Diritti dei migranti e antirazzismo

Categoria: corriere delle migrazioni (Page 3 of 4)

Napoli, il campo 2.0

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Un progetto di inserimento sociale, o un altro ghetto? Un’esperienza di “superamento dei campi nomadi”, o un ennesimo campo magari un po’ più “ecologico” del solito? Una proposta innovativa e sperimentale, o la solita zuppa, riscaldata con un po’ di retorica?

Sono questi gli interrogativi che suscita il programma di riqualificazione dell’insediamento rom di Via Cupa Perillo a Napoli, messo in campo dalla giunta De Magistris: e l’impressione è che la posta in gioco di questo dibattito, molto acceso nel capoluogo campano, vada ben al di là dei confini partenopei. Ma per capirci qualcosa, sarà bene procedere con ordine.

Il campo di Cupa Perillo
Cominciamo con qualche notizia sul campo. Via Cupa Perillo si trova nel quartiere Scampia. Si tratta di uno degli insediamenti più noti della città: vi abitano un centinaio di famiglie (circa 400 persone) suddivise in 5 insediamenti minori. I nuclei provengono per lo più dalla ex Jugoslavia, ma molti bambini sono nati in Italia, e sono “napoletani” a tutti gli effetti: il campo esiste da molti anni, un’intera generazione è nata e cresciuta lì, e definirlo “abusivo” oggi suona un po’ come beffa.

Come accade di frequente con i campi “abusivi”, Cupa Perillo è da sempre oggetto di polemiche: negli anni passati, in particolare, i “vicini di casa” si erano lamentati della spazzatura, spesso smaltita con il fuoco da alcune famiglie del campo, e non solo del campo. Una situazione pericolosa per la salute, dovuta per lo più alle carenze nel servizio comunale di raccolta dei rifiuti. Ma questa è un’altra storia, un’altra polemica, e ci porterebbe lontano.

La “riqualificazione” del campo: una piccola storia
Naturalmente, per “risolvere” il (presunto) “problema”, molti chiedevano di sgomberare l’insediamento, e di allontanare senza troppi complimenti i rom che vi risiedevano da decenni. L’amministrazione comunale (per fortuna, verrebbe da dire) decise di seguire altre strade, e già dal 2008 avviò un progetto di “riqualificazione” del campo. Ma proprio qui, come si suol dire, casca l’asino.

Nella prima stesura, infatti, il progetto prevedeva la costruzione di circa 70 “moduli abitativi” (leggi: container di lamiera), in grado di ospitare grosso modo 350 persone: meno degli abitanti effettivi. Che fine avrebbero fatto tutti gli altri? E si può definire “riqualificazione” un intervento che obbliga decine di famiglie ad abitare in container di metallo, gelidi d’inverno e roventi d’estate?

Il progetto, naturalmente, non ha mancato di suscitare contestazioni, soprattutto da parte degli stessi rom. Ma, nel pieno del dibattito cittadino, tutto finì per bloccarsi: nel 2009 si scoprì infatti che una parte dell’area interessata non era di proprietà del Comune, ma di un privato cittadino, che non voleva saperne di mettere a disposizione il suo terreno. Così, tra contenzioni e ricorsi, tutto si fermò.

La vicenda si riapre nell’aprile 2011, quando il Comune decide di “rimodulare” il progetto, e di costruire il “villaggio” in un’area più piccola (corrispondente ai terreni di proprietà pubblica). Nel frattempo, però, ci sono le elezioni e la vecchia Giunta viene sostituita dalla nuova, guidata da De Magistris. Il nuovo assessore al welfare viene sollecitato e incalzato da rom e associazioni: il progetto non va bene, va ripensato tutto da cima a fondo. Insomma, fermate l’autobus, vogliamo scendere…

L’Amministrazione prende atto, sospende l’avanzamento dei lavori e avvia un percorso di “progettazione partecipata”, per il quale viene persino coinvolta l’Università. Finalmente, vien da pensare, un intervento sui rom si fa con i rom e insieme ai rom.

Il progetto definitivo…
Sono passati più di tre anni dall’avvio del percorso di “progettazione partecipata”, e alla fine si è arrivati al progetto definitivo, approvato dal Consiglio comunale partenopeo nel mese di maggio.

Rispetto al disegno originario, ci sono diverse novità di natura – per così dire – “ecologica”. Il nuovo villaggio sarà dotato di pannelli fotovoltaici per la fornitura di energia elettrica; le unità abitative non saranno più container, ma vere e proprie “casette”, costruite con materiali bio-edilizi altamente riciclabili. Accanto agli edifici, saranno allestite delle aree verdi a disposizione degli abitanti. Un progetto “ambientalista”, o almeno così sembra. Ma non è tutto oro quel che luccica.

… e le polemiche
Questo progetto, infatti, non piace a molte famiglie rom che ne sarebbero beneficiarie. E non piace alle associazioni che hanno pazientemente seguito le vicende di Cupa Perillo. Il perché ce lo spiega Francesca Saudino, avvocatessa, dirigente nazionale di OsservAzione e agguerrita sostenitrice dei diritti dei rom: «Si spendono sette milioni di euro», dice Saudino, «per costruire un villaggio per soli rom. Quei soldi vengono in gran parte dall’Unione Europea, e le indicazioni europee ci dicono che gli insediamenti monoetnici sono un errore».

Dove sta l’«errore»? E perché gli insediamenti “monoetnici” sono sbagliati? «Qui in Italia ne abbiamo avuto la prova», ci spiega ancora Francesca Saudino. «Le politiche nazionali in materia di rom e sinti hanno privilegiato i campi nomadi, insediamenti monoetnici appunto. Tutte le leggi regionali che hanno creato i campi parlavano di integrazione sociale, ma di fatto si sono costruiti dei ghetti: sarebbe ora di voltar pagina, dopo più di venti anni di fallimenti. E invece si finisce per fare un altro campo: con abitazioni più dignitose, ma pur sempre un campo. Un campo di case, come lo chiamano i rom…».

Le case “per soli rom”
«Le case per soli rom», aggiunge Marco Marino in un articolo pubblicato sulla rivista Gli Asini, «sono ripensate con tettoie, verande e garage improvvisati, ai balconi hanno fioriere ed improbabili false anfore greche. Ma ci sono anche, per poter lavorare, residui di automobili smontate, e carretti per la raccolta del ferro vecchio. I rom stessi vogliono andare via dal “campo di case” perché vivere lì è fortemente discriminante. Quando si cerca un lavoro, quella zona è sinonimo di rom, ed è difficile trovare un impiego se sulla carta di identità c’è quell’indirizzo».

E poi, dice ancora Marino, le “case per soli rom” creano diffidenza e barriere con la popolazione circostante: «c’è sempre un’ auto della polizia fuori al villaggio, e se è successo qualcosa in città si pensa sia stato un rom, e tutte le case indistintamente vengono perquisite. L’insediamento monoetnico crea un forte controllo sociale e di polizia».

Detto in altri termini, il “villaggio per soli rom” è un po’ come il “villaggio per soli ebrei”: è un ghetto. E i ghetti, per l’appunto, ghettizzano: anche se hanno le fioriere e sono costruiti con materiale bio-edilizio.

Esiste un’alternativa? Giriamo la domanda, ancora una volta, a Francesca Saudino: «l’alternativa esiste eccome», ci spiega, «e sta nella condivisione, nella partecipazione, nel coinvolgimento degli stessi rom nelle politiche che li riguardano. L’alternativa è una vera politica dell’inclusione sociale, che non isoli e non crei nuove marginalità. L’alternativa è il superamento dei campi, come dice anche la Strategia Nazionale di Inclusione, che è pur sempre un documento del governo italiano…».

Che succederà adesso? Le associazioni sono agguerrite e hanno tutta l’intenzione di contestare il progetto. Il Comune, per ora, va avanti. Staremo a vedere.

Sergio Bontempelli

“Zingari”, turisti e gelatai

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Le stazioni di Firenze e Roma cacciano i rom per attrarre i turisti. Ma tre gelati nella Capitale costano 42 euro. Da chi e da cosa vanno tutelati i turisti?

«Turisti ostaggio di rom e ladri» (Quotidiano Nazionale, 10 Luglio). «Firenze, assedio ai turisti in stazione» (Corriere della Sera, 7 Luglio). «Barriere anti-rom per salvare i turisti» (Il Giornale, 17 Luglio). A sentire i giornali di questi giorni, le “barriere anti-mendicanti” alla Stazione di Firenze dovrebbero proteggere i tanti visitatori che, soprattutto dall’estero, vengono a trascorrere le loro tranquille vacanze nel nostro Bel Paese.

Che questo sia lo scopo principale dell’iniziativa, lo conferma un comunicato di NTV, l’azienda che gestisce i famosi treni “Italo”: «l’immagine che offriamo alle migliaia di turisti», dice la nota, riferendosi ai mendicanti che chiedono l’elemosina alla stazione, «è una brutta cartolina del nostro Paese». E lo certifica anche il Sindaco di Firenze Dario Nardella, quando afferma che i rom «provocano un grave danno d’immagine alla città».

Insomma: se vogliamo rilanciare l’economia delle nostre città d’arte, se vogliamo valorizzare il patrimonio culturale e artistico del paese, bisognerà prendere iniziative che invitino a visitare l’Italia, che la presentino come un luogo attraente e pulito. E si dovranno, dunque, allontanare gli “straccioni” che ci fanno fare brutta figura nel mondo.

È per questo che la Prefettura, la Questura e il Comune, in accordo con l’azienda che gestisce la stazione ferroviaria, hanno preso il provvedimento che ha fatto tanto discutere: l’accesso alle biglietterie è stato transennato, e i mendicanti sono stati allontanati dalle forze dell’ordine. Ne ha parlato mezza Italia, e non staremo qui a dare per l’ennesima volta la notizia: ci interessa piuttosto soffermarci sull’impatto reale che una cosa del genere può avere sull’economia turistica delle nostre città.

