Diritti dei migranti e antirazzismo

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Non solo ius soli: chi ha paura dei nuovi cittadini

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere, 9 Novembre 2021

Il dibattito sulla cittadinanza si è concentrato sullo “ius soli”, ma la questione è molto più ampia: e ora un nuovo software ha trasformato la procedura in una corsa a ostacoli

L’immigrazione in Italia è ormai un fenomeno che potremmo definire «maturo». I flussi migratori dall’estero hanno iniziato ad assumere volumi considerevoli quaranta o cinquanta anni fa, e non hanno più smesso di crescere fino a tempi recenti: così, molti stranieri che incontriamo al lavoro o alla fermata dell’autobus risiedono nel nostro paese da anni, a volte da decenni, ed è persino improprio definirli «immigrati»; certo, erano tali dieci, venti o trent’anni fa, ma le cose dovranno pur cambiare col tempo (è ancora «immigrato» un individuo che risiede stabilmente in Italia da due o tre decenni?).

Una cittadinanza «quasi-razziale»?

Eppure, nel dibattito pubblico gli stranieri sono percepiti tutti come ospiti appena arrivati: tutti estranei e allogeni, magari da guardare con sospetto e diffidenza. Lo si è visto bene qualche anno fa, quando il Parlamento è stato chiamato ad affrontare la questione dei ragazzi che, pur figli di genitori immigrati, sono nati e cresciuti in Italia: anche loro sono considerati stranieri, benché abbiamo vissuto tutta la loro esistenza nello Stivale (e benché spesso non parlino neppure le lingue dei loro presunti “paesi di appartenenza”). Da anni si parla di modificare la legge sulla cittadinanza, introducendo più robusti elementi di «ius soli» che consentano a chi è nato e/o vissuto in Italia di diventare più facilmente italiano.

Una timida proposta di riforma dello “ius soli”, presentata alla Camera nel 2015 e naufragata al Senato meno di due anni dopo, scatenò reazioni al limite dell’isteria: alcuni esponenti del centro-destra parlarono di «sanatoria mascherata», di «cittadinanza in svendita», o di un’Italia che sarebbe diventata «la sala parto dell’Africa» (!!!). In queste affermazioni emergeva chiaramente una concezione familistica e razziale dell’appartenenza alla nazione: in base a questa idea, è «italiano» non chi nasce, cresce e vive in Italia, non chi lavora e paga le tasse in Italia, ma solo chi può vantare una «pura» discendenza italiana, un«sangue italiano» e, già che ci siamo, una italianissima pelle bianca (che non guasta mai).

Non bisogna pensare tuttavia che questa concezione familistico-razziale sia confinata ai soli esponenti del centro-destra, o a qualche esagitato corsivista di giornali come Libero o La Verità. Al contrario, è condivisa anche da settori del centro-sinistra, ed è parte di un senso comune molto diffuso. Ma, soprattutto, pervade il corpo, le vene e le arterie delle amministrazioni pubbliche, degli apparati dello Stato, dei massimi vertici del Viminale; è parte integrante dell’immaginario di molti funzionari e dirigenti ministeriali; e fa capolino talvolta – come vedremo tra poco – nelle sentenze dei tribunali e nella dottrina giuridica. Una certa immagine razzializzata dell’italianità è oggi – potremmo dire – una sorta di «pensiero di Stato».

Per rendercene conto, bisogna per un attimo lasciar da parte lo ius soli e rivolgerci alle altre forme di acquisizione della cittadinanza: è infatti nella naturalizzazione, più che nell’acquisizione della cittadinanza iure soli, che si vede all’opera il «pensiero di Stato». Lo vedremo tra poco.

