Migranti, guerra, movimento

Pubblicato su «I Ciompi», mensile del gruppo Rifondazione Comunista alla Regione Toscana, n. 6, Ottobre 2001

La nostra memoria collettiva sulle vicende di Genova è condizionata, come è ovvio, dalle violenze subite il 20 e il 21 Luglio. Eppure, quelle giornate sono state precedute dal corteo dei migranti, pacifico e numeroso molto oltre le aspettative, che ha chiesto diritti, libertà di circolazione e di soggiorno, cittadinanza piena.

Chi, come noi, era presente a quella manifestazione, ne ha avvertito la novità: non solo per i numeri –50.000 partecipanti in un giorno lavorativo-, ma anche per l’incontro tra le realtà raccolte nel GSF e il mondo dei migranti: evento tutt’altro che scontato.

Appena un anno prima, il 17 Giugno 2000, migliaia di persone avevano pacificamente invaso la città di Brescia: erano cittadini stranieri che chiedevano il permesso di soggiorno dopo le vicende seguite alla sanatoria del 98. Anche in quel caso, il corteo fu lungo e numerosissimo. Pakistani, bengalesi, maghrebini, senegalesi e tanti altri, e la parola “soggiorno” in tutti gli striscioni. Una richiesta elementare: il diritto ad avere diritti, ad essere riconosciuti, a cercare casa e lavoro, a vivere serenamente senza l’ansia di essere identificati ed espulsi dalla polizia.

Tra le due manifestazioni ci sono pochi mesi di distanza e molte similitudini. Ma anche una differenza: a Genova la partecipazione dei migranti, pur numerosa, non ha avuto le dimensioni di quella di Brescia. Le delegazioni delle comunità erano molte, ma molte le assenze degne di nota. Dovute anche, certo, alle difficoltà della vigilia: la convocazione in giorno lavorativo, l’assenza di autorizzazione fino a poco prima, le minacce delle autorità di pubblica sicurezza e gli sgomberi di alloggi genovesi abitati da “clandestini”. Questi fattori hanno reso tanto più notevole la presenza a Genova di moltissimi migranti, ma non deve sfuggire il problema: lo scarto tra la sensibilità del GSF, e del complesso mondo che esso ha rappresentato, e la difficoltà ad incontrare concretamente i cittadini stranieri e le loro forme autonome di organizzazione.

Le associazioni e i gruppi che si sono incontrati nel GSF costituiscono un universo variopinto ed eterogeneo, non riducibile a un denominatore comune. Nessun collante ideologico “forte”, nessun “progetto politico” definito sembrava tenere insieme la babele di sigle e di persone che hanno attraversato Genova in quei giorni: dalle suore di Boccadasse alle Tute Bianche, si è detto scherzosamente. In altri tempi si sarebbe pensato, forse, che esperienze così diverse non avrebbero “retto” senza una qualche forma di coesione, di unità o di omogeneità culturale, o almeno senza una direzione politica unificante: oggi ci troviamo invece a constatare che proprio questa dispersione e questo “caos” hanno avuto, per così dire, una strana efficacia, uno strano potere di coinvolgimento, una strana forza.

Si possono dare molte interpretazioni di questa “stranezza”. A noi sembra che una lettura possibile –non la sola, né la più importante- sia quella della cittadinanza: tante persone così diverse non erano lì sulla base di una identità comune riconoscibile, ma perché chiedevano di essere a pieno titolo cittadini di questo mondo. Se gli Stati nazionali, e le istituzioni rappresentative, perdono la loro sovranità, se le decisioni rilevanti per il futuro del Pianeta e dei suoi abitanti vengono prese da gruppi ristretti non eletti da nessuno (WTO, G8, FMI, etc.), la questione della cittadinanza assume un peso rilevante. Tanto più che le decisioni prese da questi organismi riguardano da vicino la vita e l’esistenza materiale di milioni di persone: l’accesso ai farmaci, l’assetto climatico del Pianeta, persino ciò che mangiamo (pensiamo agli OGM) sono questioni discusse in sedi separate, dalle quali vengono escluse, letteralmente, milioni di persone. Come possiamo garantire che questi milioni di individui possano decidere, avere peso, vedere tutelati i propri diritti? I manifestanti di Genova ponevano questo problema, ormai ineludibile, al di là della loro appartenenza sociale, politica, ideologica: di qui, ci sembra, la loro eterogeneità e la loro contestuale, e apparentemente “strana”, efficacia.