Il turismo in crisi
Partiamo da un dato di fatto: non è un mistero che il turismo in Italia stia vivendo una drammatica fase di crisi. Ce lo dicono le cifre dell’organizzazione mondiale per il turismo (Unwto), che mostrano un crollo spaventoso del settore. Nel 1950 la quota di viaggiatori che sceglievano l’Italia per le loro vacanze era del 19%: nel mondo, dunque, un turista su cinque visitava il nostro paese. La cifra è scesa al 7,7% nel 1970, e al 6,1% nel 1990. Il picco negativo è stato raggiunto l’anno scorso (2013), quando la percentuale è crollata al 4,4%. Siamo passati da un turista su cinque a uno su ventitrè…

Si dirà: colpa della crisi economica. La gente non ha più soldi e viaggia sempre meno. Non è vero. Secondo un recente studio della Coldiretti, nel 2013 l’intera Europa ha registrato un incremento del +5% di flussi rispetto all’anno precedente. E il turismo, a livello globale, è uno dei pochi settori a non essere toccato dalla crisi. Tra l’altro, paesi in gravissima difficoltà economica hanno registrato incrementi significativi nel 2013: la Grecia il +13,2%, il Portogallo +7,1%.

Le ragioni del crollo…
Quali siano le ragioni del crollo, provano a spiegarcelo alcune inchieste dettagliate e ben fatte. Va detto che l’argomento è complesso, e i fattori sono tanti: vediamo di elencarne alcuni. La già citata indagine Coldiretti, ad esempio, ci spiega che l’Italia è la meta più costosa del Mediterraneo: qui da noi, alberghi e ristoranti costano il 10% in più rispetto alla media europea. Sempre a paragone con la media continentale, in Spagna si spende il 9% in meno, in Grecia -12%, Portogallo e Croazia viaggiano attorno a -20%, e così via.

Ma è soprattutto la qualità dell’offerta che lascia a desiderare. In proposito, un recente dossier del Touring Club (ben sintetizzato da Gian Antonio Stella sul Corriere) è letteralmente impietoso: prezzi alti, servizi scadenti e sciatti, scortesia diffusa, scarsa conoscenza delle lingue straniere da parte degli operatori. E poi musei e negozi chiusi nei giorni festivi, poca cultura dell’ospitalità, informazioni non chiare o inaccessibili. Infine, incapacità di innovare l’offerta: «come se tutto ci fosse dovuto», dice Stella, «in quanto “Paese più bello del mondo”». Per non parlare di Pompei che cade a pezzi (e stendiamo un velo pietoso).

… e i bidoni
Per chiudere questo simpatico quadretto, bisogna aggiungere che l’Italia è notoriamente il «paese dei bidoni». Soprattutto nelle città d’arte. Dove – è la notizia di questi giorni – tre gelati possono costare 42 euro (è successo a Roma). Dove un giro in gondola, nella romantica Venezia, può costare al turista straniero il doppio del dovuto (è accaduto pochi mesi fa). Dove per due lattine di coca e un caffè si rischia di spendere venti euro (è accaduto giusto giusto a Firenze, l’anno scorso, e l’ha denunciato lo scrittore Fabio Volo).

Queste cose i turisti le sanno, e grazie a internet e ai social network le notizie girano. Solo qualche anno fa, i quotidiani giapponesi lanciarono una vera e propria campagna contro lo Stivale, accusato di truffe ai danni dei visitatori stranieri, di prezzi insostenibili, di servizi scadenti, insomma delle cose che sappiamo e che sono sotto gli occhi di tutti.

Cosa c’entrano i rom?
Già, ma cosa c’entrano, in tutto questo discorso, gli “zingari”? Qui la faccenda è un po’ complicata, perché per un verso i rom – poveretti – non c’entrano nulla, per un altro verso sono loro i protagonisti di questa storia. Prima di spiegare il perché, partiamo da una domanda: cosa si dovrebbe fare per risollevare dalla crisi il settore turistico?

Come sempre, servirebbero risposte politiche complesse, articolate, multidimensionali. Bisognerebbe investire nella formazione degli operatori, nell’innovazione dell’offerta, nella competitività del sistema. Bisognerebbe aver cura del nostro patrimonio storico e artistico, vera e propria miniera d’oro su cui siamo seduti. Andrebbe avviata una politica dei prezzi che tenga conto dello straordinario valore delle nostre città d’arte, ma anche della ragionevolezza e dell’equità: tre gelati non possono costare 42 euro. E i nostri alberghi non possono essere i più cari del Mediterraneo…

Ma tutto questo è difficile, troppo difficile. Chi amministra la cosa pubblica è abituato a risposte semplici e schematiche, da dare in pasto a giornali e TV. E quindi, invece di avviare una discussione sulla crisi del turismo, si lancia un’iniziativa di sicuro effetto: cacciare gli “zingari”, i mendicanti, gli accattoni, gli “straccioni”. Prendersela con i poveri, si sa, funziona sempre. E non costa nulla.

Intendiamoci. Che molti turisti siano “infastiditi” dalle richieste di elemosina, è assai probabile. Il mendicante che chiede spiccioli alla Stazione non è – da che mondo è mondo – un “problema di sicurezza” (siamo seri, per favore!), ma può essere sicuramente motivo di fastidio: perché ti chiede soldi mentre stai cercando di capire come funziona quella maledetta biglietteria automatica che non ti ha dato il resto, perché magari insiste un po’ troppo, perché per dargli gli spiccioli dovresti cercare nelle tasche e hai altro da fare. O perché ti ripete in modo ossessivo che ha bisogno di denaro, mentre tu di denari ne hai già dati troppi a Trenitalia, al tassista, all’albergatore, al barista, al cameriere…

Insomma, per i mille motivi che sappiamo, un mendicante può essere fastidioso: è, comunque, meno molesto di un gelataio che esige 42 euro per tre coni striminziti. E però, siccome si vogliono “attrarre i turisti” senza irritare troppo i gelatai, la cosa più semplice da fare è prendersela coi soliti noti, i rom (invece che con i gelatai).

Ora, al di là di considerazioni etiche che tanto non ascolta più nessuno, il dubbio è che una strategia del genere non funzioni. Perché, certo, il turista sarà contento di avere i questuanti fuori dai piedi. Ma quando avrà visto i prezzi (e la qualità) dei treni, degli alberghi e dei gelati, è probabile che scappi a gambe levate dall’Italia. Vorrà dire che il prossimo anno gli spiegheremo che anche il gelataio, in fondo in fondo, è “zingaro”. E al prossimo gelato da 42 euro, sgombereremo un altro campo rom.

Sergio Bontempelli

7 Agosto 2014

Sgomberi alla romana

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

Corriere delle Migrazioni ha assistito al trentesimo smantellamento di un campo rom, effettuato dalla Giunta Marino. Ecco come funzionano gli sgomberi nella capitale

È mercoledì 9 luglio, sono le otto del mattino. Le pattuglie della polizia locale di Roma irrompono nel piccolo insediamento di Val d’Ala, nella zona nord della città: qui, ai bordi della ferrovia, vivono una quarantina di rom rumeni – molti dei quali minorenni – accampati alla meglio con tende da campeggio e ricoveri di fortuna. Sono disorientati e timorosi, gli abitanti del campo, ma non sorpresi: lo sgombero è stato annunciato già da qualche giorno, l’arrivo delle forze dell’ordine era previsto.

Peraltro, ad attendere le pattuglie non ci sono soltanto i rom. Anzi, al campo si è formato un vero e proprio “comitato di accoglienza”: l’associazione 21 Luglio, che contesta lo sgombero, ha chiamato a raccolta i cittadini per monitorare le operazioni. Così, già di primo mattino, ci sono fotografi, giornalisti e volontari. Gli attivisti della 21 Luglio, riconoscibili dalle t-shirt con il logo dell’associazione, parlano con le famiglie, spiegano cosa sta per accadere, dispensano consigli e suggerimenti.

Arriva la polizia municipale
Forse i più sorpresi sono proprio loro, gli uomini della Municipale: abituati a trattare con i rom, ma non con gli attivisti e i “contestatori”. Parcheggiano, scendono dalle macchine, si guardano intorno e hanno l’aria perplessa. Uno di loro, che dirige le operazioni, si avvicina e arriva faccia a faccia con Carlo Stasolla, presidente della «21 Luglio». «Siamo qui per monitorare il rispetto dei diritti umani», dice Stasolla con voce calma. «Riteniamo che questo sgombero non sia conforme alle procedure di legge; non vogliamo ostacolare il vostro lavoro, ma intendiamo rimanere qui e documentare quel che succede». L’interlocutore è visibilmente innervosito: «Questo campo è abusivo e illegale», risponde con fare seccato, «e deve essere chiuso: non vedo dov’è il problema». Stasolla ha tutta l’aria di chi, prevista l’obiezione, aveva preparato per tempo la risposta: «Ci sono garanzie sancite da norme internazionali: in caso di sgombero, gli abitanti devono essere informati preventivamente, e deve essere proposta una soluzione altern…». Ma il dirigente non ha voglia di discutere e taglia corto: «Va bene, state qui, ma non ostacolate le operazioni».

La ruspa
Gli agenti chiamano a raccolta le famiglie, le allontanano dalle tende, e chiedono anche a noi di tenerci a distanza. Poi fanno passare una piccola ruspa, che si avvicina sotto gli occhi attoniti dei bambini. In pochi minuti tutto viene travolto: tende, baracche, effetti personali dei rom sono distrutti. La ruspa si muove veloce, mentre alcuni agenti raccolgono i resti e li ammucchiano da una parte. Le facce dei rom sono intimidite, ma anche rassegnate: nessuno degli abitanti del campo protesta. Il silenzio è quasi irreale. Assieme ad altri giornalisti mi avvicino per fare delle foto, ma gli uomini della Municipale mi fermano: «Non potete stare qui, dovete allontanarvi». Carlo Stasolla si impunta: «I cronisti devono documentare le operazioni», dice, «non hanno intenzione di ostacolarvi». Il dirigente è visibilmente seccato: «Documenteranno le operazioni quando saranno terminate». Che è un po’ come andare allo stadio e accendere la telecamera quando la partita è finita. Glielo facciamo notare, al dirigente, ma lui non sente ragioni: «e non fate foto alla mia faccia, che sennò vi denuncio». Va bene, niente foto alla sua faccia. Sennò si arrabbia.