La legge sulla cittadinanza, in pillole

Per capire di cosa stiamo parlando, bisogna fare un piccolo passo indietro, e spiegare brevemente come si acquisisce la cittadinanza in Italia (chi ha già le idee chiare in proposito può saltare questa parte, e andare direttamente al paragrafo successivo). Di solito le sintesi giornalistiche alludono alle due forme di acquisizione più conosciute: il cosiddetto ius sanguinis e il contestatatissimo ius soli. Il primo è il sistema «normale» con cui molti di noi sono diventati italiani: chiunque nasca da almeno un genitore italiano acquisisce automaticamente la cittadinanza, senza dover presentare alcuna richiesta né dover compilare alcun modulo (questo significa, grosso modo, l’espressione «ius sanguinis»).

«Vivo in Italia da quando avevo sei anni, ma sono troppo povero per chiedere la cittadinanza». La storia di Oleh, su Repubblica.it

Il secondo caso, quello dello «ius soli», è un pochino più complicato, e riguarda l’individuo che nasce sul suolo italiano ma che è figlio di genitori entrambi stranieri. In questo caso la legge non consente di ottenere automaticamente la nazionalità: lo straniero nato in Italia deve attendere il compimento dei diciotto anni e presentare domanda; per farlo, deve dimostrare di aver risieduto nel territorio nazionale senza interruzioni, dalla nascita alla maggiore età.

Queste però non sono le uniche due modalità di acquisizione della cittadinanza: ve ne sono molte altre. La principale – quella che ci interessa approfondire in questa sede – è la cosiddetta «naturalizzazione». Semplificando un po’, possiamo dire che con questo termine si indica la procedura con cui uno straniero può chiedere e ottenere la cittadinanza, se dimostra di essersi stabilizzato e «adattato» al paese in cui vive; se dimostra cioè – per dirla in termini semplici –di essersi compiutamente «italianizzato».

Attenzione perché qui siamo a un passaggio decisivo. È importante capire che, a differenza dello ius sanguinis, la naturalizzazione prevede che lo straniero richieda esplicitamente di diventare cittadino (non esiste dunque nessun automatismo, occorre presentare una domanda); e, a differenza dello ius soli, la naturalizzazione non è concepita come un diritto, ma come una concessione che lo Stato italiano accorda benevolmente al richiedente, e che può benissimo rifiutare. Ci torneremo tra un attimo.

Le due forme di naturalizzazione attualmente previste dalla legge sono quella per matrimonio (quando il/la richiedente è sposato/a con un/una cittadino/a italiano/a), e quella per residenza (di cui può beneficiare chi è residente in Italia da almeno dieci anni). La domanda deve essere inviata alla Prefettura, che a sua volta la “gira” al Viminale per la decisione definitiva. In questi anni il dibattito pubblico si è concentrato quasi esclusivamente sullo ius soli: eppure, come mostra la tabella qui sotto, è proprio la naturalizzazione la principale forma di acquisizione della cittadinanza italiana.

Tabella. Modalità di acquisizione della cittadinanza, 2009-2019
Anno Acquisizioni totali di cittadinanza Acquisizioni per concessione (naturalizzazione) % naturalizzazioni su totale acquisizioni
2009 59.369 40.084 67,52%
2010 65.938 40.223 61,00%
2011 56.148 21.206 37,77%
2012 65.383 46.776 71,54%
2013 100.712 65.678 65,21%
2014 129.887 85.526 65,85%
2015 178.035 122.196 68,64%
2016 201.591 120.147 59,60%
2017 146.605 62.507 42,64%
2018* 112.523 68.351 60,74%
2019* 127.001 84.475 66,52%
Fonte: Ministero dell’Interno, Acquisto, concessione e reiezione della cittadinanza italiana, file excel relativi a vari anni, disponibile online sul sito del Viminale

La naturalizzazione: una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio

Sottratta al dibattito pubblico, la naturalizzazione è stata gestita in piena autonomia dalle burocrazie ministeriali, che hanno da sempre – come si accennava – una concezione molto restrittiva della nazionalità: per loro, il «popolo italiano» è e deve rimanere una famiglia chiusa, che solo in casi molto particolari può ammettere nei suoi ranghi persone esterne.