Il tema della cittadinanza subisce oggi una forte torsione con la guerra, o meglio con l’insieme di eventi seguiti agli attentati dell’11 Settembre. Si tratta, ci sembra, di una guerra particolare: un conflitto non tra Stati sovrani, ma tra l’insieme delle nazioni più sviluppate ed un nemico invisibile, non compiutamente riconoscibile. Gli attentati non sono stati rivendicati, e il “nemico” non è un “altro Stato”, ma il terrorista, il clandestino, qualcuno che presumibilmente si annida dentro il “nostro” mondo: qualcuno che potrebbe abitare con noi, che si nasconde, forse, nelle nostre città e che pure è estraneo/straniero. Lasciamo ad altri, più competenti di noi, l’identificazione dei “colpevoli” dell’attentato, e anche dei loro legami economici e politici nel mondo globale. Qui ci interessa, per così dire, l’immagine della guerra: il nemico è interno, e giustifica la paura, il dispiegamento di imponenti misure di sicurezza, le perquisizioni, il controllo di polizia. Saremo tutti meno liberi, si è detto: gli aerei verranno controllati, le comunicazioni via internet sorvegliate, ciascuno di noi potrà essere perquisito. Chi oggi è privato della sovranità e del diritto di decidere sarà, domani, privato anche della sua libertà, potrà essere oggetto di un controllo generalizzato di polizia.

Qui, crediamo, i movimenti che con tanta forza hanno posto il problema dei diritti e della cittadinanza dovranno porsi nuove questioni: in questa radicale perdita di cittadinanza e di libertà, essi incontrano il mondo dei migranti, che da questa stessa perdita è caratterizzato e segnato.

Gli stranieri sono spesso raffigurati e trattati come “nemico interno”: non sono cittadini a pieno titolo, vengono da altrove, eppure abitano con noi. Il loro status, giuridico e sociale, è precario e incerto, in un mondo che aveva pensato la cittadinanza come appartenenza ad una nazione, e che si trova ora attraversato da flussi di persone straniere (flussi, per la verità, non oceanici come si sente dire, ma certamente rilevanti). La loro capacità di decidere sulle questioni che li riguardano è, per così dire, dimezzata dalla mancanza di cittadinanza, di diritti certi e di voce riconosciuta. La loro appartenenza al “nostro” mondo è perennemente messa in discussione. Essi sono dipinti come “gli altri”, e per questo oggetto di sospetti, controlli, ansie di sicurezza.

Questa condizione di “straniero”, fino ad oggi riservata ai migranti, sembra dunque estendersi ed allargarsi. E i migranti possono trovarsi insieme a tutti coloro la cui cittadinanza è dimezzata.

Bisogna però sapere che non si tratta di un incontro tra “soggetti” definiti da una qualche identità. Quella del migrante, del resto, non è una identità unitaria né un modo di essere, ma una condizione nella quale si trovano soggetti diversi. Un cittadino rom, disoccupato e costretto in un “campo nomadi”, ha poco in comune con un giovane senegalese impiegato in una fabbrica conciaria: non la collocazione sociale né la provenienza nazionale, non la cultura né l’identità soggettiva, non il reddito, non la religione né le convinzioni politiche. Ciò che li tiene insieme è la condizione di straniero sancita da una legge dello Stato e da una miriade di pratiche amministrative, burocratiche, poliziesche. Difficile pensare di ridurre questo mondo così complesso ad una identità –quella dell’immigrato- che spesso i diretti interessati rifiutano, e non a caso. Di qui, ci sembra, la grande difficoltà, evidente negli ultimi anni, di costruire un “movimento politico dei migranti”, organizzato e coeso, da affiancare magari al “movimento” in generale (no-global o comunque si voglia definirlo).

Un percorso secondo noi più credibile è quello di non ridurre ad una soggettività unica né i migranti né il variegato mondo confluito a Genova: non pensare –lo diciamo in poche righe e in modo volutamente provocatorio- ad una “linea politica”, ad una direzione, ad una identità comune e a forme organizzative unitarie. Le diversità sono irriducibili, ma la condizione condivisa di non-cittadini, o di cittadini di serie B, apre lo spazio di un incontro di cui occorreranno esplorare le forme e le modalità.

La sfida più difficile è quella di trovare forme di esercizio concreto della cittadinanza: perché quest’ultima non deve essere solo richiesta e rivendicata, ma praticata già da ora. A Brescia, gli stranieri in sciopero della fame provavano a “farsi cittadini”, a costruire la propria voce e la propria autorevolezza, al di fuori dell’esclusione imposta dall’esterno. In modi e forme radicalmente diverse da quelle tradizionali: partitiche, istituzionali, sindacali o “di movimento”. A Brescia e a Genova sono iniziati, in questo senso, degli esperimenti: si tratta di proseguirli.

Sergio Bontempelli ed Elena Tebano