«Soluzioni» alternative
Gli uomini della Municipale si muovono con sicurezza, e hanno una strana confidenza con i rom: li salutano, li chiamano per nome, sorridono, fanno battute, elargiscono affettuose pacche sulle spalle. «Ormai li conosciamo da anni», mi dice il solito dirigente, che ha una gran voglia di parlare con me (forse deve discolparsi dei modi un po’ rudi che ha usato finora). «Sa, noi non ce l’abbiamo con loro, facciamo solo il nostro mestiere…». Un piccolo drappello di agenti si dispone vicino alle macchine. Una vigilessa chiama a raccolta le donne rom, convocandole ad una ad una. Un suo collega, che parla rumeno (un rumeno un po’ maccheronico, a dir la verità) e che per questo fa l’interprete, pone a tutte le stessa domanda: «Vuoi che ti troviamo una sistemazione per stasera? Possiamo darti un posto letto per te e per il tuo bambino, ma non puoi portare tuo marito». La risposta è sempre la stessa: «No, non voglio separarmi da mio marito». Ed è una risposta così scontata, che gli agenti hanno tutta l’aria di conoscerla già. Nessuna delle donne rom fa domande, nessuna protesta: sembra quasi che tutti – rom e agenti – recitino un copione mandato a memoria. Ogni volta che viene pronunciato il fatidico «no», il dirigente assume un’aria sbrigativa e si rivolge al collega interprete, «Vabbè dai, abbiamo capito, passiamo alla seconda domanda». La «seconda domanda» viene rivolta anche agli uomini: «Vuoi tornare in Romania? Possiamo darti un aiuto per le spese del viaggio». Qui le risposte sono meno scontate, e c’è qualcuno che accetta l’offerta. «Va bene, lasciaci il numero di telefono, ti richiamiamo noi».

Il tutto si svolge in una tranquillità irreale. È una specie di teatro dell’assurdo: i rom dovrebbero essere furibondi per la distruzione delle baracche, e invece sembrano tranquilli (o almeno rassegnati). La proposta di dividere le famiglie – accogliendo donne e bambini, e separandoli dagli uomini – è un po’ grottesca e un po’ umiliante, ma qui nessuno sembra farci caso: per gli agenti è «la prassi», e i rom ci hanno fatto l’abitudine. Per la verità anche io ci sono abituato, e infatti lì per lì non ci faccio caso: solo una collega giornalista, alla sua prima esperienza di sgombero, mi fa notare quanto sia assurda tutta la vicenda. In realtà, la proposta di separare le famiglie ha una sua logica, per quanto contorta: serve per poter dire, alla stampa e alle televisioni, che ai rom è stata offerta una «soluzione alternativa», e che sono stati loro a rifiutare. E succede spesso che i giornalisti (non tutti, solo quelli pigri e acquiescenti) prendano per buona la versione ufficiale, e ci ricamino sopra: ecco, i soliti zingari ingrati, che rifiutano le generose offerte del Comune…

La vertenza
Le operazioni sono durate sì e no un’ora. Adesso le baracche sono state distrutte, e il palcoscenico si chiude. I rom si allontanano dal campo e si dirigono verso il Dipartimento delle Politiche Sociali del Comune: vanno a protestare contro lo sgombero, e a rivendicare una soluzione alternativa. Assieme a loro ci sono gli instancabili volontari della 21 Luglio, e anche Matteo de Bellis, dirigente di Amnesty International. Il resto è cronaca degli ultimi giorni. Lo sgombero è stato duramente contestato sia dall’Associazione 21 Luglio, sia da Amnesty International. Con due comunicati stampa congiunti, il primo il 9 luglio e il secondo l’11 luglio, le due organizzazioni hanno dapprima denunciato le violazioni dei diritti umani, e poi rivolto un appello urgente al sindaco di Roma al fine di trovare una soluzione immediata per far fronte all’emergenza. Poi, finalmente, nella giornata di venerdì, si è trovata una soluzione-tampone: «I rom», ha annunciato un comunicato della 21 Luglio, «sono stati trasferiti provvisoriamente in una struttura di accoglienza in città, dove risiederanno fino all’individuazione di ulteriori soluzioni». Un “tampone”, appunto. Che lascia aperto il nodo di sempre: a chi e a cosa servono gli sgomberi?

Sergio Bontempelli, 16 Luglio 2014

Palermo, bambino rapito, ma è un “errore”

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni, 21 Maggio 2014 (vedi copia di Archive.org)

Le cronache raccontano di rom che cercano di rapire un bambino: ma la storia fa acqua da tutte le parti…

Palermo, 10 maggio 2014: siamo a Settecannoli, un quartiere popolare nella zona sud della città. Un bambino di dieci anni scende di casa per comprare il pane: una piccola commissione per conto della famiglia, che il ragazzo sbriga volentieri. È una bella giornata di primavera, e nonostante l’ora tarda – sono le sette di sera – il sole è ancora alto nel cielo.

Andrea – così i giornali chiamano il bambino, la cui identità non è stata resa nota dagli inquirenti – è quasi arrivato al panificio, quando viene afferrato e strattonato da due brutti ceffi. Si divincola, urla e si mette a piangere: teme di essere portato via, di essere rapito. Ma le sue grida non restano inascoltate: alcuni passanti si fermano, e nel giro di pochi minuti gli aggressori vengono circondati da una folla inferocita e presi a calci.

Questa, almeno, è la versione raccontata dal quotidiano La Repubblica, edizione Palermo. Che peraltro non ha dubbi sull’identità degli aggressori: «La folla – scrive il giornale – sventa il sequestro di un bambino e scatta il pestaggio di due nomadi». Insomma, i colpevoli sono “zingari”: del resto lo sanno tutti, che i rom rubano i bambini, e il caso del piccolo Andrea ne è l’ennesima conferma. O no?

Il campo della Favorita e l’inserimento abitativo dei rom
In realtà, l’episodio di Settecannoli è tutt’altro che chiaro. E infatti – lo vedremo tra poco – la stampa locale è stata costretta a cambiare versione, nel corso degli ultimi giorni. Per capirci qualcosa, però, sarà bene andare con ordine, e raccontare gli antefatti di questa strana vicenda da romanzo giallo.

Tutto ha inizio nella parte opposta della città, nell’area che i palermitani chiamano «Parco della Favorita». Qui c’è il campo rom “autorizzato”, allestito nei primi anni ‘90 per i profughi della ex Jugoslavia, e che oggi ospita circa 110 persone originarie di Kosovo, Montenegro e Serbia. Il campo è isolato dal resto della città, e si configura come un vero e proprio ghetto. Da anni le associazioni ne chiedono la chiusura, e da qualche tempo l’Amministrazione comunale ha fatto propria questa richiesta.

Per la verità, al momento non esiste un vero e proprio “piano” per smantellare l’insediamento. Ma la volontà c’è: l’assessore Giusto Catania, l’8 maggio scorso, ha dichiarato di voler chiudere la Favorita, e di voler collocare i rom in alloggi “normali” (trovate l’intervista nel video qui sotto). Nel frattempo, la Giunta guidata da Leoluca Orlando ha avviato alcuni lavori di pulizia nel campo, con la demolizione delle baracche abbandonate e l’allestimento di un’area attrezzata con giochi per bambini.

Ma proprio l’intervista di Catania, rilasciata al giornale online Livesicilia, suscita un vespaio di polemiche. «Vogliono dare la casa agli zingari, invece che ai palermitani»: questo, in sintesi, l’atto di accusa che il centro-destra lancia all’indirizzo della Giunta. Nel frattempo, sui social network e sui siti web comincia a girare la notizia – falsa – secondo cui il Comune vorrebbe assegnare le case ai rom, magari “soffiandole” agli “autoctoni” (si veda ad esempio qui).

La scena del rapimento
Un autorevole politico della Prima Repubblica diceva che «a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si indovina». Mai come in questo caso un’affermazione del genere, per così dire, calza a pennello: un bambino “rapito dagli zingari”, nel bel mezzo delle polemiche sulla Favorita, è una «coincidenza così coincidente che viene da pensar male» (per usare un’espressione del romanziere Luigi Bernardi). Il problema, però, è che i conti non tornano. Nel senso che l’episodio di Settecannoli è pieno di punti oscuri: vediamoli, uno per uno.

Anzitutto, il (presunto) rapimento del bambino ha poco a che fare con i rom della Favorita. Settecannoli – lo abbiamo visto – si trova nella parte opposta della città, e i rom che abitano nel quartiere vengono tutti dalla Romania, non dalla ex-Jugoslavia. Anche ammesso (e non concesso) che il rapimento sia avvenuto davvero, i residenti del campo “storico” di Palermo sono sicuramente estranei alla vicenda.

Non solo. Nel giro di poche ore, la notizia si sgonfia. Già nell’edizione online di Repubblica, uscita dopo quella cartacea, molte cose sono cambiate. Gli aggressori non sono più “zingari”, ma semplici rumeni («inizialmente identificati dalla polizia come rom dell’accampamento di viale del Fante», dice con candore l’autrice del pezzo…). E poi, non è detto che il bambino sia stato effettivamente vittima di un tentato rapimento: «la versione dei rumeni, rilasciata durante quattro ore di interrogatorio, non convince i poliziotti ma il quadro probatorio non è abbastanza solido per disporre un arresto», dice ancora la giornalista.