Gli alti funzionari del Viminale si sentono i «custodi» di questa tribù esclusiva (ed escludente), e ritengono di doverla proteggere da ogni indebita interferenza esterna. Nell’ottica delle burocrazie ministeriali, la protezione della tribù è persino più importante del rispetto formale della legge. E infatti, negli ultimi due decenni la procedura di accesso alla naturalizzazione si è progressivamente irrigidita, ben al di là di quanto prevede la normativa.

Cosa ci dicono i dati più recenti sulla cittadinanza. Da Lenius

Un esempio di questo irrigidimento riguarda i limiti di reddito. Oggi, per poter presentare la domanda di cittadinanza per residenza, lo straniero deve aver percepito nell’ultimo triennio un reddito non inferiore a quello necessario per l’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria. Si tratta, beninteso, di cifre relativamente modeste (a seconda della composizione del nucleo familiare, si va da un minimo di 8.200 a un massimo di 13-14mila euro l’anno), che però lanciano un segnale preciso: la cittadinanza è vincolata al reddito, e chi è «troppo povero» non può diventare italiano…

È una innovazione molto rilevante, che dovrebbe essere prevista da una legge e non introdotta in modo surrettizio dalla prassi amministrativa. E invece, basta consultare le due norme di riferimento (la legge 91/92 e il relativo regolamento di attuazione) per accorgersi che non vi è alcuna traccia di limiti di reddito. Questi limiti sono stati imposti da una circolare del Ministero dell’Interno del 2007, nella quale gli alti funzionari non mancarono di ribadire la loro assoluta discrezionalità:

«L’atto concessorio della cittadinanza italiana basato sulla residenza nel territorio della Repubblica è (…) di natura squisitamente discrezionale (…): l’Amministrazione deve verificare sia i requisiti prescritti dalla legge, sia l’insieme di ulteriori elementi che motivino l’opportunità della concessione».

Questa discrezionalità così ampia, addirittura svincolata dalla legge, può facilmente sconfinare nell’arbitrio. Anni fa la nostra Alessandra Ballerini denunciò il caso di alcuni cittadini stranieri incensurati, a cui era stata negata la naturalizzazione per la loro presunta «continguità» con non meglio precisati «movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica». Alla richiesta dell’avvocatessa di avere ulteriori informazioni, il Ministero rispose che la questione era coperta addirittura dal segreto di Stato (!!). Alessandra Ballerini fece giustamente notare che, se fossero stati davvero pericolosi, quegli stranieri non avrebbero avuto neppure il permesso di soggiorno. Il sospetto, mai confermato né smentito, era che la cittadinanza fosse stata negata perché i richiedenti erano musulmani…

Un atto di «Alta Amministrazione»?

Il guaio è che questa discrezionalità amministrativa quasi assoluta è stata avallata anche dai tribunali, in particolare dal Consiglio di Stato che su questo tema ha maturato una giurisprudenza costante e inequivocabile (una rassegna delle principali sentenze si trova a questo link). Così scriveva, per esempio, la massima Corte amministrativa nella sentenza 3 Febbraio 2011 n. 766:

«Le determinazioni dell’Amministrazione sulle domande di concessione della cittadinanza italiana (…) sono non vincolate (…) ma a carattere discrezionale. In particolare, il rilascio o il diniego di cittadinanza, concernendo il conferimento di uno status di rilevante importanza pubblica, comporta valutazioni essenzialmente discrezionali, in cui l’interesse [del richiedente] ad ottenere la cittadinanza deve necessariamente coniugarsi con l’interesse pubblico».

Nel corso degli anni la giurisprudenza ha persino ridefinito l’atto di concessione della cittadinanza: che non è più considerato un provvedimento amministrativo ordinario – come potrebbero essere, solo per fare alcuni esempi, una concessione edilizia, o il rilascio di un permesso di soggiorno – ma come un «atto di alta amministrazione». Con questa espressione la dottrina giuridica designa quegli atti che hanno natura «di suprema direzione della pubblica amministrazione, di raccordo della funzione di indirizzo politico con quella amministrativa» [Bernardo G. Mattarella, Il provvedimento, in Sabino Cassese (a cura di), Istituzioni di Diritto Amministrativo, Giuffrè, Milano 2012, pagg. 317-388, citazione a pag. 324].

