsi. Mettono in piedi un’area di accoglienza, prima che arrivi la Croce Rossa ad allestire il campo. Per giorni restano là: accolgono chi arriva, forniscono qualche medicinale, cibo e coperte, quel che si può mettere a disposizione. Ci sono i malati che bisogna censire e segnalare ai sanitari, quelli che cercano i parenti e bisogna aiutarli, quelli che devono chiamare la famiglia ma nella notte del disastro hanno perso il cellulare, quelli che il cellulare ce l’hanno ma la batteria è scarica. Giorni e giorni trascorsi così, in attesa dei rinforzi.
Poi arriva la Croce Rossa. C’è qualche problema, perché i militari non vogliono gente tra i piedi. Ma l’ARCI resta lì al Centi Colella, con la sua tenda e i suoi volontari. Qualche trattativa all’inizio, per far entrare gli stranieri – quelli senza residenza, esclusi dalle altre tendopoli – e per imporre regole di gestione meno rigide. Niente badge, niente check-point. Mettono in piedi anche il bibliobus per i bambini, ne parlano tutti i giornali. E quelli della Croce Rossa, forse controvoglia, accettano.
Ora la fase della prima emergenza è finita. La città torna al lavoro, in uffici provvisori allestiti su roulotte. Si dorme ancora nei campi, e quelli dell’ARCI si muovono per rafforzare il bibliobus, coordinare i volontari che arrivano da fuori, allestire il progetto per la tutela legale degli stranieri. Continuano le trattative per la gestione dei campi. C’è da seguire la ricostruzione, con le sue manovre politiche, la propaganda sui mass-media, le menzogne e le mezze verità. Al “tre e trentadue” si leggono tutte le sere le delibere del DICOMAC, la struttura messa in piedi da Bertolaso. Per controllare che non ci siano fregature.
Tutto è molto complicato e difficile. E durerà a lungo.
Sergio Bontempelli
Pisa, 18 Luglio 2009