L’ennesima bufala?
Certo, per capire cosa sia successo esattamente a Settecannoli bisognerà attendere le indagini degli inquirenti. Ma è forte la sensazione di trovarsi di fronte all’ennesima bufala. «Ieri mattina», scriveva Giusto Catania nella sua pagina Facebook, il 12 maggio scorso, «Repubblica di Palermo sparava come prima notizia il tentato rapimento di un bambino da parte di due Rom. Un articolo pieno di contraddizioni ed evidenti storture. Oggi improvvisamente la notizia è scomparsa dal sito… Vuoi vedere che era falsa?».

«Siamo di fronte», concludeva l’assessore, «all’ennesima leggenda sugli “zingari rapitori”, mai avvalorata dai fatti: in Italia mai un Rom è stato condannato per aver rapito o tentato di rapire un bambino». E – aggiungiamo noi – nella vicenda di Settecannoli la leggenda ha un’evidente finalità politica: serve a gettare discredito sui rom della Favorita, e a impedire il progetto di smantellamento del campo e di inserimento abitativo. Le false notizie, in questo come in altri casi, servono sempre a qualcosa e a qualcuno…

Sergio Bontempelli

 

Si ringrazia Giulia Veca per la preziosa consulenza (ovviamente, la responsabilità di quanto scritto è esclusivamente nostra)

A proposito di aggressioni razziste

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

L’omicidio di un bengalese a Pisa non è una delle “classiche” aggressioni razziste che abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni. Eppure il razzismo c’entra. Vediamo perché.

È la notte del 13 aprile, siamo a Pisa. Zakir Hossain, un immigrato del Bangladesh, ha finito di lavorare al ristorante indiano “Tanduri”, nella centralissima Piazza Gambacorti (che tutti chiamano “Piazza la Pera”, per via di un buffo reperto etrusco a forma, appunto, di pera). Zakir fa il cameriere, ed esce tardi dal lavoro: qualche volta si ferma a chiacchierare coi colleghi e finisce per fare – letteralmente – le ore piccole. Quella del 13 aprile è una notte come le altre, ed è molto tardi quando Zakir si incammina verso casa.

Piazza La Pera è vicina a Corso Italia, vero e proprio “cuore pulsante” della città. È la strada dello shopping, dello “struscio” pomeridiano, ma anche degli uffici pubblici e delle banche: poi, la sera, diventa uno dei centri della “movida”. Quando Zakir raggiunge “il Corso”, però, è notte fonda e non c’è più nessuno in giro. Tutto è tranquillo e silenzioso. All’improvviso, come dal nulla, spuntano tre individui: sembrano ubriachi, e uno di loro si rivolge con fare minaccioso proprio a Zakir. I testimoni assistono ad uno strano alterco: lo sconosciuto urla, Zakir rimane in silenzio. Poi parte un pugno: il giovane bengalese cade a terra. Viene trasportato d’urgenza all’Ospedale, dove muore qualche ora dopo.

Un delitto a sfondo “razziale”?
Il delitto scuote dal torpore la piccola città toscana. Anzitutto, perché si tratta di un evento senza precedenti, almeno da queste parti. Poi perché è avvenuto in pieno centro, in una zona di solito tranquilla, e comunque controllata dalle telecamere. Chi ha commesso l’omicidio, e perché? La nazionalità della vittima ha a che fare con il movente del gesto? Detto in altri termini, possiamo parlare di una violenza a sfondo razziale?

Riuniti in assemblea all’indomani dell’evento, i bengalesi non hanno dubbi: in città si respira da tempo un clima ostile contro gli immigrati. E ad esserne colpiti sono soprattutto loro, gli stranieri che vengono dal Bangladesh: che gestiscono minimarket e rivendite di kebab, e che per questo sono oggetto di invidie e risentimenti da parte dei commercianti “autoctoni”. Insomma, c’è un clima negativo, che certo non è la “causa” dell’omicidio, ma che può aver influito sulle motivazioni dell’assassino.

Passano alcune ore e gli inquirenti scoprono che a sferrare il colpo mortale è stato un cittadino tunisino, Hamza Hamrouni. L’omicidio, quindi, non può avere motivazioni razziste: così almeno dice il Sindaco, Marco Filippeschi, durante la manifestazione di solidarietà convocata dalla Comunità Bengalese. Ma le cose stanno davvero così?

Un omicidio “insolito”
Su un punto ha ragione il primo cittadino: quella subita da Zakir non è un’aggressione razzista “classica”. Quando pensiamo alla violenza a sfondo razziale, ci riferiamo infatti a un “copione” standard, in cui gli attori hanno ruoli ben definiti:  l’aggressore è – di solito – un italiano “purosangue”, magari imbevuto di idee e sentimenti xenofobi; la vittima è uno straniero marginale, escluso, in genere povero e poco inserito nella società di accoglienza.

L’omicidio di Jerry Essan Masslo, nel lontano 1989, è per certi versi il “prototipo” di queste violenze. Masslo era un giovane sudafricano che aveva chiesto asilo politico in Italia: per guadagnarsi da vivere era finito a fare il bracciante a Villa Literno. Viveva in una baracca fatiscente, lavorava quindici ore al giorno ed era pagato una miseria: era un escluso, e in quanto escluso fu aggredito e ucciso.
Per venire ad eventi più recenti, anche la strage di Firenze del 2011 segue un copione, diciamo così, “classico”. L’aggressore è un italiano di estrema destra, che pensa di “farsi giustizia” (le virgolette sono d’obbligo) irrompendo in una piazza e sparando ai venditori ambulanti senegalesi. Le vittime sono, appunto, dei venditori ambulanti: immigrati poveri, marginali, e (di nuovo) “esclusi”.

Ecco, il delitto di Pisa non segue questo copione. Zakir non è povero né “escluso”. Certo, non naviga nell’oro e non lo si può definire “ricco”: ma ha un permesso di soggiorno, vive in un’abitazione dignitosa e lavora regolarmente. Quando siamo andati in Piazza La Pera, a parlare con gli esercenti della zona, molti ci hanno detto: “Zakir era uno di noi”. «Per me non era nemmeno un bengalese – ci ha spiegato il titolare di un negozio – lavorava qui, e non l’ho mai percepito come uno straniero».

Anche l’aggressore non rientra nelle categorie rigide “noi” (gli “autoctoni”) / “loro” (gli immigrati). È tunisino, ma abita in provincia di Pisa da quando era adolescente, e ha una famiglia mista: la madre, tunisina anche lei, si è sposata in seconde nozze con un italiano, che ha rappresentato un “secondo padre” per il ragazzo. Hamza frequenta un circolo Arci e una palestra di pugilato, e ha amici italiani con cui esce la sera a “far baldoria”.

Tutto questo è, forse, un segno dei tempi. L’immigrazione si è ormai stabilizzata, e gli “stranieri” di ieri si sono inseriti nella società, a volte si sono “mescolati” con gli italiani. Il copione dell’«indigeno» che aggredisce «l’altro» funziona sempre meno…
Ciò significa forse che il razzismo è scomparso, e che aggressioni di questo tipo non possono più essere ricondotte ad un clima xenofobo? Ecco, qui le cose si fanno complesse, e bisogna stare attenti a non semplificarle troppo. Vediamo meglio.

Nuove vittime…
Partiamo dalla vittima: un bengalese. I migranti del Bangladesh, a Pisa, sono ben “integrati” – come si usa dire – ma occupano un ruolo preciso nel mercato del lavoro. Sono titolari di minimarket e kebab, e gestiscono un segmento definito del commercio al dettaglio: quello dei negozi aperti a tutte le ore, che vendono a prezzi stracciati o che propongono una ristorazione economica e veloce. È difficile – per non dire impossibile – trovare un bengalese che lavora in una fabbrica o in un ufficio, o che fa l’infermiere in Ospedale. Una delle caratteristiche del razzismo è proprio questa: gruppi identificati in base al colore della pelle, alla (presunta) “cultura” di appartenenza, o al paese di origine, devono “stare al loro posto”. Possono essere accettati e persino guardati con simpatia, a patto che restino nei confini loro assegnati.

La collocazione sociale dei bengalesi li espone al rischio di diventare un “gruppo target”. I kebab e i minimarket, in effetti, sono oggetto di diffusi risentimenti. In primo luogo, ci sono i commercianti “autoctoni”, che temono la concorrenza di negozi aperti a tutte le ore: proprio la sezione locale di Confcommercio ha chiesto recentemente di bloccare il “proliferare di kebab” in città. E poi, un’attività aperta la sera fino a tarda ora attira una clientela “di strada”, fatta di clochard e senza fissa dimora: persone che, per la loro “visibilità”, rischiano di compromettere “l’immagine” di un negozio, e che per questo sono viste con sospetto e diffidenza dai titolari degli esercizi. In zona stazione, sono frequenti le risse tra commercianti bengalesi e clienti definiti come “balordi”. E poiché questi ultimi, a Pisa, sono spesso tunisini, i conflitti assumono una connotazione “etnica”: Bangladesh contro Tunisia, Asia contro Nordafrica.

… e nuovi aggressori
Da questo punto di vista, è significativo che l’aggressore sia proprio un tunisino. Ma, anche qui, siamo di fronte a un migrante “particolare”: non un “estraneo” appena arrivato, che non padroneggia la lingua e che vive solo tra connazionali. Hamza – lo abbiamo visto – frequenta coetanei italiani, e quando ha ucciso Zakir era accompagnato dai suoi amici “autoctoni”. Una banda “mista” e “meticcia”, che non per questo è necessariamente immune dal razzismo: al contrario, nelle sue scorribande prende di mira un immigrato ben identificabile, appartenente al “gruppo-target” dei bengalesi.