Guida pratica alla procedura di cittadinanza, a cura di Cild e Italiani senza Cittadinanza. Leggi e scarica

In termini più semplici, si tratta di qualcosa che sta a metà strada tra il provvedimento amministrativo vero e proprio (che deve limitarsi ad applicare una norma esistente) e l’atto politico (che ovviamente non può andare contro la legge, ma che ha una maggiore libertà di azione: la politica, di norma, fa le leggi più che adeguarsi ad esse).

In base a questo orientamento, le burocrazie ministeriali possono rifiutare la cittadinanza anche quando il richiedente ha tutti i requisiti per ottenerla. Secondo il Consiglio di Stato, per esempio, gli uffici possono addirittura entrare nel merito del comportamento individuale dello straniero, giudicandolo «non meritevole» a prescindere dall’esistenza di una condanna penale:

«rientra nell’area in cui legittimamente si estende la discrezionalità spettante all’Amministrazione in subiecta materia la valutazione del peso negativo ascrivibile a comportamenti riprovevoli anche risalenti e non certificati da una pronuncia del giudice penale così come del suo bilanciamento con la condotta successiva dell’interessato» (Consiglio di Stato, Sezione III, Sentenza 19 marzo 2018, n. 1736).

Insomma, secondo il Consiglio di Stato le burocrazie ministeriali possono definire «riprovevole» – e quindi ostativo alla concessione della cittadinanza – anche un comportamento legittimo, non vietato dalla legge o comunque non sanzionato da alcun tribunale. Non c’è bisogno di rilevare quanto sia pericolosa l’attribuzione di una discrezionalità così ampia, praticamente senza limiti (anche l’essere musulmano può essere giudicato «riprovevole»?).

Come un software produce diritto

Investiti di questo potere quasi assoluto, le burocrazie ministeriali hanno pensato di estendere ulteriormente i loro margini di discrezionalità: di recente, hanno creato una procedura di invio delle domande che, come vedremo tra un attimo, consegna i richiedenti a un meccanismo opaco e farraginoso, che viola le garanzie previste dalla legge sui procedimenti amministrativi (legge 241 del 1990).

Oggi, per fare domanda di naturalizzazione, bisogna in primo luogo registrarsi al nuovo Portale Cittadinanza del Ministero dell’Interno, utilizzando il proprio Spid. Una volta entrati nell’area riservata, si accede al modulo, che va riempito in ogni sua parte e inviato telematicamente alla Prefettura. Quando però si comincia a compilare il modulo, ci si accorge subito che qualcosa non va. Il sistema chiede infatti di inserire per ben sei volte gli stessi dati: nome, cognome, data e luogo di nascita, paese di cittadinanza.

Lo strano modulo, dove vanno inseriti sei volte gli stessi dati. Guarda le schermate

Perché è necessario ripetere queste informazioni? Perché prima si devono riportare le proprie generalità anagrafiche, e subito dopo bisogna trascrivere i dati riportati in cinque documenti diversi: certificato di nascita, carta di identità italiana, passaporto, permesso di soggiorno e certificato penale del paese di origine. In pratica, bisogna compilare sei schermate pressoché uguali.schermate_portale

Detta così, la faccenda sembrerebbe poco grave: di moduli fatti male ce ne sono a centinaia, e quello per la cittadinanza non sarà né il primo né l’ultimo. Il problema è che, dovendo scrivere sei volte le stesse cose, l’utente rischia di fare qualche piccolo errore. E può succedere anche che i documenti riportino dati parzialmente diversi. Uno dei casi tipici riguarda il luogo di nascita, che in alcuni documenti del paese di origine può essere scritto riportando solo la città, e in altri la città e la provincia/distretto di appartenza. Ad esempio, un cittadino albanese potrà avere scritto sul passaporto «nato a Bushat», e sul certificato penale «nato a Bushat – Scutari». Che è un po’ come se per un italiano si dicesse «nato a Segrate» o «nato a Segrate-Milano»: è fin troppo evidente che le due diciture indicano lo stesso luogo, nel secondo caso riportando anche la provincia.