Infine, per completare il quadro, bisogna far cenno anche alla reazione della cittadinanza. Da un lato si sono registrate diffuse manifestazioni di solidarietà alla vittima: quasi tutti i commercianti di Piazza La Pera, ad esempio, hanno chiuso i loro negozi per una giornata in segno di lutto (un fatto tutt’altro che scontato, da queste parti).

Dall’altro lato, la tragedia ha attivato le classiche reazioni “securitarie”: la richiesta è quella di avere più telecamere, più controlli di polizia, più espulsioni di immigrati “indesiderabili” (e magari anche meno tunisini in giro per le strade…). Ma l’elemento nuovo è che queste rivendicazioni sono fatte proprie anche dai rappresentanti dei bengalesi: al classico conflitto italiani contro immigrati si è dunque sostituita una contrapposizione più articolata, dove diversi “gruppi-target” possono trovarsi su posizioni diverse e opposte. Un po’ come gli Stati Uniti di un secolo fa, dove erano frequenti gli scontri tra neri e immigrati italiani (o irlandesi).

Il delitto di Pisa, insomma, potrebbe far emergere una realtà nuova: un’Italia ormai compiutamente “meticcia”, dove gli “immigrati” di ieri stanno diventando i “cittadini” di oggi (e, speriamo, di domani). Ma dove, probabilmente, il razzismo non scompare affatto: cambia volto e natura, e al tempo stesso pervade profondamente la società.

Sergio Bontempelli, 6 Maggio 2014

Ungheria, razzismo di governo

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni, 24 Febbraio 2014 (vedi copia di Archive.org)

Guardare la “questione rom” dall’Italia – ma anche dalla Francia, dalla Spagna, e dall’Europa occidentale in generale – significa avere lo sguardo strabico. Perché nel nostro paese le minoranze rom e sinte sono appena lo 0,2% della popolazione, in Francia lo 0,5%, e nella Spagna – che lo stereotipo vorrebbe “terra dei gitani” inventori del flamenco – appena l’1,6%.

In realtà, le comunità più consistenti si trovano ad Est, nei paesi dell’Europa orientale. Solo per fare qualche esempio: in Romania e in Bulgaria, le minoranze rom rappresentano più dell’8% della popolazione, nella Repubblica Ceca sono il 2,4% dei residenti, mentre in Ungheria la percentuale sale al 3,1% (e se vi sembra un numero basso, ricordate che è quindici volte quello dell’Italia).

L’apparente “marginalità” di questi paesi nello scacchiere geopolitico del Vecchio Continente – parliamo di territori poveri, e di Stati che hanno scarsa incidenza nelle decisioni politiche dell’Unione Europea – non dovrebbe far dimenticare il loro ruolo nella diffusione dell’«antiziganismo» (cioè della forma specifica di razzismo che si rivolge contro rom e sinti). Qui, spesso, vengono sperimentate forme di segregazione e di discriminazione che finiscono per “contagiare” anche i paesi più ricchi.

È per questo che le nuove e violente forme di razzismo esplose in Ungheria non dovrebbero essere sottovalutate. E dovrebbero anzi suonare come un campanello d’allarme per tutta l’Europa (Italia compresa).

Guerra ai poveri: aggressioni, pogrom, addestramenti armati

È dell’inizio di febbraio il Rapporto pubblicato dall’Università di Harvard proprio sulla condizione dei rom ungheresi, il cui titolo è già significativo: Accelerating Patterns of Violence Against Roma in Hungary Sound Alarms (che si potrebbe tradurre, un po’ liberamente, come «un campanello d’allarme: l’escalation di violenza contro i Rom in Ungheria»). Ed è da questa pubblicazione, scaricabile gratuitamente dal web, che abbiamo tratto alcune notizie significative.

Anzitutto, la condizione sociale dei Rom nel paese magiaro è tra le più drammatiche del Vecchio Continente. Il 60% dei Rom vive in luoghi di segregazione abitativa: aree rurali isolate, ghetti urbani, periferie degradate o veri e propri slum (non nei “campi nomadi” però, che sono come noto un’invenzione tutta italiana). Il 70% si trova al di sotto della soglia di povertà, e l’aspettativa di vita è inferiore di dieci anni rispetto alla media nazionale.

Numerose sono poi le forme di discriminazione e di esclusione. Il 20% dei bambini rom – uno su cinque – frequenta la scuola in classi separate e speciali. Secondo un’indagine condotta nel 2011 dal Dipartimento di Stato Usa, quasi il 90% dei rom in età da lavoro si trova in condizioni di disoccupazione (poche sono le ditte disposte ad assumere uno “zingaro”). I cittadini rom sono spesso vittime di abusi e violenze da parte delle forze di polizia, e sono oggetto di frequenti controlli di carattere vessatorio.

È in questo clima generale di esclusione e di disprezzo che sono maturate negli ultimi anni vere e proprie esplosioni di violenza contro le comunità rom. Tra il 2008 e il 2012, l’European Roma Rights Center ha censito 61 episodi di violenza e ben nove omicidi (sette adulti e due bambini).

Ma c’è di più. In Ungheria proliferano i partiti politici e i movimenti di estrema destra, spesso legati alla galassia internazionale neo-nazista, che propagandano idee esplicitamente razziste e antisemite. Questi gruppi organizzano periodicamente veri e propri campi di addestramento paramilitare per i loro militanti: l’obiettivo è quello di formare “quadri politici” armati, pronti ad aggredire le minoranze, a scatenare disordini nelle manifestazioni e a organizzare azioni di tipo squadristico. Recentemente si è scoperto che il Fronte Nazionale Ungherese (uno dei gruppi più forti della galassia neonazista) organizza campi di formazione paramilitare praticamente ogni mese. E gli effetti si vedono.

Le contiguità con la politica “ufficiale”

Ma non è solo la violenza dell’estrema destra a preoccupare i ricercatori dell’Università di Harvard. Il vero problema è che le formazioni ultranazionaliste e xenofobe hanno solidi agganci e forti contiguità con la politica “ufficiale”, cioè con il Governo, con le amministrazioni locali e con le burocrazie statali.

Un dato è in questo senso significativo: i campi di addestramento paramilitare sono illegali – in Ungheria come in tutta Europa –, eppure nessuno finora è stato indagato né condannato per queste iniziative. Al contrario, le milizie dell’estrema destra agiscono spesso con la copertura delle forze di polizia, mentre leggi recenti hanno autorizzato il possesso di armi per la “difesa personale”.

Il Governo raramente stigmatizza gli episodi di violenza contro i rom, e le autorità di polizia raramente aprono inchieste contro i responsabili di crimini a sfondo razziale. Il clima diffuso di impunità fa da moltiplicatore agli episodi di violenza: secondo quanto riferiscono numerose Ong attive in Ungheria, i linciaggi sono ormai percepiti come una forma legittima di “punizione collettiva”. Un po’ come accadeva nel Sud degli Stati Uniti cento anni fa. E come potrebbe accadere in tanti altri paesi (Italia inclusa) se non si promuovono efficaci politiche di contrasto all’antiziganismo.

Sergio Bontempelli

La strategia della distrazione

 

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni

La campagna anti-immigrati della Lega sembra fatta apposta per racimolare voti. Non sarà che, con la scusa di “difendere gli italiani”, ci stanno prendendo in giro?

Forse siamo ammalati di “dietrologia”, ma quello della Lega Nord ci sembra un giochino troppo facile. Che funziona, grosso modo, in tre tappe.

Nella prima si lancia l’esca: si fanno dichiarazioni roboanti contro Cécile Kyenge, si sparano slogan improbabili sull’invasione degli immigrati, si ribadisce che gli “italiani sono bianchi” e che la “Ministra nera” deve “tornare in Africa”.
Nella seconda tappa ci si siede in poltrona e si aspettano le reazioni: ci sarà sempre chi (giustamente, sia chiaro) stigmatizza la “xenofobia”, chi rievoca con angoscia le leggi razziali, chi richiama tutti al doveroso rispetto delle istituzioni…
Nella terza tappa non si fa altro che incassare il risultato. Gli “antirazzisti” hanno recitato la parte dei difensori dello status quo: parlano di “tolleranza”, ma lo fanno a pancia piena, ignorando le “sofferenze del popolo”. All’inverso, i “cattivi” – gli xenofobi, i razzisti – sono quelli che “dicono le cose come stanno”, pane al pane vino al vino: sì, se la prendono con gli immigrati, ma perché “difendono gli italiani”, stanno dalla parte della gente comune. E la gente comune non ne può più dell’arroganza dei politici, del lavoro che non c’è, della crisi che avanza, delle tasse, della burocrazia e naturalmente degli immigrati…

Giochi di prestigio
Ma davvero la Lega Nord difende “gli interessi degli italiani” (o dei padani, a seconda dei casi)? Fate caso alle date. Siamo nel mese di gennaio. A maggio si terranno le elezioni europee, e dunque ci troviamo già, di fatto, in campagna elettorale. Nel dicembre 2013, appena un mese fa, la Procura di Milano aveva rinviato a giudizio una decina di dirigenti della Lega Nord per truffa aggravata ai danni dello Stato (cioè dei contribuenti).

Vediamo rapidamente le accuse. Rosi Mauro, ex senatrice del Carroccio, è indagata per appropriazione indebita di 99.731,50 euro. Renzo e Riccardo Bossi, i due figli del Senatur, avrebbero usato a fini personali più di 300 mila euro di fondi pubblici (provenienti dai cosiddetti “rimborsi elettorali”): in particolare, il famoso “Trota” avrebbe speso circa 77 mila euro per comprarsi la laurea in Albania. Per l’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito si parla di almeno due milioni di appropriazione indebita di fondi pubblici.

Certo, si tratta di accuse che dovranno essere dimostrate in Tribunale. Ma lo scandalo è finito sulle prime pagine di tutti i giornali e ha fatto il giro del web: l’immagine pubblica del Carroccio ne è uscita a pezzi, tanto che una parte dell’elettorato leghista ha preferito votare per i Cinque Stelle. A pensar male si fa peccato, d’accordo, ma il rinnovato attivismo della Lega fa proprio pensar male. O no?