Ora, su queste difformità si è costruita negli ultimi mesi una barriera che impedisce ai richiedenti, letteralmente, di presentare le domande. Quando infatti lo straniero fa un piccolo errore di trascrizione, o quando i documenti presentano delle piccole discrepanze (come nell’esempio del luogo di nascita, con o senza la provincia), la Prefettura rigetta immediatamente le domande. Così, i richiedenti sono costretti a inviare nuovamente il modulo, e spesso a rifare i documenti rilasciati dal paese di origine se questi sono scaduti (il certificato penale, ad esempio, vale solo sei mesi).

Si tratta di una violazione palese delle norme sul procedimento amministrativo. La legge, infatti, prevede espressamente l’istituto della «integrazione documentale», nota anche come «soccorso istruttorio»: vuol dire che, in presenza di piccoli errori o dati discordanti, l’Amministrazione non deve rigettare la domanda, ma chiedere all’interessato di correggerla.

Esclusi per un trattino

Tutto questo produce conseguenze che, se non fossero ingiuste e discriminatorie, avrebbero anche un risvolto involontariamente comico. Torniamo all’esempio del cittadino albanese nato a Bushat o a Bushat/Scutari. In presenza di due dati «diversi» (diciamo così), l’Amministrazione sospetta di non avere di fronte la stessa persona: insomma, se nella carta di identità ho scritto «nato a Segrate» e nella patente risulto «nato a Segrate-Milano», secondo i nostri funzionari ciò significa che la carta di identità e la patente appartengono a due individui diversi.

Cild, Profili di illegittimità della normativa sulla cittadinanza. Leggi sul sito della CILD

Per rimediare al problema, il malcapitato deve recarsi alla propria Ambasciata e farsi rilasciare una dichiarazione che attesti la sua identità: deve cioè procurarsi un documento in cui si dica che «Segrate» è esattamente lo stesso posto di «Segrate-Milano». L’Italia sta dunque costringendo le rappresentanze diplomatiche straniere a rilasciare certificazioni completamente inutili, da cui si evincono cose ovvie. È come se chiedessimo a un idraulico di certificare cento volte che l’acqua è bagnata: l’idraulico in questione non ci prenderebbe tutti per cretini?

E siccome il grottesco non ha mai fine, a chi scrive sono capitati casi di richiedenti che avevano il trattino nel nome: erano cioè persone che si chiamavano Anna-Maria, Pier-Paolo, Pier-Carlo e così via. Per decenni, nella prassi amministrativa il trattino era considerato irrilevante: si poteva scrivere oppure omettere. Capitava così che il pigro funzionario dell’Agenzia delle Entrate scrivesse sul codice fiscale Anna Maria (senza trattino), che il più solerte impiegato del Comune riportasse Anna-Maria (col trattino) nella carta di identità, e che il distratto agente della Questura inserisse nel permesso di soggiorno il nome Anna Maria (di nuovo senza trattino). Ma siccome il nome «vero», quello riportato sul passaporto, era Anna-Maria (col trattino), la malcapitata doveva richiedere un nuovo codice fiscale e un nuovo permesso di soggiorno, perdendo tempo e soldi (l’aggiornamento di un permesso costa più di settanta euro).

Questo accanimento burocratico sembra pensato per scoraggiare la presentazione delle domande. Ma può darsi che si tratti invece di semplice ottusità. Sta di fatto che oggi avere un trattino nel nome può ostacolare, se non proprio impedire, l’accesso alla procedura di cittadinanza.

Una buona notizia. E un compito a casa

Se la burocrazia sta facendo di tutto per impedire la presentazione delle domande, anche la politica ci ha messo del suo in tempi recenti. Da Ministro dell’Interno, Matteo Salvini aveva introdotto l’esame di italiano obbligatorio per tutti coloro che chiedevano la naturalizzazione, e aveva portato a quattro anni il tempo massimo per l’evasione delle pratiche (poi gli anni sono stati ridotti a tre dal decreto Lamorgese: ma la norma non è retroattiva quindi vale solo per le domande presentate dopo la sua entrata in vigore).

E qui finiscono (almeno per ora) le cattive notizie. La buona notizia è che, nonostante i mille ostacoli creati più o meno intenzionalmente dai vertici ministeriali, le acquisizioni di cittadinanza continuano a crescere, come si vede dal grafico qui sotto (tratto da un articolo di Lenius)

 

Questa buona notizia dovrebbe spingerci a dedicare maggiore attenzione alle politiche della cittadinanza: le quali, come abbiamo visto, non si limitano alla pur decisiva questione dello ius soli, ma investono temi assai più ampi e complessi. Servirebbe una mobilitazione civile che rivendicasse una riforma organica della disciplina sulla cittadinanza italiana. E sarebbe utile che su questi temi intervenissero i giuristi democratici, per contestare o almeno ridimensionare quell’idea di “discrezionalità” che sta sconfinando sempre più nell’arbitrio. Su questo punto un primo, importante passo è stato la pubblicazione di un dettagliato studio della CILD (la Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili) sui «profili di illegittimità costituzionale della legge sulla cittadinanza». Un primo passo, appunto: a cui dobbiamo riuscire a farne seguire altri.

Sergio Bontempelli

Testo Unico Immigrazione, art. 35

Testo dell’Art. 35 aggiornato ad Aprile 2020

Articolo 35

Assistenza sanitaria per gli stranieri non iscritti al Servizio sanitario nazionale.

(Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 33)

1. Per le prestazioni sanitarie erogate ai cittadini stranieri non iscritti al servizio sanitario nazionale devono essere corrisposte, dai soggetti tenuti al pagamento di tali prestazioni, le tariffe determinate dalle regioni e province autonome ai sensi dell’articolo 8, commi 5 e 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni.

2. Restano salve le norme che disciplinano l’assistenza sanitaria ai cittadini stranieri in Italia in base a trattati e accordi internazionali bilaterali o multilaterali di reciprocità sottoscritti dall’Italia.

3. Ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presìdi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. Sono, in particolare garantiti:

a) la tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane, ai sensi della L. 29 luglio 1975, n. 405, e della L. 22 maggio 1978, n. 194, e del decreto 6 marzo 1995 del Ministro della sanità, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 87 del 13 aprile 1995, a parità di trattamento con i cittadini italiani;

b) la tutela della salute del minore in esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176;

c) le vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni;

d) gli interventi di profilassi internazionale;

e) la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive ed eventualmente bonifica dei relativi focolai.

4. Le prestazioni di cui al comma 3 sono erogate senza oneri a carico dei richiedenti qualora privi di risorse economiche sufficienti, fatte salve le quote di partecipazione alla spesa a parità con i cittadini italiani.

5. L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano.

6. Fermo restando il finanziamento delle prestazioni ospedaliere urgenti o comunque essenziali a carico del Ministero dell’interno, agli oneri recati dalle rimanenti prestazioni contemplate nel comma 3, nei confronti degli stranieri privi di risorse economiche sufficienti, si provvede nell’ambito delle disponibilità del Fondo sanitario nazionale, con corrispondente riduzione dei programmi riferiti agli interventi di emergenza.

I migranti «dimenticati»

Originariamente pubblicato sul sito di Adif – Associazione Diritti e Frontiere

Nel dibattito sugli sbarchi di profughi, ci siamo “dimenticati” degli immigrati cosiddetti economici: discriminati, esclusi, esposti a una legge tra le più restrittive e irrazionali d’Europa

Da qualche anno a questa parte, quando si parla di «immigrazione», si fa riferimento agli sbarchi sempre più frequenti di profughi, richiedenti asilo e rifugiati sulle coste del Sud Italia. Ed è normale che sia così: perché senza dubbio, dopo le Primavere Arabe e l’avvio di conflitti su larga scala nell’area mediorientale e maghrebina, le migrazioni forzate dalla sponda sud del Mediterraneo hanno avuto una clamorosa impennata, che contrasta con la relativa stagnazione delle migrazioni economiche classiche.