I precedenti: Sarkozy in Francia…
Del resto, il giochetto di scatenare una campagna anti-immigrati per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica non è affatto nuovo. Se ne conoscono illustri precedenti.
Nell’Estate 2010, Nicolas Sarkozy viene travolto dallo “scandalo Bettencourt”: secondo le accuse lanciate da due quotidiani transalpini nel mese di giugno, Liliane Bettencourt – ricca ereditiera del gruppo L’Oreal – avrebbe finanziato al nero la campagna elettorale del presidente francese: il Ministro del Lavoro Eric Woerth, in particolare, è accusato di aver preso soldi in contanti per finanziare l’Ump, il partito di Sarkozy.

Travolto dalle polemiche, il Presidente pensa bene di scatenare una virulenta campagna contro i rom: già alla fine dell’Estate viene predisposto il piano di “rimpatri volontari” per i rom in condizione irregolare, e il 20 agosto, dall’aeroporto di Lione, parte il primo volo per Bucarest, carico di “zingari indesiderabili”.
Ne scaturisce una polemica internazionale: a stigmatizzare il razzismo sarkozista intervengono persino l’Ue e il Vaticano. Intanto, però, nessuno parla più dello scandalo Bettencourt. Per Sarkozy obiettivo raggiunto: l’uomo dell’Eliseo, agli occhi degli elettori, non è più il politico che ha intascato tangenti, ma il coraggioso difensore dei francesi contro l’invasione dei rom. Facile, no?

… e Veltroni in Italia
Sia chiaro: la “strategia della distrazione” non è un’esclusiva delle destre. Anzi.
Facciamo un piccolo passo indietro. Siamo nel 2007, e a Palazzo Chigi siede il secondo governo Prodi. È un esecutivo che non gode di grandi simpatie popolari, per varie ragioni. Anzitutto, perché la coalizione che lo sostiene è molto debole, e dunque incapace di azioni incisive. Grazie alla legge elettorale rimasta in vigore fino ad oggi (il “porcellum”), dalle urne è uscito un risultato a dir poco bizzarro: mentre alla Camera il centro-sinistra gode di un ampio sostegno parlamentare, al Senato la maggioranza è tale per appena 10 voti, gran parte dei quali provenienti dai senatori a vita.

D’altronde, le scelte dell’esecutivo scontentano un po’ tutti. L’indulto, approvato l’anno prima, ha mandato su tutte le furie l’elettorato “giustizialista”, mentre l’opinione pubblica pacifista è rimasta delusa dal rifinanziamento delle missioni militari all’estero. Di crisi economica non si parla ancora, ma dall’altra parte dell’Oceano è già scoppiata la bolla dei mutui subprime, e il futuro si presenta tutt’altro che roseo. Insomma, il centro-sinistra teme di perdere le elezioni, e cerca qualcosa per recuperare consensi.

Quel “qualcosa” lo trova il Sindaco di Roma, Walter Veltroni. Il 31 ottobre 2007, alla stazione di Tor di Quinto, una donna – Giovanna Reggiani – viene seviziata e uccisa. L’omicida è un giovane romeno, Romulus Mailat. Il primo cittadino della Capitale convoca d’urgenza una conferenza stampa: la colpa, dice, è dell’eccessiva immigrazione romena, favorita dall’ingresso di Bucarest nell’Unione Europea e dalla conseguente apertura delle frontiere. Sollecitato da Veltroni, il Consiglio dei Ministri si riunisce d’urgenza e vara un “pacchetto sicurezza” che agevola le procedure di espulsione dei cittadini comunitari.

Da quel momento, l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra sui romeni, e in particolare sui rom: in tutte le Prefetture vengono convocati d’urgenza i Comitati per l’Ordine e la Sicurezza, si raccolgono compulsivamente dati sulle presenze romene, si predispongono espulsioni e sgomberi. Anche in questo caso, il gioco è fatto: invece di discutere dell’incipiente crisi economica, o delle insufficienti politiche del lavoro, tutti parlano di “pericolo zingaro” e di “emergenza romeni”…

Zingaropoli a Milano: la sconfitta della “strategia della distrazione”
Bisogna anche dire che la “strategia della distrazione” non funziona sempre. C’è un caso clamoroso in cui non ha funzionato, e può essere interessante vedere perché.
Siamo a maggio del 2011. Milano è in piena campagna elettorale in vista del ballottaggio per le amministrative. La Sindaca uscente, Letizia Moratti, è in difficoltà, rischia di perdere e ha bisogno di risalire la china. Anche in questo caso, il centro-destra mette in atto la “strategia della distrazione”: e dunque il candidato rivale, Giuliano Pisapia, viene accusato di voler riempire la città di moschee e campi nomadi (la “zingaropoli islamica”: ricordate?).

Un gruppo di burloni scrive via twitter alla Moratti: «il quartiere Sucate dice no alla moschea in Via Giandomenico Puppa». Naturalmente non esiste nessun quartiere “Sucate”, né tantomeno nessuna via intitolata a “Giandomenico Puppa”. Ma lo staff della Moratti ci casca, e risponde: «nessuna tolleranza per le moschee abusive». Lo scambio di battute fa il giro della rete, e si diffonde in modo virale: nascono blog sarcastici che descrivono il paradiso di Sucate, «bellissimo quartiere pieno di rom, centri sociali e moschee», si diffondono battute e barzellette, e i social network sono letteralmente sommersi dal tormentone. La “strategia della distrazione” è stata messa in ridicolo. E alla fine, Letizia Moratti perde lo scranno a Palazzo Marino.

Rispondere “a tono”
Intendiamoci. È probabile che non tutti gli elettori milanesi abbiano maturato convinzioni antirazziste. Può darsi che molti sostenitori di Pisapia nutrano sentimenti di diffidenza nei confronti di rom, immigrati e minoranze religiose. È possibile che tanti cittadini esultino ancora nel sentire le notizie sugli sgomberi nei “campi nomadi”. Non siamo di fronte cioè a un’improvvisa “conversione” dell’elettorato.
Più semplicemente, la gente ha capito che la “tolleranza zero” è, spesso, un imbroglio, una strategia per deviare l’attenzione. Chi agita lo spettro dell’invasione degli immigrati è, di solito, assai poco interessato ai flussi migratori o alla “difesa degli italiani”, e molto più attento al proprio tornaconto elettorale.

Se questo è vero, forse (forse) bisognerebbe rispondere a tono. Di fronte alla campagna della Lega, è certo necessario stigmatizzare il razzismo: ma probabilmente si dovrebbe anche cambiare registro. La Lega vuole che si parli di immigrazione per recuperare terreno elettorale. E invece è necessario che si parli proprio della Lega Nord, delle inchieste che la riguardano, e delle accuse gravissime – tutte da verificare, ovviamente – che l’hanno investita: corruzione, uso spregiudicato di fondi pubblici, appropriazione indebita di risorse provenienti dalle tasche dei cittadini.
Questi sarebbero i “difensori degli italiani” (o dei padani)? Ma fateci il piacere…

Sergio Bontempelli

 

Il giudice al Bar Sport

Originariamente pubblicato su Corriere delle Migrazioni, 13 Gennaio 2014 (vedi copia su Archive.org)

«Lo sanno tutti, gli zingari non vogliono lavorare». Che una frase del genere sia pronunciata al Bar Sport, tra un cappuccino e un commento alle partite della domenica, uno se lo può anche aspettare. Ma che la stessa frase – leggermente corretta, grazie all’uso pudico della parola “rom” al posto del più crudo “zingari” – la dica un esponente della Corte di Cassazione, è un pochino più grave.

E invece assistiamo anche a questo, nel nostro disastrato paese. L’8 gennaio, sul quotidiano Libero, appare un articolo firmato da Bruno Ferraro, che la stessa testata qualifica, appunto, come Presidente Aggiunto Onorario – rigorosamente in maiuscolo – della Corte di Cassazione.

Il titolo è già tutto un programma: «Ius soli, Cie e campi rom, quante bugie ci hanno raccontato». Non è molto chiaro perché questi tre argomenti così diversi vengano messi insieme. Per di più, il Giudice si lascia andare a commenti tanto rabbiosi quanto superficiali. Così, per il Nostro, rifiutare la cittadinanza a bambini nati e cresciuti in Italia è addirittura un modo per «tutelare una civiltà» (e menomale che l’ha scritta in minuscolo…). Le frontiere italiane sono immancabilmente definite «gruviera», mentre viene stigmatizzata «l’accoglienza senza limiti e senza condizioni», proposta non si sa da chi, né quando. Sui Cie, Ferraro si chiede: «Che ne faremo di tutta questa gente [gli immigrati, ndr.], tra la quale sono purtroppo largamente presenti soggetti malavitosi o destinati ad essere fagocitati dalla nostra malavita».

Alla fine di questo bel campionario di luoghi comuni, non poteva mancare un cenno al tema preferito del Bar Sport: i “nomadi”. Con piglio da raffinato etnografo, Ferraro ci informa che «un autentico rom è soggetto che sceglie di rimanere apolide, senza patria e senza fissa dimora: soprattutto rinunziando per scelta di vita ad un lavoro sedentario».

E menomale che ce lo spiega lui: ché sennò rischiavamo di dar credito alle numerose e documentate ricerche, uscite in questi anni, che dimostrano come i rom non siano affatto “nomadi”, e come i “campi” siano frutto di una politica – sbagliata e discriminatoria – perseguita dal nostro paese (e non la collocazione “naturale” dei rom e dei sinti).