Le migrazioni sono in calo: ce lo dicono i dati ISTAT

E tuttavia, viene da chiedersi che fine abbiano fatto i lavoratori e le lavoratrici provenienti dalla Romania, dall’Albania, dall’Ucraina o dal Marocco, che fino a qualche anno fa erano al centro delle cronache (e delle sparate più o meno razziste di politici e commentatori). Scomparsi dalla visibilità pubblica, sembra quasi che non esistano più: invece esistono eccome. E la loro vita è tutt’altro che rosea.

I più colpiti dalla crisi

Da anni, i principali istituti di ricerca segnalano infatti che gli immigrati sono i più colpiti dalla difficile situazione economica in cui versa il nostro paese. Secondo l’Istat, per esempio, a fine 2014 il tasso di disoccupazione dei lavoratori stranieri (al 16,8 per cento) era cresciuto di oltre cinque punti dall’inizio della crisi: e tra gli uomini, l’aumento è stato doppio rispetto a quello registrato tra gli italiani.

Sempre secondo l’Istituto di Statistica, tra i nuclei familiari più poveri – quelli che non hanno un reddito da lavoro, né godono di prestazioni pensionistiche – il 14,9% è costituito da famiglie immigrate: una percentuale quasi doppia rispetto al tasso di stranieri residenti. Non a caso, i cittadini non italiani sono i principali “clienti” di alcune prestazioni assistenziali, quali il “bonus Renzi” destinato alle famiglie indigenti.

In queste condizioni, non stupisce che molti cittadini stranieri decidano di lasciare l’Italia, tornando ai loro paesi di origine oppure avviando una “seconda migrazione” verso le aree più ricche dell’Europa continentale (Francia e Germania in primis). E tuttavia, andarsene non è sempre così facile: molti vivono in Italia da anni, a volte anche da decenni. Hanno messo su famiglia, hanno fatto figli, si sono radicati sul territorio. Tentare la fortuna in un altro paese significa ricominciare tutto da capo, magari a un’età in cui non si è più giovanissimi e le energie non sono quelle di prima.

Perdere il lavoro e il permesso di soggiorno

Così, mentre i più audaci provano ad andarsene, chi rimane cerca di “sbarcare il lunario”. E deve scontrarsi con le rigidità del mercato del lavoro, ma anche con una burocrazia dell’immigrazione sempre più restrittiva e ostile. Già, perché periodicamente – ogni anno o, per i più fortunati, ogni due anni – il permesso di soggiorno va rinnovato. E la legge (la famosa “Bossi-Fini”, oggi così pluri-emendata e modificata che dovrebbe chiamarsi in altro modo: si veda la lunghissima lista di aggiornamenti al “Testo Unico” dal 2002 ad oggi) prevede requisiti molto rigidi, ai quali si aggiungono le prassi delle Questure, spesso del tutto svincolate dalla normativa.

Così, per esempio, secondo la legge lo straniero che perde il lavoro ha diritto a rimanere in Italia per non più di un anno: ma, soprattutto nei distretti industriali più colpiti dalla crisi, trovare un’altra occupazione è molto difficile, e dodici mesi non bastano. I più fortunati riescono a rinnovare comunque il documento, magari trasformandolo in un permesso per “motivi familiari” legato al coniuge (se questo lavora e ha un reddito sufficiente): tutti gli altri, invece, sono condannati a diventare irregolari se non trovano in fretta un altro contratto di lavoro.

Secondo l’ultimo Dossier Idos, nel solo anno 2014 i permessi di soggiorno scaduti e non rinnovati sono stati più di 150mila. Un numero allarmante, che dovrebbe spingere a modificare la normativa – come chiedono da tempo i sindacati – in modo da consentire la permanenza in Italia per un tempo più lungo.

Questure che fanno di testa loro…

Poi ci sono le Questure che, per così dire, fanno di testa loro. Per una lunga tradizione molto italiana, infatti, la gestione dei fenomeni migratori è da sempre affidate alla prassi, alle circolari ministeriali, alle “indicazioni” (non sempre esplicite) dei funzionari addetti, più che alle leggi e ai provvedimenti normativi veri e propri [si veda lo splendido volume scritto di recente da Iside Gjergji].

Dovrebbero ricordarselo i pur generosi attivisti che – giustamente, sia chiaro – rivendicano a gran voce l’abolizione della “Bossi-Fini”: in Italia non basta cambiare una legge, se non cambiano le mentalità e i comportamenti di Questure, Prefetture e uffici interessati. Ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe lontano.

Prassi illegittime delle Questure: a Rimini e a Pisa per i rinnovi, a Roma e Milano per le cd. “carte di soggiorno”

Torniamo a noi. In questi anni molte Questure hanno fatto di testa loro, si diceva, e hanno reso la vita dei migranti ancora più difficile. Succede così – solo per fare qualche esempio scelto tra i tanti – che le Questure di Rimini e di Pisa blocchino i permessi di soggiorno ai venditori ambulanti, anche se nel frattempo questi hanno trovato un lavoro regolare e hanno tutti i requisiti per il rinnovo. E succede anche – a Modena, a Roma e a Milano – che la Questura revochi, a chi è disoccupato, il permesso per lungosoggiornanti (la cosiddetta “carta di soggiorno”), che per legge è a tempo indeterminato e può essere tolta solo in caso di reati molto gravi.

… e norme europee disattese

Per la Corte di Giustizia i permessi di soggiorno costano troppo: ecco la sentenza

A proposito di Carta di Soggiorno, il 2 Settembre scorso la Corte di Giustizia della UE aveva dichiarato eccessiva la “tassa” richiesta agli immigrati per i permessi, particolarmente gravosa proprio nel caso dei lungo-soggiornanti (200 euro, a cui si aggiungono le 73,50 euro di spese “amministrative e postali”…). Nonostante le reiterate proteste di associazioni e sindacati, il Governo non ha mai dettato disposizioni per ridurre i costi dei documenti. Eppure, lo slogan ce lo chiede l’Europa è spesso invocato come motivo di urgenza, quando si tratta di tagliare salari e pensioni: si vede che l’europeismo degli italici governi funziona, per così dire, a geometria variabile.

Frontiere chiuse e soggiorni irregolari

Infine, a questa panoramica – necessariamente parziale – bisogna aggiungere il pressoché totale blocco degli ingressi per lavoro: di fatto, le frontiere italiane sono quasi completamente chiuse. Da tempo – almeno dal 2012 – il Governo non emana più i decreti annuali sulle “quote”, oppure si limita a prevedere l’ingresso di lavoratori stagionali “a tempo” (che devono tornare a casa dopo nove mesi), come è accaduto quest’anno.

Benché la pressione migratoria sia fortemente diminuita – sono sempre meno gli stranieri che scelgono il nostro paese – l’assenza totale di opportunità di ingresso crea seri problemi. Anche perché si accompagna ad una legge – la pluriemendata Bossi-Fini di cui sopra – che impedisce la regolarizzazione in loco: chi si trova in Italia senza documenti non può ottenere un permesso di soggiorno, nemmeno se lavora, nemmeno se dimostra di potersi mantenere in modo lecito e autonomo…

Così, gli immigrati che hanno perso i documenti, o quelli che sono arrivati in modo irregolare, non hanno alcuna opportunità di mettersi in regola e di ottenere il sospirato permesso. Una situazione che rischia di creare un vero e proprio serbatoio di emarginazione sociale e di irregolarità.

Sergio Bontempelli

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