Con atto d’imperio, il Giudice Onorario decide inoltre di revocare la cittadinanza a tutti i rom e i sinti. Molti di loro credono di essere italiani (la maggioranza, secondo dati recenti), o cittadini di paesi dell’ex Jugoslavia (croati, sloveni, bosniaci, macedoni ecc.) o ancora romeni e bulgari. Nulla di più sbagliato, dice il Nostro: un «autentico rom» è per definizione un “apolide” e un “senza patria”.

Prendano nota gli ingenui. E provvedano gli enti pubblici, gli Uffici Anagrafe dei Comuni e le autorità degli Stati di origine: in giro ci sono ancora un sacco di rom e sinti muniti di una cittadinanza di qualche Stato europeo, e persino di quella italiana.

Certo è strano leggere queste parole da un Presidente Onorario della Corte di Cassazione: perché proprio la Cassazione ha confermato, con una sentenza del 2013, l’annullamento del decreto sull’emergenza nomadi (di fatto dichiarando che non esiste nessuna “emergenza”). La sentenza ha aperto la strada a una politica diversa in materia di rom, fondata non più sulla segregazione nei campi, ma su una vera e propria “strategia di inclusione” (sociale, lavorativa, abitativa).

Bruno Ferraro ci fornisce, per così dire, l’«interpretazione autentica» della sentenza. Sentite qui: «I rom continuino a fare i rom senza disturbare e senza essere disturbati. I campi rom non sono luogo di segregazione ma opportunità che i rom sono liberi di accettare o rifiutare… senza protestare». Capito?

Sergio Bontempelli

Leggi anche:

Il comunicato dell’Associazione 21 Luglio

Roma Identity: sfatare i pregiudizi su rom e sinti

«Così educata, non sembra proprio zingara»

Per un attivista che “si occupa di rom” – come si usa dire – il posto più difficile da frequentare è il bar. Perché se tieni una conferenza, o se entri in una scuola a discutere coi ragazzi, hai tempo e modo di articolare un discorso. Provi a decostruire pregiudizi e stereotipi, e i tuoi uditori ti ascoltano in silenzio. Lo vedi che sono scettici, che non credono a quel che dici: ma almeno ti guardano con il rispetto che si deve all’«esperto».

Al bar no. Al bar, davanti a un cappuccino caldo, tutti sono “esperti”, soprattutto dell’argomento “zingari”. «Te lo dico io, non si integrano, vivono di furti e di illegalità». Le tue statistiche e i tuoi studi non contano nulla. «Puoi raccontarmi quel che ti pare, ma io li conosco, l’altro giorno mi sono entrati in casa e hanno rubato l’argenteria di famiglia…». Stop. Fine del ragionamento.

Come si distingue un rom?
Ecco, fuori dal bar il discorso sull’argenteria sarebbe interessante da approfondire. Ti hanno rubato in casa, e tu hai visto il ladruncolo mentre scappava. Era uno “zingaro”, dici: ma come fai a saperlo? Con quale criterio distingui un rom? Lo riconosci dal colore della pelle, dai tratti somatici, dall’aspetto? Impossibile, perché tra i rom ci sono i biondi, i mori e i castani, c’è chi ha la pelle chiara e chi è più scuretto, chi è alto e chi è basso…
Forse hai riconosciuto il “tipico abbigliamento zingaro”. Magari non era un ladro ma una ladra, e aveva la gonna lunga e colorata… Ora, ammesso (e non concesso) che la gonna lunga sia “tipicamente rom”, non ti viene il sospetto che la ragazza in fuga abbia usato un travestimento per sviare i sospetti? E d’altra parte, se la ladra era davvero rom perché è andata a rubare vestita in modo così riconoscibile?

Forse un buon criterio per identificare un rom potrebbe essere la lingua, ma quanti sono in grado di riconoscere una persona che parla romanes?
Al bar, però, obiezioni del genere non contano. Suonano come i sofismi di uno che ha studiato troppo. «Il ladruncolo era uno zingaro, l’ho visto coi miei occhi, cosa vuoi di più?». Stop. Fine del ragionamento.
Al bar non contano i ragionamenti, contano le storie. E allora proviamo a raccontarla, una storia. È una storia vera che mi è accaduta in questi giorni. E che mostra come i pregiudizi condizionino non solo le nostre idee, ma anche le percezioni, quel che “vediamo coi nostri occhi”, quel che ci sembra oggettivo e irrefutabile.

Un viaggio da manager
È martedì, e come sempre vado al lavoro di buon mattino. Oggi però è un giorno speciale, devo uscire dall’ufficio un po’ prima perché parto: mi hanno invitato a tenere un ciclo di seminari proprio sull’argomento rom, a Udine. Per arrivare dalla mia Toscana al lontano Friuli devo fare un percorso lungo e accidentato, con tre cambi di treno: dopo il regionale da Montecatini Terme a Firenze, devo prendere l’Alta Velocità per Venezia-Mestre, quindi di nuovo un regionale che mi porta a Udine.

Armato di pazienza, comincio il mio viaggio sul regionale. Salgo, prendo posto, mi siedo e accendo il computer: devo finire le slide che mi servono per far lezione, e comincio a lavorare. Sono ben vestito (meglio del solito, almeno…), consulto libri e documenti, armeggio col mouse, prendo qualche appunto sull’Ipad e di tanto in tanto rispondo al cellulare: devo avere l’aria di uno quegli odiosissimi manager che lavorano ovunque, sul treno come in ufficio, alla fermata dell’autobus come sulla panchina al parco… Intorno a me noto occhi curiosi che mi scrutano, con un senso di rispetto misto a invidia.

La “zingara” del treno regionale…
Mentre lavoro vedo passare Maria, una ragazza rom romena che conosco di vista: di solito chiede l’elemosina sul treno, e io le do sempre qualcosa. Si avvicina e mi tende la mano per chiedere qualche spicciolo: poi mi riconosce, trasale e sorride. Col mio rumeno un po’ maccheronico le chiedo come sta. Mi dice che nelle ultime settimane la vita è più dura del solito, la questua non “rende” bene e lei non ha i soldi per mangiare.

Può darsi che sia vero, può darsi che sia un modo per strappare qualche spicciolo in più: per me non ha importanza, e le allungo una moneta da due euro. Lei sorride di nuovo, mi ringrazia e si siede un attimo. Continuiamo a parlare del più e del meno, le chiedo se ha programmi per Natale e lei mi dice che, finalmente, passerà le vacanze a casa, in Romania. «Fa freddo laggiù», spiega, «adesso c’è la neve». Poi si alza, saluta e se ne va.
La scenetta non è passata inosservata. I viaggiatori mi guardano attoniti. Prima sembravo un manager indaffarato, ma i manager di solito non parlano con gli zingari. Già, perché Maria sembra proprio una “zingara”: ha l’aspetto trasandato, chiede l’elemosina e porta una gonna lunga e colorata…

… e la strana ragazza sull’Eurostar
Arrivato a Firenze, corro al binario e salgo sul treno Alta Velocità, quello per Venezia. L’ambiente è decisamente diverso: qui non ci sono i pendolari, ma – appunto – i manager indaffarati. Rispondono al telefono e li senti parlare di bilanci, di contratti, di accordi commerciali da perfezionare, di meeting da organizzare. La voce dell’altoparlante invita a gustare le prelibatezze del bar al centro del treno: fuori dal finestrino, le gallerie si alternano ai paesaggi delle montagne toscane. Cullato dal treno, mi addormento.
Dopo poco più di mezz’ora siamo a Bologna. Sale una ragazza giovanissima e si siede accanto a me. È vestita elegante ed è truccata con molta cura. Saluta il fidanzato dal finestrino e gli manda un bacio romantico, uno di quelli “soffiati” sul palmo della mano… Poi, quando il treno riparte, si mette a sfogliare una rivista.

Nel bel mezzo del viaggio le squilla il cellulare. Si mette a conversare al telefono e sento che non è italiana: parla una lingua che non riesco a identificare. Frequentando gli immigrati, mi sono abituato a sentirne tante, di lingue: ovviamente non le capisco, ma sono in grado di distinguere un albanese da uno slavo, un rumeno da un ucraino, un russo da un georgiano. Ma la ragazza proprio no, non capisco da dove viene. La ascolto con attenzione e mi pare di sentire qualche parola in romanes. Però no, non può essere rom: non ne ha l’aspetto, non parla con la tipica gestualità “alla zingara”, non è vestita da rom… E poi, si è mai vista una rom sul treno ad Alta Velocità?

La romnì «invisibile»
Mentre cerco di identificare la provenienza della ragazza, mi squilla il telefono. È un amico senegalese che ha problemi con il permesso di soggiorno. Gli fornisco qualche consiglio, poi gli dico di passare al mio ufficio: l’argomento è delicato, ed è bene capire la situazione controllando di persona documenti e carte.

Quando riaggancio mi accorgo che la ragazza mi sta guardando. «Ma tu sei un avvocato?», mi chiede. Le rispondo che no, non sono avvocato, lavoro per i Comuni e mi occupo di permessi di soggiorno. Mi spiega che suo padre ha problemi con i documenti, e mi chiede consigli. Scopro così che la ragazza è macedone. Ma qualcosa non torna.
Conosco bene la lingua macedone. Voglio dire, non la parlo e non la capisco, ma la riconosco quando la sento. E la ragazza no, proprio non parlava macedone. Nei Balcani ci sono consistenti minoranze albanesi, ma lei non parlava neanche albanese. Non riesco a vincere la curiosità, e mi faccio avanti: «Ma che lingua era quella al telefono?». La ragazza trasale, ha un momento di imbarazzo e farfuglia: «No, non era macedone… la mia lingua è…». Si ferma un attimo. Si vede che non sa proprio come dirmelo. «Ecco, in casa parliamo una specie di… di lingua sinta…».

«Una specie di lingua sinta» significa che la ragazza parla romanes. È una romnì macedone («romnì», per chi non lo sapesse, è il femminile di «rom»). Provo a sciogliere il suo imbarazzo, le dico che ho molti amici rom che vengono proprio dalla Macedonia. Ci mettiamo a parlare, e scopro che la ragazza abita a Bologna, ma il fidanzato è un sinto di Pisa, la mia città. Facciamo amicizia e alla fine ci scambiamo i numeri di telefono. «Se mi sposo a Pisa ti chiamo e vieni alla mia festa di matrimonio».

La morale della favola
La “morale” di questa piccola storiella ci riporta alle conversazioni da bar di cui si parlava prima. Crediamo tutti di sapere chi sono gli “zingari”, e come sono fatti. Chiunque è (crede di essere) in grado di riconoscere un rom, o una romnì. E su questa percezione intuitiva costruiamo i nostri discorsi: «tutti i nomadi chiedono l’elemosina, nessuno lavora» (come se l’elemosina fosse una cosa orribile, e non un lavoro come gli altri: ma questo è un altro discorso, e ci porterebbe lontano…). «Io li ho visti, rubavano i portafogli ai passanti». «Ero sull’autobus e c’era una nomade che non aveva pagato il biglietto: non ce n’è una che rispetti le regole…». E gli esempi potrebbero continuare.

Non pensiamo mai che quel che vediamo è anch’esso frutto di pregiudizi. Non ci viene in mente che il nostro educato vicino di casa, che incontriamo sull’ascensore al mattino, potrebbe essere rom. Sul treno, non ho pensato che la mia “compagna di viaggio”, elegante e ben vestita, era una romnì macedone.

I rom, quelli veri e in carne ed ossa, non sono come li immaginiamo. Come dice un mio amico sinto, «se vuoi davvero sapere chi siamo, devi conoscerci uno a uno, perché i sinti non sono tutti uguali». È una verità semplice, questa. Ma chissà perché, quando si parla di rom, anche le cose banali diventano complicate da vedere e da capire.

Sergio Bontempelli

Il partigiano Zajko

Originariamente pubblicato sul Corriere delle Migrazioni

Quest’uomo io lo conosco da sempre: da quando, quasi venti anni fa, ho cominciato a frequentare il “campo nomadi” di Coltano, vicino a Pisa. Piccoletto di statura, con una coppola in testa che gli conferisce un’aria quasi da contadino siciliano, con il tono compassato di un vecchio saggio, Zajko è una specie di “istituzione” del campo.

È in Italia stabilmente dal 1988, ed è stato uno dei primi rom bosniaci ad arrivare a Pisa. Davanti alla sua baracchina ha visto transitare i “nuovi” immigrati rom, i profughi della guerra degli anni novanta. E ha cresciuto almeno tre generazioni, tra figli, nipoti e bisnipoti. Un vero e proprio custode della “memoria storica” di Coltano.

Sì, lo conosco da sempre, Zajko. E lo conoscono i tanti operatori, assistenti sociali e volontari che nel corso degli anni hanno frequentato il campo. Ma non tutti hanno avuto la pazienza di ascoltare quel simpatico ometto con la coppola. Perché Zajko si esprime in un italiano tutto suo: che non è un italiano “scorretto”, ma una lingua ibrida, pronunciata con un forte accento slavo, piena di costruzioni sintattiche romanes e bosniache, infarcita di parole che sembrano strane, e a volte anche un po’ buffe.
Non sempre lo capisci al primo colpo, e per entrarci in contatto hai bisogno di tempo: devi passarci qualche pomeriggio, condividere un caffè, fare due chiacchiere così senza scopo. E invece gli operatori, tutti presi dai loro “progetti”, non hanno il tempo per ascoltare. Vanno al campo per convincere, spiegare, illustrare, parlare. Hanno sempre qualcosa di importante da dire, e non si prendono mai la briga di sedersi un attimo.

La storia di Zajko
La storia di Zajko è venuta fuori per caso, in una fredda giornata di inverno di tre anni fa. Con gli altri volontari dell’associazione Africa Insieme eravamo andati al campo, a far visita ad alcuni amici: l’aria gelida della sera ci aveva convinto a entrare nella baracca di Zajko, a prendere un buon caffè caldo.
C’era confusione e non si capiva molto: i bambini giocavano e urlavano, una ragazza più grande ci chiedeva di spiegarle una cosa di matematica che non aveva capito a scuola. E poi le due figlie di Zajko avevano avuto problemi in Questura con il loro permesso di soggiorno, ci chiedevano di aiutarle ma non c’era verso di farle parlare una alla volta. Un gran caos, insomma.

Zajko sembrava farfugliare qualcosa, ma i familiari ci dicevano di non dargli retta, «è vecchio e non si capisce mai quello che dice». Però il “vecchio” aveva pronunciato una parola che non avevamo mai sentito al campo, e che ci aveva incuriosito: «ustascia». Sì, Zajko parlava degli Ustascia, i fascisti croati amici di Hitler, che avevano fondato uno Stato Indipendente Croato alleato della Germania.
«Io visto cartelli», insisteva il nostro amico aggiustandosi la coppola, «cartelli sui muri, dicevano evrei srbi e zingari tutti ammazzare». Zajko aveva assistito all’arrivo delle leggi razziali nel territorio croato (che all’epoca includeva anche la Bosnia): le vittime designate erano – per l’appunto – ebrei, serbi e rom.

Gli ustascia, le leggi razziali, lo sterminio
Secondo alcune stime, gli Ustascia uccisero il 75% degli ebrei presenti nel Paese prima della guerra. Quanto ai serbi, interi villaggi furono dati alle fiamme, sacerdoti e altri esponenti religiosi ortodossi furono massacrati nelle loro chiese, circa 200 mila persone dovettero subire la conversione forzata al cattolicesimo.
Fra gli “zingari” – ci informa Mirella Karpati – «le vittime accertate fino al 1998 furono 2.406, di cui 840 bambini. Il campo più terribile era quello di Jasenovac, dove si uccidevano le persone con metodi barbari. Né mancarono campi destinati ai bambini, come quello di “rieducazione” a Jastrebarsko, dove fra l’aprile 1941 e il giugno 1942 morirono 3.336 bambini di varie etnie. Nel campo per le donne di Stara Gradiska morirono oltre trecento bambini zingari».

Da partigiano ad immigrato
Zajko aveva visto le prime avvisaglie di quella tragedia: i cartelli, affissi per le strade, che annunciavano la volontà di “ripulire” la Croazia dalle “razze maledette”: ebrei, serbi e rom («evrei srbi e zingari tutti ammazzare»). E aveva deciso di scappare, rifugiandosi in montagna. Qui aveva incontrato i partigiani di Tito, e si era unito a loro. Un pezzo di storia del Novecento riemergeva dalle parole un po’ farfugliate di quell’ometto in apparenza così modesto.

Zajko era stato ferito ed era finito all’Ospedale: poi, uscito, aveva continuato a combattere. Finita la guerra, era andato a Zagabria, dove con la sua formazione partigiana aveva conosciuto Tito. Quindi era tornato finalmente a casa, si era sposato e aveva costruito la sua famiglia. Aveva avuto una prima esperienza migratoria in Italia negli anni Cinquanta: era stato a Napoli, poi a Piacenza a fare il barista. Ma la vera e propria migrazione – quella definitiva – era avvenuta nel 1988: da allora non è più tornato in Bosnia.

Quando abbiamo ascoltato il suo racconto, abbiamo deciso che questa piccola storia – legata alla Storia più grande, quella con la lettera maiuscola, che si legge nei libri e si studia all’Università – doveva essere raccontata. È nato così un video, prodotto da un gruppo di volontarie della nostra associazione, che trovate qui sotto liberamente visionabile e scaricabile.

Una bandiera alla finestra
Ho continuato a frequentarlo, Zajko. Lo incontriamo tutte le volte che andiamo al campo. Oggi ha problemi di salute dovuti all’età – più di ottanta anni – e fa sempre più fatica a lavorare. Era un calderaio, un artigiano del rame: vendeva i suoi prodotti ai mercati, e con quelli si manteneva. Negli ultimi anni i dolori e gli acciacchi gli hanno reso quasi impossibile continuare. Il Comune gli ha assegnato una “casetta”, perché nel frattempo il campo di Coltano è stato trasformato in un “villaggio” di alloggi in muratura: ma lui, senza reddito, fatica a pagare l’affitto, e rischia lo sfratto.

L’esperienza della guerra lo ha segnato in profondità, forse più di quanto non sia disposto ad ammettere lui stesso. Perché di guerre, Zajko, ne ha conosciute due: la prima l’ha vissuta da partigiano, da protagonista e in qualche modo da vincitore. La seconda – quella degli anni Novanta – l’ha sorpreso mentre era in Italia, e di fatto l’ha “intrappolato” a Pisa, impedendogli il ritorno a casa.

Quando parla di guerra abbassa gli occhi, Zajko. E il suo sorriso si spegne. La sua “seconda” guerra, il tragico conflitto balcanico degli anni Novanta, non lo racconta volentieri. Ma ogni volta che in televisione sente parlare di bombardamenti, di profughi in fuga, di scontri militari, si preoccupa e ci chiede spiegazioni: vuol sapere che sta succedendo, se il teatro del conflitto è vicino o lontano, se sono coinvolti i civili, se la diplomazia sta facendo il suo lavoro e se le armi si fermeranno.
Nel comodino accanto al letto Zajko tiene una bandiera arcobaleno della pace. E, quando alla televisione parlano di guerra, la appende alla finestra, così che le macchine che sfrecciano sull’autostrada possano vederla.

Sergio Bontempelli

Zajko. Un video di Africa Insieme from Africa Insieme on Vimeo.

Video di Sara Palli, Alice Ravasio, Francesca Sacco, Marta Lucchini, Irene Chiarolanza, Diana Ibba. Prodotto dall’associazione Africa Insieme di Pisa nell’ambito del progetto “volontari come in un film”, con la collaborazione di Cesvot, Aiart, Progetto Rebeldia. Musiche originali di Pasqualino Ubaldini

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